Il no al referendum è coerente con la prospettiva liberale perché evita di dare attuazione a una riforma che crea un sistema anomalo di rapporti orizzontali, relativi alla separazione dei poteri, e rapporti verticali, relativi al riparto di competenze tra Stato centrale ed enti territoriali.

 

I principi cardine del costituzionalismo

Per valutare la riforma costituzionale che il 4 dicembre prossimo gli elettori italiani saranno chiamati a votare vorrei prender spunto da alcuni dei principi cardine del costituzionalismo.

Come ricordava Nicola Matteucci riprendendo l'opera di Carl Friedrich (Constitutional Governement and Democracy) “l'assolutismo, in tutte le sue forme, prevede la concentrazione dell'esercizio del potere, il costituzionalismo, al contrario, la ripartizione dell'esercizio del potere”.

Sino al XIX secolo il costituzionalismo era il costituzionalismo liberale tout court, in quanto il costituzionalismo altro non era che la tecnica della libertà, ovvero quella tecnica mediante la quale ai cittadini viene assicurato l'esercizio dei loro diritti individuali e, al contempo, lo Stato è posto nella condizione di non poterli violare.

In tale definizione del costituzionalismo è evidentemente presente anche il calco dell'idea di libertà propria di Thomas Jefferson, per il quale “la fiducia è sempre la madre del dispotismo: la libertà politica è fondata sul sospetto e non sulla fiducia. È il sospetto, e non la fiducia, che ci impone di stabilire dei limiti costituzionali, al fine di vincolare quelli a cui affidiamo il potere. Di conseguenza la nostra costituzione [quella americana, N.d.A] ha stabilito entro quali limiti può spingersi la nostra fiducia”.

Se questi principi generali sono condivisi, ed oggi lo sono non solo da parte di coloro i quali si professano liberali, è da questa prospettiva che vorrei tentare di spiegare le mie riserve nei confronti del testo della Riforma costituzionale, e, di conseguenza, le mie ragioni per il No.

Le ragioni del No

Tali ragioni riguardano tanto il profilo dei rapporti orizzontali, relativi alla separazione dei poteri, quanto il profilo dei rapporti verticali, relativi al riparto di competenze tra stato centrale ed enti territoriali. A chi scrive, a differenza di forse troppi sostenitori del No, poco o punto interessa la sorte dell'attuale Governo, il cui Presidente del Consiglio aveva, all'inizio ed inopportunamente, dichiarato di voler legare a filo doppio la sorte del proprio dicastero. Le ragioni di contrarietà sono piuttosto legate al merito della Riforma che interviene con l'intenzione di porre rimedio a pretesi limiti dell'attuale assetto costituzionale, sotto entrambi i profili indicati.

Nessuno nega che storicamente i testi costituzionali, e con essi quello della Repubblica Italiana, siano stati frutto di un compromesso tra diverse visioni del mondo (un tempo si sarebbe detto di ideologie). Troppi sarebbero gli esempi, presenti nella prima parte della Costituzione repubblicana, utili per avvalorare tale conclusione. Per certo, però, la seconda parte della Costituzione, in cui sono regolati sia il profilo orizzontale che quello verticale del riparto di potere, rappresentava per certo una scelta in favore dei principi caratteristici delle cosiddette democrazie liberali, sebbene con le cautele proprie di un paese collassato sotto le macerie delle Seconda Guerra Mondiale e, ancor prima, sottoposto allo svuotamento dei principi costituzionali dello Statuto Albertino ad opera del fascismo, tanto da far prediligere all'Assemblea costituente la scelta di una democrazia parlamentare, cercando di contenere innanzitutto i poteri dell'esecutivo.

Da tale scelta, e dalla pratica di settant'anni di democrazia, la Riforma costituzionale proposta al voto popolare vorrebbe far derivare la necessità di una revisione dell'assetto orizzontale, ritenendo responsabile della instabilità degli esecutivi le scelte dei costituenti. Per far ciò il testo della Riforma propone di affidare il rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo ad un solo ramo del primo, la Camera.

Ora, dovrebbe esser noto che gli unici casi di crisi parlamentari propriamente dette di cui è stata testimone la democrazia repubblicana italiana sono solamente due: nel 1998 e nel 2008 (in entrambi i casi durante i due Governi Prodi). Tutte le altre crisi di governo sono state crisi “extraparlamentari” e sono nate all'interno dei partiti politici che costituivano le singole maggioranze: o per contrasti tra le diverse correnti di ciascuno di essi, o per conflitti tra i partiti di maggioranza. Di qui l'avvertita necessità di tentare di ovviare alla instabilità dei Governi mediante la riforma della legge elettorale (prima nel 1953, ovvero già al termine della prima legislatura, con la cosiddetta Legge Truffa; poi con la Riforma parzialmente maggioritaria del 1993, detta Mattarelum; poi con la legge del 2006, proposta dall'allora Ministro Calderoli e nota, per la sapida vis corrosiva del professor Sartori, come Porcellum).

È pur vero che la legge elettorale approvata nel corso dell'attuale legislatura (il cosiddetto Italicum, per amore del latinorum caro ai giuristi) non è sottoposta al giudizio degli elettori, ma il suo meccanismo direttamente si riverbera sulla struttura dei poteri orizzontali e sugli assetti costituzionali (Calamandrei). Infatti tale legge interviene prevedendo un ampio premio di maggioranza (pari al 55% dei seggi della Camera) al partito che superi al primo turno il 40% dei voti ovvero, in caso ciò non si verifichi, al partito che vinca il ballottaggio previsto tra i primi due partiti al primo turno.

A tale previsione si associa la struttura del nuovo Senato che prevede per la sua composizione la presenza di 95 Senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali ed un numero massimo, ma eventuale, di 5 Senatori di nomina presidenziale.

La prima anomalia è costituita dal fatto che i Senatori rappresentanti delle istituzioni territoriali debbano esser eletti a livello territoriale in numero proporzionale al numero degli abitanti. Ora, se il Senato deve rappresentare gli enti territoriali non si comprende perché questi debbano avere un peso politico proporzionale agli abitanti: è infatti la Camera a rappresentare l'assemblea politica (e quindi dove la rappresentanza è per teste) mentre avrebbe avuto più senso prevedere che gli enti territoriali avessero una rappresentanza uniforme (appunto: per enti, e non per teste). Tale meccanismo è presente nella Costituzione federale americana (dove al Senato ciascuno stato, dal piccolo Connecticut alla popolosa California, elegge sempre e solo due Senatori).

Inoltre, il testo della Riforma non stabilisce le modalità di nomina dei Senatori (che avverrebbe mediante un'elezione indiretta, posto che questa spetta agli enti territoriali e non direttamente al popolo). Il Senato, però, unitamente alla Camera, partecipa alla elezione degli organi di garanzia (dalla Presidenza della Repubblica ai membri della Corte costituzionale).

Per l'elezione degli organi di garanzia i quorum stabiliti dalla Riforma rendono possibile al partito di maggioranza alla Camera (che disporrebbe del 55% dei seggi) l'elezione dei suoi componenti, dalla Presidenza della Repubblica sino, tramite questa, alla nomina di 2/3 dei membri della Corte costituzionale. Per la Corte Costituzionale, poi, si prevede una disparità eccessiva tra membri eletti dalla Camera e membri eletti dal Senato: mentre la prima con 630 Deputati eleggerebbe 3 giudici costituzionali, il secondo, composto da 100 Senatori, ne eleggerebbe 2. Tali rilievi paiono porre in contrasto la Riforma costituzionale con la necessità di assicurare che gli organi di garanzia siano adeguatamente bilanciati rispetto alle maggioranze del Parlamento tutelando adeguatamente le minoranze.

D'altronde il Legislatore, e principalmente il Legislatore costituzionale, deve sempre porsi dietro il velo d'ignoranza rawlsiano quando stabilisce una regola: non è infatti possibile escludere che un tale assetto di poteri possa essere gestito da maggioranze (recte: minoranze trasformate in maggioranze) populiste. Tali scelte rischiano di concentrare eccessivamente il potere orizzontale in capo alla maggioranza politica (e con questa in capo al potere esecutivo), con evidente crisi del sistema di pesi e contrappesi tipico del costituzionalismo liberale.

Inoltre, a fronte di un rafforzato potere politico della Camera dei Deputati, dalla quale sola deriva quindi il rapporto di fiducia con l'Esecutivo, si sarebbe dovuto prevedere, proprio in ragione della invocata necessità di una maggior prevalenza della governabilità (a scapito della rappresentatività), il meccanismo della “sfiducia costruttiva”, che avrebbe reso meno necessario un ortopedico intervento sul sistema elettorale, ma del pari garantendo una adeguata stabilità degli Esecutivi.

Ed ancora, in un assetto di potere fortemente maggioritario avrebbe dovuto esser disciplinato a livello costituzionale il ruolo delle opposizioni, attribuendo a queste autonomi poteri di indagine e di controllo, magari prevedendo e costituzionalizzando lo statuto delle opposizioni.

Si è detto che uno dei pregi della Riforma è il superamento del Bicameralismo paritario (ovvero il meccanismo per il quale Camera e Senato hanno gli stessi poteri non solo nei confronti del Governo ma anche in materia legislativa). Ora, le colpe del Bicameralismo paritario possono esser molte, ma ve n'è una che potrebbe respingere al mittente con malcelato orgoglio: infatti tale sistema istituzionale non ha impedito al Parlamento italiano di legiferare, al punto che il problema del sistema normativo italiano non è la mancanza di leggi, bensì il suo opposto, l'eccesso di leggi. Tale eccesso, e l'invocazione di un superamento del Bicameralismo paritario, vanno di pari passo con la quella che chiamo la presunzione positivistica: il Legislatore, ed il Governo, ritengono che a tutto sia possibile rispondere mediante un intervento legislativo, normativo. Ma in tale presunzione vi è un evidente errore: il diritto e la legge non coincidono, come ha chiaramente spiegato l'Hayek di Law, legislation and liberty. Piuttosto, per garantire la libertà è preferibile decentrare la formazione del diritto (che è cosa diversa dalla legislazione, sia essa nazionale o regionale).

Se dal piano dell'assetto orizzontale si passa a quello dell'assetto verticale, le ragioni di obiezione risultano rinforzate. Già si è detto della scelta relativa alla formazione del Senato che rafforza eccessivamente il peso delle Regioni più popolose a scapito di quelle più piccole. Inoltre, mentre si dichiara che la Repubblica è costituita da Regioni, Comuni e Città Metropolitane, si prevede che nella composizione del Senato delle Autonomie siano presenti rappresentanti dei Consigli regionali ed un Sindaco per Regione, il che significa escludere o un rappresentante dei Comuni o un rappresentante delle Città Metropolitane, ove esistenti.

Nel tentativo di superare le antinomie del riparto di competenze tra Stato centrale ed enti territoriali non solo si aumentano i procedimenti legislativi ma, da un lato, si rafforza il potere dello Stato centrale mediante la clausola di supremazia qualora sia in invocato un interesse nazionale, mentre viene normativamente invertita la tendenza ad aumentare il ruolo delle autonomie locali, secondo il principio di sussidiarietà verticale, rischiando ai aumentare e non di ridurre i conflitti tra Stato ed Enti territoriali. Anche tale inversione di rotta può esser inscritta all'interno di un più generale accentramento di poteri: l'esatto contrario della frammentazione e del bilanciamento tipici dei modelli del costituzionalismo liberale.

Dall'altro lato, poi, si coinvolge direttamente il Senato in materie sovranazionali come quelle relative alla ratifica dei trattati dell'Unione Europea. È evidente come anche con riguardo alla struttura verticale dello Stato la Riforma sia contraddittoria ed incoerente sia nei presupposti che nelle scelte normative ed istituzionali.

In sintesi

Queste, in sintesi, le ragioni per motivare un No alla Riforma che sia coerente con una visione liberale, visione che non è appannaggio solo di coloro i quali si riconoscono in tale cultura politica, ma che dovrebbe esser diventata patrimonio comune di qualsiasi sensibilità democratica. D'altronde, con il termine democrazia oggi si individua ellitticamente la democrazia liberale così come col termine costituzionalismo sin dalle origini si individua il costituzionalismo liberale.

È pur vero che il liberalismo, a differenza di altre visioni politiche, non è una Chiesa con le proprie ortodossie ed eresie. Ma nel suo contenuto essenziale sembra difficile discostarsi dalla necessità di mantenere quella diffidenza, quel sospetto nei confronti del potere che ne costituiscono il vero ed immancabile limite. Da liberale, poi, non ritengo che la Costituzione non possa, ed in una certa misura: non debba, esser riformata. Ma in tale opera è quanto mai opportuno abbandonare, per una volta, la massima volterriana per la quale “il meglio è nemico del bene”.