Sono passati nove mesi ma la gestazione presidenziale di Donald Trump ha prodotto solo un topolino nella persona di un nuovo giudice della Corte Suprema, imposto da una scandalosa forzatura procedurale della maggioranza repubblicana al Senato.

Due erano gli obiettivi sui quali si era accentrata l’azione legislativa dell’Amministrazione Trump: l’eliminazione della legge di sanità varata dal Presidente Obama, definita da Trump “scellerata” e “distruttiva”, e l’intesa nucleare con l’Iran, bollata da Trump come “una delle peggiori transazioni mai concluse dagli Stati Uniti”. Nove mesi di governo Trump non sono riusciti a cancellare Obamacare né il compromesso nucleare con l’Iran. Tutto quello che Trump è riuscito a fare è decretare misure limitative scaricando sul Congresso la responsabilità di varare soluzioni alternative per la salute pubblica e nuove sanzioni nei confronti dell’Iran. Trump non ha stracciato il “deal” concluso da Obama con l’Iran e cinque Paesi alleati ma ha denunciato il mancato rispetto iraniano dello spirito dell’intesa, ignorando il fatto che la cosiddetta “decertification” è possibile ai termini dell’accordo, ma non l’imposizione di nuove sanzioni. Rimandando la decisione al Congresso, che disporrà di sessanta giorni per stabilire nuove condizioni per la partecipazione degli Stati Uniti all’esecuzione dell’intesa nucleare, il Presidente Trump non ha fatto altro che dimostrare che la sua amministrazione è una cacofonia di voci che rispecchiano interessi molteplici ed un aperto conflitto tra il capo dell’esecutivo, animato da impulsi nazionalistici e isolazionisti, ed un gruppo di consiglieri che si sforza di mantenere la politica estera su un tracciato tradizionale di rispetto degli accordi internazionali.

Lo spettacolo che giornalmente va in scena alla Casa Bianca, e che lascia sgomenta larga parte degli americani, è quello di un Presidente che soddisfa il suo narcisismo e la sua distorta concezione del potere tagliando le gambe ai membri del suo entourage di politica estera, ed in modo speciale al suo Segretario di Stato Tillerson. “Risparmia le tue energie, Rex”, ha detto a Tillerson, ridicolizzando il tentativo di stabilire un dialogo con il leader nord-coreano Kim Jong Un. Gli alleati dell’America, segnatamente quelli tradizionali dell’Europa occidentale, non possono che silenziosamente augurarsi che Tillerson ed i generali che operano alla Casa Bianca continuino a neutralizzare una politica estera all’insegna dell’America First con conseguenze globali potenzialmente disastrose. Molto ruota proprio attorno alla capacità del Segretario di Stato Tillerson di mantenere un rapporto equilibrato con un Presidente impulsivo e refrattario a consigli che non tengano conto della sua priorità di prevalere ad ogni costo in ogni contesa. In pratica, Tillerson ha un incarico impossibile, ma sta facendo del suo meglio per stabilizzare situazioni che da un giorno all’altro minacciano gli equilibri internazionali. Per non parlare poi di quelli interni, e specificamente del partito repubblicano, che per molti versi ricordano il duro confronto tra un Presidente, Dwight Eisenhower, che credeva nel ruolo internazionale dell’America, ed il Senatore isolazionista Robert Taft. Sulla scia dell’internazionalista Ike, i Presidenti succedutisi a Washington avevano rifiutato l’opzione dell’America First. Fino a Donald Trump, che ha messo in dubbio gli obblighi internazionali dell’America, isolando gli Stati Uniti dal resto del mondo in una misura senza precedenti nell’era post-bellica. La strategia volta ad annullare di fatto il patto nucleare con l’Iran viene condotta con l’appoggio di tre Paesi: Israele, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi. La rinuncia all’accordo di Parigi per il clima ha riscosso l’appoggio di due sole nazioni, Siria e Nicaragua. La decisione di abbandonare l’UNESCO, un’istituzione accusata di violare i diritti di Israele, è stata fiancheggiata, ancora una volta, soltanto da Israele. Ironicamente, è in caso di dire, perché il nuovo Presidente è una esponente francese di religione ebraica. Nello scenario internazionale, una simile condotta unilaterale non può che alienare le nazioni alleate con il risultato, segnalato unanimemente dagli esperti, di indebolire la sicurezza stessa dell’America, che di fatto si affida anche al sostegno di quei Paesi. 

Fino a che punto potrà reggere lo stoicismo di Rex Tillerson o, più realisticamente, il criterio di solidarietà dei consiglieri “mainstream” in seno alla Casa Bianca? I segnali che giungono sono prevalentemente negativi, soprattutto nel caso di Tillerson, al quale Trump non perdonerà mai l’epiteto di “imbecille” attribuitogli dal Segretario di Stato, e solo in parte smentito. I consiglieri militari sono certamente tra i primi a lamentare il fatto che per governare Donald Trump ha fatto ricorso al maggior numero di Executive Orders mai emanato dai tempi di Lyndon Johnson ad oggi. Vale la pena di segnalare che Johnson attuò una poderosa legislazione sociale ed economica, mentre fino ad oggi Trump registra uno zero assoluto in campo legislativo. L’interrogativo dominante concerne non soltanto Rex Tillerson, che Trump ha indebolito quasi al punto di renderlo inetto, ma anche i componenti di quel nucleo di consiglieri moderati che in politica estera fanno capo al Segretario alla Difesa James Mattis. È toccato ad un influente Senatore repubblicano, Bob Corker del Tennessee, capo del comitato per le relazioni estere, dire quello che molti a Washington pensano da tempo, che il Capo dello staff della Casa Bianca Kelly, il Segretario alla difesa Mattis ed il Segretario di Stato Tillerson sono “coloro che mantengono il Paese fuori dal caos”.

Il compito che accomuna questi esponenti ed il resto dei consiglieri “mainstream” è di evitare che un esercizio intransigente di poteri della presidenza metta a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. L’applicazione di salvaguardie costituzionali quali i “checks and balances” che regolano la condivisione dei poteri a Washington presuppone una collaborazione tra il ramo legislativo e quello giudiziario: una grossa incognita che è aggravata dalla crisi interna del partito repubblicano, ostaggio della politica di nazionalismo economico articolata dal guru della destra Steve Bannon. Questi  ha giurato vendetta contro quei senatori repubblicani che non agiscono secondo l’ortodossia della sua parte. Il bersaglio numero uno è il leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, che Bannon intende sostituire con un esponente repubblicano più impegnato a realizzare l’agenda legislativa di Trump. La strategia di Bannon è presto detta: sfruttare la perdurante politica dei democratici ispirata dalle problematiche della razza e dell’identità nella convinzione che arrecano suffragi alla massa dell’elettorato bianco, che è pur sempre maggioritaria (71 per cento nel 2016). Di fatto, è a questa massa che Donald Trump deve la sua elezione.

Con o senza il fiancheggiamento sotto traccia del suo ex stratega ufficiale, Donald Trump ha un problema fondamentale che condanna la sua presidenza: la mancanza di una visione coerente dei suoi obiettivi. Un esempio tra tutti è il brusco voltafaccia in merito alla proposta dei Senatori Lamar Alexander e Patty Murray per una temporanea soluzione della questione dei sussidi federali concessi dall’Obamacare, sospesi dall’Amministrazione repubblicana. Dopo aver fatto sapere che accettava la proposta perché non voleva che “la gente soffrisse”, Trump si rimangiava l’adesione proclamando che non intendeva “tirare fuori dai pasticci” le compagnie di assicurazione. Nella sua veste di “deal maker”, un’immagine artificiosamente coltivata per anni, Trump dovrebbe schierarsi con due senatori moderati. Ma Trump non accetta i suggerimenti di consiglieri cauti ed equilibrati, lasciando nel dubbio l’uditorio repubblicano che di giorno in giorno è chiamato a giudicare gli umori dell’inquilino della Casa Bianca.

Chi si è sentito in dovere di pronunciarsi sui danni del trumpismo è un  repubblicano insospettabile, l’ex presidente George W. Bush. In un esplosivo discorso a New York, Bush ha denunciato la trasformazione in atto nella politica americana, che a suo dire è divenuta “vulnerabile ad opera delle teorie di complotti e di totali falsificazioni”. Ed ha incalzato: “il fanatismo e la supremazia bianca in qualsiasi forma sono una bestemmia contro il credo americano”. Con questa pesante accusa finale: “le angherie e il pregiudizio nella vita pubblica spianano la strada alla crudeltà e al fanatismo”. Pur evitando di fare il nome di Trump, l’ex Presidente ha additato una netta connessione tra Trump e le manifestazioni di nazionalismo ed estremismo con radici nella attuale Casa Bianca.

In conclusione, due sono le chiavi di lettura del possibile futuro dell’America. La prima è la previsione che l’arroganza del nazionalismo incorporato nello slogan “rifare grande l’America” finirà per innestare la revulsione della parte sana dell’elettorato che legittimamente si aspetta realizzazioni concrete (dalla riforma fiscale alle opere pubbliche nelle infrastrutture), in luogo dell’ossessiva azione politica dedicata unicamente a smantellare le vestigia dell’amministrazione Obama. La seconda è l’incognita della permanenza al potere di quegli esponenti che per opportunismo assecondano la gestione ideologica di Donald Trump, ma che rischiano di divenire anch’essi vittime di un Presidente incostante ed imprevedibile. È un destino che potrebbe colpire quegli stessi militari che oggi si sforzano di conferire stabilità all’amministrazione Trump. Una cosa è certa, i colpi di scena verranno ancor prima di quel che sia possibile prevedere.