Per Luigi Einaudi un gran vanto dello Stato liberale fu l’aver determinato, nella maggior parte dei paesi civili, un lungo periodo di tempo stabilità della moneta. Oggi, a causa di una politica monetaria eccessivamente lasca, vi è invece il rischio che la moneta induca nuove, magari non imminenti, crisi finanziarie.

La fine marxiana del capitalismo che non c’è stata

Quando Karl Marx formulò le sue previsioni sulla fine del capitalismo, aveva in mente la caduta tendenziale del tasso di profitto*. Alla base di questa tendenza vi era che l’accumulazione di capitale, ossia l’investimento, non sarebbe stata in grado di garantire una produttività costante all’investimento stesso. I capitalisti avrebbero quindi investito con un rendimento decrescente e questo avrebbe portato alla fine del modello di produzione capitalistico. È probabile che Marx pensasse a una fine traumatica, come a una crisi in cui fosse distrutto il valore del capitale eccedentario e al termine della quale si fosse determinato un nuovo modello economico, basato sulla messa in comune del capitale e l’unificazione delle decisioni di investimento.

C’è da domandarsi perché mai il capitale dovesse avere profitti (rendimenti) decrescenti e la risposta sta nel fatto che Marx pensava a mercati finiti, mentre l’ambizione di profitto dei capitalisti non lo è. Conquistato l’ultimo mercato da parte del capitale, si sarebbe verificato il collasso.

Ci sono tre buone ragioni per cui, fino ad oggi, la previsione di Karl Marx non si è avverata. La prima è che i mercati sono finiti solo in teoria, ma nella pratica sono collegati ai bisogni delle persone. Le persone abitanti sul pianeta sono costantemente cresciute di numero, quindi quel limite non si è mai raggiunto, per ora. In secondo luogo, i bisogni delle persone non sono costanti, ma sono sia proporzionati al loro reddito (e quindi fino a che esistono paesi a basso reddito, ci sono mercati che devono crescere per soddisfare i bisogni futuri), sia sono dinamici e mutano nel tempo con la cultura e l’innovazione.

Legata a questa seconda osservazione ve ne è una terza. L’innovazione crea e distrugge: l’industria dell’auto ha distrutto quella delle carrozze; l’industria informatica sostituirà il terziario che si occupava di informazioni strutturabili. Questa distruzione avviene di continuo ma può subire delle accelerazioni quando le innovazioni anziché essere ben distribuite si concentrano. In questi casi, il capitale investito nei vecchi prodotti perde improvvisamente valore di mercato, ossia viene distrutto economicamente. Per fortuna, però, non tutto il prodotto realizzato in un anno viene consumato: parte viene risparmiato e ci sono quindi i mezzi per investire in nuovi prodotti. Il capitalismo, in altri termini, non è arrivato alla crisi finale anche perché attraversa crisi periodiche nelle quali il capitale meno produttivo viene purgato e sostituito da capitale più produttivo. Alla fine di queste crisi, il rendimento medio del capitale che era prostrato risale e così l’incentivo a risparmiare, accumulare a investire non viene meno.

Apparentemente, il capitalismo ha quindi goduto di buona salute negli ultimi due secoli ed è scampato alla legge della caduta del tasso di profitto e ai suoi effetti perché: la popolazione mondiale è cresciuta, il suo reddito è cresciuto e ha fatto aumentare i bisogni, i bisogni sono cambiati grazie all’innovazione. Inoltre, periodicamente, il saggio di profitto medio è risalito quando una delle periodiche crisi ha eliminato d’improvviso il capitale obsoleto e lo ha sostituito con quello nuovo.

La crisi del crack Lehman è scoppiata perché il capitale era stato investito in abitazioni di proprietari che non potevano pagarne le rate, proprio perché i costruttori e gli immobiliaristi avevano cercato di estendere i limiti del loro mercato oltre la frontiera di chi aveva i mezzi per pagare. Sotto questo profilo, la crisi di Lehman è certamente una crisi marxiana, dovuta all’ingordigia di profitti e che non vede il limite della redditività dell’investimento marginale in un settore limitato. Poiché l’investimento non produceva abbastanza redditi per giustificarlo, il mercato si è purgato facendo scendere il valore del capitale reale (i prezzi delle case sono scesi) e riducendo di molto il valore dei crediti di chi aveva finanziato le costruzioni e che aveva il valore delle case per garanzia. L’abbattimento del valore del capitale in un settore (le case vendute ai clienti subprime) si è quindi propagato attraverso il circuito finanziario.

Le banche centrali non possono evitare che quando una crisi è necessaria per purgare i malinvestimenti essa avvenga, ma possono (anzi, devono) fermare il contagio dai settori “malati” a quelli sani. Ciò avviene creando il denaro da imprestare al sistema finanziario, perché non sia costretto a vendere altri asset per pagare le perdite. In buona sostanza, più un’economia fa investimenti “a leva”, più è vulnerabile nei casi delle crisi periodiche del capitalismo, e più l’intervento delle banche centrali è necessario. In un sistema economico con molta leva, a volte eccessiva, gli interventi devono essere tempestivi (e massici), per evitare che una crisi parziale diventi generale e poi sistemica.

Le condizioni che cambiano il playground del capitalismo

Non è detto che quando le cose vanno bene per un paio di secoli e quando vanno particolarmente bene per cinquant’anni (dal 1950 al 2000) siano destinate ad andare così per sempre. A “guastare la festa” dei mercati che crescono senza limiti ci sono per esempio le dinamiche demografiche.

Come si vede in un recente post del 7 Ottobre 2015, la popolazione mondiale continua a crescere, ma la crescita annua sta diminuendo. Il picco di crescita è ormai alle nostre spalle, perché si è verificato nel 1988. Da allora ogni anno la popolazione cresce un po’ di meno. Se poi, anziché prendere l’intero pianeta, si considerano i soli paesi sviluppati più Cina, Brasile e Russia e se si considera la popolazione con meno di 65 anni, ossia quella che consuma di più, la variazione della popolazione è ormai annualmente minima (intorno ai due milioni di persone per anno) e diventerà negativa entro il 2018. In altri termini, il gran traino demografico, che ha promosso lo sviluppo e l’investimento dal dopoguerra ad oggi, si sta esaurendo.

Una semplice identità contabile potrebbe dimostrare che il tasso di crescita generale di un’economia è la somma del tasso di crescita della popolazione più il tasso di crescita della produttività. Se viene meno il primo componente, la crescita finisce tutta nelle mani della produttività, vale a dire nelle mani dell’innovazione. E qui veniamo al secondo punto, ossia alla dinamica della produttività, e al suo rallentamento strutturale in tutte le economie sviluppate.

Il declino della produttività è iniziato più o meno nel 2000 ed attualmente i suoi tassi di crescita sono dell’ordine dell’1 per cento all’anno (erano del 3-4 per cento alla fine del secolo scorso). Quali sono le cause di questo declino? E perché fino al 2000 la produttività cresceva? In questo campo il dibattito è aperto. Vi sono coloro che dicono che le stime sulla produttività sarebbero in generale sottostimate, perché la qualità di ciò che si misura nel tempo cambia. Vi sono però anche quelli che affermano che è la velocità con cui si muove oggi il sistema economico a determinare una caduta della produttività totale dei fattori (che diventa una caduta maggiore o minore della produttività del capitale o del lavoro dopo che il prodotto è stato distribuito).

In altri termini, le comunicazioni sono veloci, le conoscenze tecnologiche sono diffuse, l’istruzione tecnica anche. Il capitale monetario è di più facile reperimento, data la crescita della leva finanziaria in tutto il mondo, e questo comporta che i beni e i servizi nuovi siano imitati rapidamente e il loro prezzo sia presto deflazionato. Nel tempo, pertanto, l’incremento di valore aggiunto che compete all’impresa che ha innovato come premio per il suo rischio e il suo successo è sempre meno difendibile.

Ovviamente, un conto è dire che la crescita della produttività totale dei fattori sia decrescente (cosa che ci sentiamo di affermare per le ragioni appena dette); altro è dire che il tasso di profitto sia in declino tendenziale (la tesi di Marx che porterebbe alla crisi finale del capitalismo). Ad ogni conto, pur restando sul terreno meno scivoloso della produttività, la combinazione di una popolazione del globo che non cresce più (quanto meno nelle classi di età fino a 64 anni e nei paesi sviluppati e nei maggiori emergenti) e di una produttività totale dei fattori ci consegnano una prospettiva di un lungo periodo, dal 2000 in avanti, caratterizzata da bassa crescita strutturale del prodotto e del reddito. Nei sistemi meno efficienti (e tra questi includiamo l’Italia), la bassa crescita strutturale può diventare “stagnazione secolare”.

A questo punto, due domande. Come se la cava il capitalismo in uno scenario di “stagnazione secolare”? E, in secondo luogo, cosa cambia per i banchieri centrali?

Il capitalismo e la stagnazione secolare

La prima risposta è che per il momento il capitalismo se la sta cavando bene. Si stanno infatti riducendo in tutto il mondo i tassi di investimento, il che significa che, contrariamente alle previsioni di Karl Marx, chi investe in capitale reale sta imparando a fare i conti e a proporzionare lo sforzo agli utili che possono derivarne. Inoltre, come è documentato dai rapporti sui flussi di investimenti diretti all’estero, l’eccesso di risparmio che si forma nei paesi sviluppati viene investito, grazie a un sistema finanziario globalizzato e a imprese anche esse globali, nei paesi emergenti e in via di sviluppo. Dopo avere massicciamente investito per soddisfare le masse dei propri consumatori, i paesi sviluppati investono sui consumatori dei paesi in via di sviluppo. I paesi sviluppati investono all’estero 1422 miliardi di dollari per anno. I paesi in via di sviluppo ricevono dall’estero investimenti per 778 miliardi per anno. La ricerca dei mercati prosegue non solo in senso tecnologico (l’innovazione), ma anche in senso geografico (si investe dove i consumi devono ancora crescere).

Ciò a parte, il tasso di profitto non risente solo del tasso di crescita del valore aggiunto. Esso, infatti, può restare stabile anche in condizioni di riduzione della crescita del valore aggiunto, se il rapporto tra profitti e salari tende a salire, o – il che è uguale – se scendono i salari sui profitti. Questo può accadere per molte ragioni: bassa capacità negoziale dei sindacati; sostituzione del lavoro attraverso le macchine e, in futuro, i robot; concorrenza dei salari dei paesi emergenti. Dal punto di vista empirico, la riduzione del quoziente tra salari e profitti è esattamente ciò che è accaduto negli Usa, nei quali dagli anni settanta a oggi il rapporto tra salari e profitti è passato da 12:1 a 6:1 (figura 1). Pertanto, nella maggiore economia a matrice capitalista, anche la riduzione della quota di reddito distribuita ai salari ha consentito la stabilizzazione o il miglioramento dei tassi di profitto, sia pure mentre scendeva la produttività totale dei fattori.

 

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Figura 1 – Andamento del quoziente tra salari e profitti negli USA (scala sx). Nostra elaborazione su dati FRED Database.

 

Nonostante il calo strutturale della produttività totale dei fattori e la riduzione conseguente della crescita del Pil potenziale nei paesi sviluppati, il capitalismo è pertanto riuscito a stabilizzare i tassi di profitto e ad evitare il loro declino, collegato alla profezia marxiana, grazie all’investimento diretto all’estero, grazie alla riduzione del tasso di investimento interno e grazie all’aumento della quota distributiva del reddito ai profitti e alla riduzione della quota distributiva del reddito ai salari. La minore quota del Pil ai salari può d’altra parte costituire un problema per la stabilità delle economie sviluppate, perché ha determinato una crescita delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito che potenzialmente impattano negativamente sulla domanda aggregata.

Le banche centrali e la stagnazione secolare

Le banche centrali sono soggetti essenziali per garantire la stabilità di un’economia capitalista. Il loro intervento, di espansione della base monetaria e rifinanziamento del credito, è doveroso quando le crisi del capitalismo, necessarie e ricorrenti per purgare l’eccesso di investimenti inefficienti, non devono propagarsi troppo oltre i settori ove sono nate.

Dopo l’ultima crisi globale (quella del crack Lehman), le banche centrali hanno interpretato in modo estensivo il loro mandato. Gli interventi di acquisto di obbligazioni hanno infatti non solo rifinanziato la leva del sistema economico per evitare i contagi, ma hanno schiacciato i tassi di interesse per tutti i prenditori di credito. In particolare, hanno rifinanziato i bilanci pubblici e i loro deficit, rendendo sostenibili debiti pubblici che non sarebbero stati tali. Il rischio è che esse non abbiano correttamente individuato il limite di sostenibilità della loro politica. Se, infatti, la prospettiva di lungo termine dei paesi sviluppati è quella della “stagnazione secolare”, la quantità di debiti sostenibili sulla base della crescita futura potrebbe essere sovrastimata. Non solo, come ammonisce la BIRS, i tassi troppo bassi determinano la persistenza di eccessivi investimenti nei settori a bassa crescita della produttività (come l’immobiliare), con penalizzazione della traiettoria del prodotto (Pil) potenziale.

Le banche centrali devono stabilizzare i prezzi e, nelle crisi, evitarne la propagazione. Sbagliano se invece cercano di utilizzare la moneta per finanziare gli indebitamenti (privati ma soprattutto pubblici) e così compensare la mancanza di vigore dell'economia mondiale (in crescita del solo 2,6 per cento all'anno per i motivi anzi esposti).

I debiti non sono sostituti efficienti della popolazione che manca nei paesi sviluppati, perché i debiti devono essere restituiti, mentre le dinamiche demografiche non si invertiranno e sono prevedibili di qui alla fine del secolo.

In assenza di un'accelerazione della produttività i banchieri centrali rischiano di creare la più grande bolla di debiti mai vista. La moneta e il deficit non restituiscono il passato, frutto di un momento storico caratterizzato da punti cardinali che non ci sono più. Uno storico non avrebbe mai commesso gli errori di Abe, perché saprebbe che i corsi e ricorsi storici non riguardano i fatti della storia, ma i comportamenti degli uomini nella storia. Sono gli uomini che si ripetono, mentre la storia si rinnova, i periodi aurei non tornano, e comunque mai uguali a quelli storici. La crescita degli anni sessanta-ottanta è finita. La moneta facile non ne farà il rewind.

Scriveva Luigi Einaudi**: “Gran vanto dello Stato liberale del secolo XIX fu l’aver dato, per la prima e l’unica volta nella storia di un lungo periodo di tempo, e per la maggior parte dei paesi civili, stabilità alla moneta”. Questa eredità è a rischio. Oggi, rischiamo all’opposto che la moneta carichi la molla di nuove, magari non imminenti, crisi finanziarie. Crisi non più determinate dalla fisiologia del capitalismo, ma dalla patologia della politica monetaria eccessivamente lasca.

 

Riferimenti

 * La legge marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto è svolta nel III libro de Il Capitale, III sezione.

** Luigi Einaudi, Lineamenti di una politica economica liberale, Roma, Movimento Liberale Italiano, 1943; Milano, Delegazione Alta Italia Pli, 1945; Roma, Pli, 1945.