La sempre meno irrealistica candidatura di Trump alla Presidenza degli Stati Uniti ravviva gli attacchi dei suoi avversari, di recente focalizzati sui redditi del miliardario repubblicano. Ma è in materia di politica estera che l’elezione di Trump aprirebbe scenari imprevedibili e rischiosi, soprattutto per l’Europa.

Gli alleati europei dell’America hanno buoni motivi per nutrire forti dubbi e profonde preoccupazioni circa la possibile politica estera di Donald Trump. Ma a ben vedere, anche Hillary Clinton è fonte di non poche apprensioni associate in particolare alle sue tendenze di “falco”, certamente marcate in confronto alla cautela che ha accompagnato la gestione strategica di Barack Obama. Trump ha introdotto un elemento nuovo e dirompente nel tradizionale assetto dei rapporti con gli alleati europei quando ha tirato in ballo il mostro sacro della NATO. In parole povere, Trump si è posto una domanda che molti Americani giudicano legittima, se cioè i contribuenti degli Stati Uniti debbano o meno continuare a pagare per la difesa dell’Europa, una regione ricca e quindi capace di provvedere alle proprie esigenze strategiche. Avendo aperto una vera scatola di Pandora, il virtuale candidato repubblicano alla presidenza ha messo in discussione l’evoluzione dell’alleanza atlantica in un meccanismo che genera coalizioni da hoc - definite da tempo come “coalitions of the willing” ossia di quei Paesi che sono disposti a collaborare – pur lasciando agli Stati Uniti la responsabilità di rispondere alle crisi sul fronte globale. In verità, l’insofferenza di Trump nei confronti degli alleati europei è di vecchia data; “gli Stati Uniti – va dicendo da tempo – dovrebbero cessare di pagare per la difesa di Paesi che possono permettersi di difendersi da soli”.

Queste enunciazioni hanno rafforzato la convinzione di molti che Donald Trump sia un “non interventionist”, una posizione che logicamente milita per un certo distacco anche dagli imperativi della sicurezza europea. Per contro, è accertato che le enunciazioni di Trump siano soggette a svolte e modifiche a seconda dei suoi umori elettorali. Un esempio tra tanti: dopo aver dichiarato che sarebbe stato un “neutral party” in eventuali negoziati tra Israele e i Palestinesi, Trump ha assicurato in un discorso all’AIPAC, la potente lobby ebraica, che se venisse eletto non esiterebbe a spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, una decisione che per certo seppellirebbe ogni possibilità di realizzare uno stato palestinese. Vero è che fino a questo momento Trump non si è contraddetto sull’annunciato proposito di far pagare di più ad altri Paesi per la presenza americana del mondo o, nel caso dei Messicani, per la costruzione di un muro che impedisca l’ingresso di “stupratori e portatori di droghe”.

Donald Trump sostiene con insistenza di non essere un “isolazionista” ma piuttosto “American first” ovvero innanzi tutto un Americano. È uno slogan in verità antico e quindi logoro, ma ogni sondaggio di opinione pubblica non lascia dubbi sul fatto che una massa di Americani, principalmente bianchi ma non solo bianchi, appartenenti alla impoverita classe media, è insorta contro lo “establishment” e contro i “party bosses” del partito repubblicano ed in misura minore, ma pur sempre marcata, contro la tradizionale leadership del partito democratico, messa in stato di accusa dal Senatore Bernie Sanders. Il fenomeno di un capitalista che sotto il profilo etico e politico rappresenta un’aberrazione ma che prevale agevolmente su diciassette aspiranti presidenziali del Grand Old Party rivela purtroppo il degrado della classe politica americana, rea di ignorare il diffuso malessere di tanti Americani che soffrono le conseguenze della globalizzazione, di un mercato del lavoro depresso dall’immigrazione e del libero commercio. È difficile accettarlo, ma milioni di Americani disillusi ed emarginati vedono nel ricco e spregiudicato uomo d’affari l’immagine delle loro aspirazioni. Resta il fatto che nessun candidato presidenziale repubblicano, neppure Ronald Reagan, abbia mai fatto appello al risentimento sociale e alle angustie economiche degli Americani bianchi nella misura in cui è riuscito a farlo Trump.

In uno scenario politico dominato da risentimenti e cinismo, è comprensibile che la politica estera svolga un ruolo secondario, ma quanto dichiarato da Trump comunque non diminuisce le apprensioni degli alleati e partner dell’America. Vero è che Donald Trump minaccia di tagliare i fondi destinati alla NATO e alle Nazioni Unite, di imporre al Giappone, alla Corea del Sud e all’Arabia Saudita di pagare di più per lo scudo protettivo americano, e di costringere la Germania e gli stati del Golfo Persico ad impegnarsi finanziariamente nella Siria e nella lotta contro il terrorismo islamico. Quanto alla NATO, Trump non dimentica che nel caso della Libia, dopo la decisione unanime di lanciare operazioni militari contro Gheddafi, neppure la metà dei Paesi membri partecipò a tali operazioni e meno di un terzo svolse missioni di bombardamento contro bersagli terrestri. Nella logica di un uomo che ragiona in termini di “business”, gli Stati Uniti dovrebbero estrarre maggior valore dai loro rapporti con gli alleati, considerando soprattutto il colossale debito americano verso l’estero che attualmente supera i 19 trilioni di dollari.

La rediviva politica dell’America First di Donald Trump si distingue decisamente dalle enunciazioni di politica estera di Hillary Clinton, destinata a strappare la nomination democratica in una convenzione che si svolgerà all’insegna di lunghi coltelli tra la leadership tradizionale e la “rivoluzione politica” di Bernie Sanders. Hillary è chiaramente più incline a lanciare interventi militari rispetto al suo avversario repubblicano di Novembre. Di lei si dice che sia disposta a “fare qualcosa” ed essere criticata per un’eventuale azione piuttosto che essere criticata per “non aver fatto nulla”. Se venisse eletta, agirebbe da comandante in capo alla maniera di Golda Meir, con il calcolo di annullare accuse di debolezza femminile che le verrebbero inevitabilmente rivolte dai conservatori repubblicani. A proposito della crisi nel Medio Oriente, pur non favorendo operazioni terrestri su vasta scala, Hillary Clinton ha proposto la creazione di “zone sicure” e di una “no-fly zone” in Siria, con innegabili impliciti rischi. La Casa Bianca ha immediatamente respinto l’idea della “no fly zone” definendola “inefficace e un cattivo impiego di risorse”. Gli esperti di Washington peraltro ritengono che qualora eletta, Hillary si troverà costretta a moderare i suoi istinti di “falco” per una condotta più prudente, in omaggio anche al fatto che rispetto a Trump e a Sanders la sua formazione politica è stata influenzata da un convinto “internazionalismo”.

In conclusione, gli alleati europei non sono minacciati di abbandono da parte di un’eventuale amministrazione Trump ma sono chiamati a negoziare su aspetti dei rapporti economici e sull’equazione di sicurezza atlantica che fino ad oggi non erano entrati in discussione. Per contro, non mancano risvolti positivi come la previsione che l’ascesa al potere di un personaggio sensibile agli umori isolazionisti dell’America escluderà dai giochi di potere lo zoccolo duro dei neoconservatori che ha portato l’America ad impelagarsi nel Medio Oriente. In ogni caso, la possibile elezione di Donald Trump, inconcepibile sei mesi fa, non mancherebbe di aprire un capitolo di rapporti delicati e imprevedibili con la vecchia Europa per non parlare del contenzioso con la Cina che a sua volta finirà col creare scenari altrettanto imprevedibili.