La presidenza Trump va rapidamente degenerando in una farsa che attanaglia l’America e compromette la sua credibilità sul palcoscenico mondiale.

Il copione che la Casa Bianca cerca di imporre alla grande platea americana e mondiale è che il Kremlingate è un’invenzione dei nemici di Donald Trump e che non vi è mai stata alcuna collusione tra lo stato maggiore elettorale di Trump e la Russia. Le quotidiane contorsioni e contraddizioni del Presidente repubblicano hanno lo scopo precipuo di distrarre l’attenzione dall’esistenza di rapporti tra la campagna elettorale di Trump e la Russia di Putin. Lo scandalo del Kremlingate continua però ad imperversare ed avvia la presidenza Trump sulle orme della presidenza Nixon, schiantata non già dalla proditoria condotta nei confronti dell’opposizione democratica ma dal cover up con cui tentò di ostruire il corso della giustizia. Al centro della farsa è piombato l’ex Direttore dello FBI James Comey, l’uomo che dirigeva l’indagine esecutiva sul Kremlingate. In un’intervista televisiva, il presidente Trump ha sostenuto di aver deciso il licenziamento di Comey indipendentemente dalle valutazioni del Dipartimento della Giustizia. Tale affermazione contraddiceva completamente la precedente comunicazione della Casa Bianca secondo cui la decisione di destituire il capo dello FBI “era dovuta ad una chiara raccomandazione” dell’Attorney General Sessions e del vice Ministro della giustizia Rod Rosenstein. Per la cronaca, Sessions è il Senatore nominato ministro della giustizia, che prima ancora della nomina aveva incontrato l’ambasciatore russo per poi mentire al Congresso circa il tema di quella conversazione, tanto da essere costretto ad esimersi dall’inchiesta sul Kremlingate. Quanto a Rosenstein, non perdeva tempo nel precisare che non aveva sottoscritto alcuna “raccomandazione” in merito a Comey e che era pronto a dimettersi.

La sequela di eventi rivela l’ossessivo tentativo di Trump di liberarsi dalla spada di Damocle del Kremlingate che pesa su di lui, fermando ad ogni costo le investigazioni in corso. Lo stillicidio di rivelazioni ha spinto il Presidente ad un livello di frustrazione e di rabbia mal contenuta tale da creare un’atmosfera di lunghi coltelli all’interno della Casa Bianca. L’atmosfera è tanto più avvelenata quanto più si moltiplicano i “leaks” ossia le fughe di notizie, spesso innescate dagli istinti di sopravvivenza dei funzionari della Casa Bianca. In questa situazione, Trump non sembra avere altra alternativa che minacciare i responsabili dei “leaks” e tutti coloro che ne favoriscono la diffusione. Ma il fatto centrale è l’ostruzione delle inchieste, una delle quali prosegue presso una commissione senatoriale, anche se il leader repubblicano al Senato, il Senatore Mitch McConnell, sfacciato complice del Presidente, si oppone vigorosamente alla nomina di uno speciale “prosecutor” o di un organo parlamentare di inchiesta.  

Lo scandalo è tale da poter segnare il fallimento della Presidenza Trump. Se l’accusa di ostruzione dovesse far presa, il Presidente Trump potrebbe aver commesso uno di quei crimini – “high crimes and misdemeanors” – previsti dalla Costituzione per l’impeachment del Presidente in carica. Resta il fatto che il Congresso è nelle mani dei Repubblicani; se questi dovessero mantenere il controllo delle due camere, è da escludersi che mettano in moto il processo di impeachment. Ma, se i Democratici dovessero conquistare la maggioranza della Camera dei Rappresentanti nelle elezioni congressuali del 2018, avrebbero modo  di mettere Trump sotto accusa nel comitato giudiziario, sulla falsariga di quanto fece il Congressman italo-americano Peter Rodino nel 1973.

La vendetta di Trump contro il capo dello FBI, colpevole di aver testimoniato al Congresso circa l’ampiezza delle indagini sull’interferenza russa nelle elezioni presidenziali americane e anche, se non soprattutto, di non aver disposto alcuna indagine circa le asserite infiltrazioni elettroniche del Presidente Obama negli uffici della campagna elettorale di Trump (accusa che non era stata convalidata da alcuna prova) potrebbe essere al centro di un eventuale atto di accusa nei confronti di Trump. Il licenziamento di Comey non è la sola dimostrazione dell’intolleranza di Trump verso tutti coloro che non si schierano con lui nel condannare il contatto con i Russi come una montatura giornalistica. Tra gli altri, Trump aveva attaccato ed esautorato la facente funzioni di Ministro della Giustizia Sally Yates, accusandola di aver disseminato “leaks illegali”.

Sono molti, insomma, i paralleli con il famoso “massacro del sabato sera”, quando il Presidente Nixon ordinò all’Attorney General Elliot Richardson di destituire Archibald Cox, lo Special Prosecutor dello scandalo Watergate che aveva formalmente richiesto le registrazioni segrete della Casa Bianca. Richardson si rifiutava di farlo e rassegnava le dimissioni. L’ordine presidenziale passava al suo vice, William Ruckelshaus, che a sua volta si dimetteva.

Oggi, come ieri, sono di scena le registrazioni di dialoghi nelle segrete stanze della Casa Bianca ma, ironicamente, è il Presidente a minacciare Comey sfidandolo a produrre registrazioni dei loro colloqui. Ma la sostanza è la stessa. Come Nixon, che aveva ordinato allo FBI, nel Giugno 1973, di cessare le indagini sull’irruzione negli uffici democratici del Watergate, senza comunicare tale ordine agli organi inquirenti ed al suo staff, il Presidente Trump ha di fatto dichiarato guerra allo FBI con la sua decisione di punire il suo direttore per aver dato corso alle indagini sul Kremlingate. Quel che distingue il Watergate dal Kremlingate è che nel primo caso il Presidente aveva come obiettivo quello di screditare la leadership dell’opposizione democratica, mentre nel secondo il Presidente cerca di affossare le indagini sulle interferenze di una potenza straniera nel processo democratico americano e, quel che è più grave, sui contatti intercorsi tra questa potenza e l’organizzazione elettorale del candidato repubblicano.

Richard Nixon era affetto da cupi sospetti che rasentavano la paranoia ma possedeva una mente strategica che lo portava a realizzare progetti sociali progressisti. Donald Trump è anch’egli vittima di paranoia, ma la sua azione governativa, sospinta dall’ossessione di distruggere l’opera del suo predecessore Obama, ha sconvolto i parametri di governo degli Stati Uniti paralizzando aspetti cruciali della legislatura. Se il Watergate, culminato nelle dimissioni di Nixon, rappresentava un dramma politico con un epilogo scontato, la presidenza Trump ha tutti gli aspetti di una farsa con continui colpi di scena che prima o poi potrebbero segnare la fine anzitempo dell’amministrazione repubblicana. Per uno sbocco della crisi, probabilmente, dovremo attendere le elezioni congressuali del 2018, ma per accelerare il processo basterebbe che tre Senatori repubblicani decidessero di agire nell’interesse della nazione piuttosto che del partito repubblicano unendosi ai Democratici nell’approvare la costituzione di una commissione di inchiesta indipendente.  

A soli cento giorni dal suo insediamento, Donald Trump ha deluso le speranze di coloro che speravano in un suo ravvedimento dopo una campagna elettorale all’insegna di menzogne, insulti  e narcisismo e nell’opera di moderazione e sensibilizzazione del suo staff della Casa Bianca. L’America ha invece assistito alla comparsa e scomparsa di personaggi biasimevoli come il primo Consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, che non aveva rivelato pagamenti ricevuti dalla Turchia e dalla Russia. Un altro collaboratore di Trump, l’ex manager della sua campagna elettorale Paul Manafort, aveva anch’egli intascato milioni di dollari da un oligarca russo vicino a Putin.

Ce n’è insomma più che abbastanza per giustificare le indagini dello FBI. Quel che preoccupa la comunità di Washington ed una maggioranza degli Americani è comunque la prospettiva di gravi danni al tessuto sociale e politico dell’America, come conseguenza della imprevedibilità e sregolatezza di un Presidente privo di un compasso morale.  Nella Presidenza Trump sono in pericolo non solo le istituzioni democratiche – a cominciare dalla stampa definita “nemica del popolo” – ma le pressanti necessità di negoziare compromessi razionali sul piano nazionale, di rispettare la Costituzione ed in modo particolare l’operato dei giudici, di evitare situazioni di confronto all’interno e verso nemici veri o presunti all’esterno, di proteggere ed ampliare i valori e le regole che superano le ideologie e rispecchiano gli ideali di quell’America che gran parte del mondo ammira.