A Shimon Peres, scomparso nella notte tra il 27 e il 28 settembre 2016, Obama ha riconosciuto il merito di aver segnato profondamente e positivamente la politica estera di Israele. Ma a pochi mesi dalla fine del mandato presidenziale, qual è il lascito strategico e militare di Obama per il suo paese?

Il dibattito sulle elezioni presidenziali è ormai entrato nel vivo. Le analisi dedicate ai canditati e alle loro agende politiche sono numerose. Minore attenzione è stata invece dedicata a come si chiuderà il doppio mandato del presidente uscente Barak Obama e in particolare a quale eredità lascerà al suo successore. Il tema è ampio e controverso, per cui qui ci si soffermerà esclusivamente sulla politica militare di Obama e sulle strategie di lungo periodo che il o la nuovo/a inquilino/a della Casa Bianca dovrà, volente o nolente, avvallare.

Sotto l’amministrazione Obama il coinvolgimento americano nei conflitti mondiali è aumentato sia a seguito di scelte politiche quanto meno controverse sia a seguito di scelte tattico-strategiche in cui il maggiore intervento americano è stato mascherato dietro una più leggera presenza sul terreno. Gli esempi più chiari in questo senso sono l’aumento esponenziale dell’impiego di droni armati per le operazioni di targeted killing e l’uso sempre più massiccio di forze speciali.  I droni armati, in particolare, sono forse l’aspetto più controverso della recente politica estera statunitense. Dietro questa politica vi sono infatti implicazioni morali e giudiziarie non irrilevanti, legate sia alla legittimità di un’azione preventiva a danno di soggetti sospettati di essere pericolosi milizianti sia alla realizzazione di attacchi mirati su suolo straniero, in aperta violazione del diritto internazionale. Va inoltre sottolineato che spesso le autorità del paese in cui avviene l’impiego dei droni non è informato di questo genere di operazioni, anche perché spesso si tratta di un failed state privo di un governo riconosciuto.

D’accordo con alcuni opinionisti e analisti (ad esempio Simone Regazzoni in Stato di legittima difesa. Obama e la filosofia della guerra al terrorismo), il drone armato è sicuramente l’arma che meglio rappresenta la politica estera di Obama. Infatti, i droni sono un elemento portante della strategia di lungo corso intrapresa dagli USA (anche con l’impiego di una terminologia fallace) per abbattere la minaccia del “terrorismo internazionale”. La tecnologia del drone ha radici lontane, risalenti ai precursori dei moderni velivoli sviluppati tra le due guerre mondiali per l’addestramento dei piloti. Durante la guerra del Vietman, poi, gli Stati Uniti iniziarono a sviluppare droni capaci di compiere voli di ricognizione, ma con la fine del conflitto il progetto venne cancellato. A inizio anni ’80, fu invece Israele a utilizzare con successo i droni e ad aprire la strada per la ricerca e lo sviluppo di questi velivoli. Sulle orme degli Israeliani, gli Stati Uniti iniziarono dapprima a sviluppare droni per la sola sorveglianza/ricognizione, passando in seguito a quelli armati.

Il primo attacco americano, per quanto si sa, si registrò in Afghanistan nell’autunno del 2001, nelle primissime fasi dell’operazione Enduring Freedom, e aveva come obiettivo l’eliminazione del Mullah Omar (che però venne mancato). Ad ogni modo, rispetto alla classica strategia militare e politica statunitense, questo attacco e quelli che seguirono nei mesi successivi in Afghanistan, anche in appoggio alle truppe sul terreno, non rappresentano un elemento di forte discontinuità: sono solamente un modo diverso di impiegare il potere aereo all’interno di un teatro operativo riconosciuto come tale.

L’approccio mutò invece radicalmente circa un anno dopo, quando alla CIA venne concessa l’autorizzazione di uccidere Al-Harethi, considerato l’ideatore dell’attacco alla USS Cole nel 2000. L’operazione ebbe successo, ma avvenne in territorio yemenita e il governo locale, che prima della guerra civile scoppiata nel 2015 era uno stretto alleato degli Stati Uniti, se ne assunse la responsabilità. Si trattò dunque di un’operazione condotta fuori da una zona di guerra: una tendenza che la presidenza Obama ha trasformato in prassi comune.

Se, infatti, la precedente amministrazione Bush impiegò questo strumento tattico solo in rare circostanze (fino al 2007 si contano 11 attacchi in Pakistan e solo quello appena ricordato in Yemen), l’amministrazione Obama, al contrario, fin dai primissimi giorni autorizzò decine di operazioni in vari Paesi. In Pakistan dal 2008  al 2016 (i dati del 2008 andrebbero però scorporati tra le due amministrazioni) si sono registrati ben 318 attacchi con una punta di 117 nel 2010 e poi una tendenza a decrescere - probabilmente anche a seguito delle proteste pakistane dopo il raid che portò alla morte di bin Laden - stabilizzandosi su una media di circa 25 attacchi all’anno, a partire dal 2011. In Yemen, invece, il primo raid targato Obama è avvenuto nel 2009 e da allora sono stati in tutto 154 con una certa costanza negli ultimi anni A queste operazioni vanno poi aggiunte quelle in Iraq e Siria nel quadro dell’operazione Inherent Resolve contro lo Stato Islamico e in Afghanistan, oltre a quelle più rare in Libia e Somalia.

In generale, i droni vengono impiegati per la loro presunta precisione nel colpire l’obiettivo designato, evitando inutili spargimenti di sangue. Spesso però avviene che l’azione offensiva provochi comunque alcuni danni collaterali colpendo civili inermi. Come è facile immaginare, i dati sulle vittime involontarie provocate dai droni sono piuttosto discordanti, ma vista la quantità di operazioni condotte, è realistico pensare che siano qualche centinaia come minimo. E poiché i velivoli senza pilota rappresentano un tassello centrale della strategia “anti-terroristica” americana, che non potrà essere rimosso o modificato tanto facilmente e rapidamente, questo è chiaramente un rilevante problema politico che l’amministrazione Obama lascerà in eredità al prossimo Presidente. Per cambiare questo approccio e strategia bellica il/la nuovo/a inquilino/a della Casa Bianca dovrà lottare non poco e attendere molto tempo, sempre che si trovino strumenti alternativi e che si abbia la capacità e la volontà politica di cambiare. Non è infatti un segreto che Hillary Clinton su queste tematiche sia sempre stata in linea con il suo Presidente.

Inoltre la strategia impostata da Obama si basa su un altro elemento cruciale, ovvero l’impiego sul terreno delle forze speciali e di un “esercito” di contractors. Le Forze speciali hanno conosciuto un aumento esponenziale sia del loro impiego nei più disparati teatri (più di 100 Paesi con una varietà di compiti da operazioni di addestramento e assistenza a veri e propri raid) sia nel numero di unità e dei rispettivi membri. Anche in questo caso si tratta di uno sviluppo dottrinale che ha radici più lontane nel tempo rispetto all’amministrazione Obama, ma è indubbio che quest’ultima si sia affidata a questi soldati di élite in modo sempre più massiccio. Sebbene con risultati spesso inadeguati (basti pensare allo Yemen, dove per anni sono stati dislocati operatori senza riuscire a sradicare i gruppi salafiti né a consolidare il governo locale), anche in questo caso, i numerosi progetti inaugurati, i consistenti fondi stanziati e le strategie sviluppate, rendono per il successore di Obama estremamente difficile poter mutare radicalmente indirizzo.

La seconda componente terrestre della strategia di Obama riguarda l’impiego di contractors. Già stati ampiamente assunti dal Pentagono a partire dalla metà degli anni ’90, essi sono stati impiegati con un aumento esponenziale durante le guerre di Bush in Afghanistan e Iraq. Con Obama il fenomeno si è ulteriormente ampliato e secondo alcuni studi (va ricordato che non esistono dati ufficiali sull’impiego dei contractors da parte dell’amministrazione americana) in Afghanistan sono presenti 3 contractors per ogni militare americano, in Iraq sono circa 2. Complessivamente si parla di 1540 contrators dal 2009 tra Iraq e Afghanistan, a fronte di 1301 militari, senza contare i contractors legati alla CIA o ad altre agenzie.

Un ultimo aspetto del lascito fortemente interventista (anche se non sembri) di Obama è quello relativo all’esportazioni delle armi. Infatti, l’amministrazione Obama è quella che ha venduto più armi nel mondo dalla fine della Seconda Guerra mondiale: circa 190 miliardi di dollari nei soli primi 6 anni di mandato. Ciò è frutto anche di una politica più permissiva verso l’esportazione di materiale bellico (a fronte, invece, di una retorica interna contro la vendita delle armi).

Nonostante il Nobel per la Pace, la combinazione di questi elementi strategici e politici (massiccio utilizzo dei droni, delle forze speciali e di contractors e un’esportazione maggiore di armi) ha fatto sì che alla fine di questi 8 anni di governo l’amministrazione Obama sia considerata come la più impegnata militarmente dal 1945. I fronti aperti, infatti, sono numerosissimi dall’Afghanistan all’Iraq (che ha ereditato dalla precedente amministrazione, anche se il coinvolgimento in Iraq rappresenta in toto una nuova missione), dalla Siria alla Libia. Somalia, Yemen, Sud America rappresentano fronti diversi ma pur sempre attivi.

Questa è dunque l’eredità strategica e militare che Obama lascia al suo successore. Un'eredità che non sarà facile gestire e che avrà ripercussioni quanto meno sul medio termine. Allo stesso tempo l’interventismo obamiano, pur diverso rispetto a quello del predecessore Bush, non ha certo creato un mondo più pacifico. Anzi, almeno per quanto riguarda la regione del Mediterraneo, la politica ambigua e ambivalente di Obama ha facilitato i processi di instabilità e ha lasciato spazio ai sommovimenti geopolitici. La politica non chiara in Ucraina, le linee rosse mai rispettate in Siria, il frettoloso ritiro dall’Iraq (salvo poi dover far marcia indietro, per cui ora sono più di 5.000 i soldati americani nel Paese), la questione libica, la gestione delle relazioni con l’Egitto sono tutte decisioni di lungo periodo che chiunque vinca tra Hillary Clinton e Donald Trump si troverà sul tavolo, senza quasi potervi intervenire nel breve termine.