Secondo alcuni analisti tra Europa e USA, da un lato, Russia e Cina, dall’altro, è in atto una nuova guerra fredda, giocata più sugli interessi economico-finanziari che non politico-militari o ideologici. In questo quadro si colloca il progetto cino-russo del nuovo C919. La “svolta a Oriente” non è però così facile.

Il nuovo aereo a fusoliera larga che sfiderà il duopolio Boeing-Airbus dovrebbe nascere dal progetto dell'Iliuschin-96, di ancora sovietica memoria, e avere un cuore russo di ingegneria ed elettronica e un corpo cinese. Un velivolo destinato a rotte lunghe, con un'autonomia da 12 mila chilometri e 250-280 posti, da far decollare per il 2023 con l’idea di creare un polo asiatico in un mercato governato per ora dagli occidentali.

Il progetto è uno dei tanti che Vladimir Putin conta di varare durante la sua imminente visita a Pechino. La capitale cinese è quella che frequenta di più dall'inizio della crisi ucraina, e ogni volta si tratta di una visita sontuosa, con una delegazione russa di più di 100 funzionari, consiglieri e tecnici, che riporta a casa decine di contratti, protocolli e intese in ogni campo di cooperazione. Dai satelliti all'energia, dai missili all'agricoltura, passando per il progetto di una piattaforma congiunta Shanghai-Mosca per la vendita dell'oro e la nuova ferrovia Harbin-Ekaterinburg, che in soli 10 giorni invece dei precedenti 40 trasporterà merci dall'ex città degli immigrati russi in Cina alla capitale degli Urali. Ma ora il Cremlino vuole andare oltre: il vicepremier Igor Shuvalov ha annunciato l'inizio di un negoziato che dovrebbe portare l'Unione euroasiatica - la nuova alleanza postsovietica tra Russia, Kazakistan, Bielorussia, Armenia e Kyrgyzistan - a un accordo commerciale con la Cina, per garantire il libero movimento di merci. Il negoziato dovrebbe concludersi in 10 anni ma, ammette Shuvalov, "non sarà facile": i cinesi chiedono già la totale abolizione, o almeno una drastica riduzione dei dazi doganali.

È la famosa "svolta verso Oriente", annunciata dalla Russia dopo lo scoppio della crisi ucraina e lo scontro con l'Occidente che ha portato alle sanzioni europee e americane, e soprattutto alle "controsanzioni" russe ben più estese. Personaggi molto vicini a Putin sono stati lobbisti altolocati di Pechino: l'oligarca Ghennady Timchenko, presidente del comitato per il business sino-russo, ha sfoggiato pubblicamente la sua carta di credito cinese (essendo sotto sanzioni americane), mentre cercava di ottenere da Pechino finanziamenti per la sua Novatek, il maggior produttore indipendente di gas russo. La Russia ha aderito al progetto cinese della "Via della Seta", mettendo da parte almeno per il momento il timore che Pechino le sottragga la storica influenza sull'Asia Centrale ex sovietica. E su tutto continua a dominare il ciclopico gasdotto "Potenza della Siberia", che dal 2018 dovrebbe portare in Cina 38 miliardi di metri cubi di metano all'anno, un negoziato durato 10 anni e concluso da Putin durante una delle sue visite a Pechino, nel maggio 2014, due mesi dopo l'annessione della Crimea.

Una svolta che però appare più imponente - e potenzialmente minacciosa soprattutto per gli Stati Uniti - di quello che risulta in realtà. Dietro alle formule di cortesia e assicurazioni reciproche le difficoltà sono sempre più evidenti, e la quantità di promesse di entrambe le parti di rispettare i tempi della messa in funzione del gasdotto sembrano inversamente proporzionali a quelli della sua realizzazione. Gazprom ha annunciato di recente di aver dimezzato la lunghezza del tratto da costruire nel 2016: 400 km invece di 800, su una lunghezza totale di 5000. Gli analisti più scettici dubitano che il progetto si realizzerà: il prezzo del gas su cui è stata chiusa la trattativa non è mai stato rivelato, ma da stime e indiscrezioni sembrava che riuscisse a malapena a coprire i costi russi già nel 2014. Oggi, con il prezzo del petrolio (che funge da base per il prezzo del metano) dimezzato, e gli enormi investimenti cinesi nelle rinnovabili, il progetto potrebbe non essere più fattibile economicamente: troppo gas per troppi pochi soldi.

La situazione non è migliore in altri settori dell'economia. L'obiettivo strategico di Mosca e Pechino è arrivare a un interscambio di 200 miliardi di dollari nel 2020, ma intanto nel 2015 il numero è sceso del 27,8%, a 64,2 miliardi, con le esportazioni cinesi crollate del 34,4% (dati delle dogane cinesi). Entrambe le economie non stanno passando il momento migliore: la Cina come minimo rallenta, e la Russia è in recessione e conta essenzialmente su un rialzo del prezzo del petrolio per riprendere a consumare. I vagoni della ferrovia Harbin-Ekaterinburg portano in Russia merci, ma tornano più o meno vuoti: quella russa resta fondamentalmente un'economia di materie prime, che i cinesi non consumano avidamente come negli anni precedenti. E anche i numerosi progetti di cooperazione minori, come i fondi per finanziare progetti agroalimentari e sviluppare le imprese russe, riflettono più che altro il mito ormai globale dei cinesi pieni di soldi e pronti a investirli ovunque: "I Cinesi praticano condizioni da strozzini", rivela una fonte imprenditoriale russa, che sostiene come resti più facile ottenere finanziamenti e prestiti in Occidente che in Cina, nonostante le sanzioni.

La durezza negoziale dei cinesi viene confermata da più parti: nonostante segnali negativi, la potenza economica di Pechino è incomparabile, così come la tenacia nel promuovere i propri interessi e imporre condizioni a favore dei Cinesi (che hanno avuto da ridire anche sui costi stimati dai Russi per realizzare il gasdotto, appaltato a società russe legate alla cerchia di Putin, e finanziato in buona parte a credito da Pechino). Nelle ultime settimane l'argomento viene discusso molto, tra il vertice dei Paesi del Pacifico Asiatico ospitato da Putin a Sochi e il prossimo vertice con Xi Jinping a Pechino. Solo nell'ultima settimana di maggio a Mosca si sono tenute due conferenze sulla "svolta a Oriente", con molti pareri scettici (anche dalla parte cinese). Il presidente della Duma Serghey Naryshkin ha ritenuto necessario replicare con una dichiarazione di rimprovero, affermando che negli ambienti governativi e imprenditoriali dei due Paesi "prevale l'ottimismo". Ma perfino il portavoce del Cremlino è stato piuttosto freddo riguardo alla "svolta a Oriente", preferendo parlare di aperture su tutti i fronti.

Uno dei problemi della "svolta a Oriente" è economico: l'interscambio con la Russia è appena l'un per cento del totale per i Paesi del Pacifico Asiatico, e consiste essenzialmente in materie prime russe contro manufatti asiatici. L'altro motivo è meno pragmatico e più politico: negoziare con le grandi società cinesi, nota Vassily Kashin dell'Istituto dell'Estremo Oriente dell'Accademia delle scienze russa, significa negoziare in ultima analisi con il governo cinese. La stessa cosa vale in buona parte per i Russi, e così gli interessi di potere, di influenza e di sicurezza si intrecciano e si scontrano, come per esempio in Asia Centrale. Il momento giusto era quello in cui "Mosca era letteralmente pronta a tutto", quando la rottura con l'Occidente e la svalutazione drastica del rublo aveva distrutto le ambizioni di Putin alla fine del 2014. Ma i Cinesi "sono stati lenti a cogliere l'occasione". Oggi la pretesa della petrolifera CNPC di acquisire una quota di controllo di Rosneft, la major statale controllata da uno degli uomini di maggior fiducia di Putin, viene accolta a Mosca con molta prudenza.