Il nuovo anno ha portato qualche certezza per i democratici, animati dalla forte e più unitaria volontà di far deragliare una Presidenza che distrugge quotidianamente i valori istituzionali dell’America.

La strategia dell’opposizione alla Presidenza Trump è presto detta: dimostrare alla maggioranza dell’elettorato che il nazionalismo economico che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca altro non è che un raggiro senza precedenti nella storia americana, perpetrato da un demagogo che ha fornito risposte semplicistiche e fraudolente a problemi complessi. La verità è che le alterazioni irreversibili di un’economia stravolta dal globalismo hanno segnato la decadenza dell’industria americana tradizionale, aggravata anche dall’opprimente disequilibrio tra ricchezza e potere politico che caratterizza l’America dei giorni nostri. Non meno gravosa è l’ammissione che sono mancate politiche progressive capaci di preparare un grande settore dell’elettorato americano a far fronte agli imponenti mutamenti dell’economia internazionale. Di conseguenza, l’imperativo che oggi si pone alla leadership democratica è fondamentalmente quello di eliminare la mentalità protezionistica che Trump ha installato ai vertici del suo esecutivo e di instaurare politiche che rendano possibile la ridistribuzione di ricchezza nella Rust Belt, l’enorme fetta arrugginita della vecchia America, dove Trump ha fatto leva su diffuse frustrazioni e profondi risentimenti. L’ascesa dei titoli azionari a Wall Street non serve a ridare fiducia e orgoglio alla Rust Belt.

Quel che potrebbe incentivare lo spirito di rinascita in America sarebbe, tanto per cominciare, una politica federale volta ad eliminare le diseguaglianze dell’istruzione pubblica, una svolta che da sola potrebbe cambiare il futuro dei diseredati che hanno votato per Trump nel 2016. Gli Stati Uniti sono un Paese membro dello OCSE ma si distanziano dagli altri membri che spendono il 50 per cento in più per ridurre le differenze attraverso una maggiore e più equa spesa educativa. La responsabile dell’istruzione in America, dove le scuole sono finanziate dagli Stati e da un farraginoso sistema di tasse locali, è una miliardaria, una certa Betsy DeVos, che pur esaltando la cosiddetta “free choice” (libera scelta) ha scarso interesse a impegnarsi per la parità educativa su scala nazionale, al punto da caldeggiare tagli dell’ammontare di dieci miliardi nel bilancio per l’educazione.

Tra i tanti intriganti interrogativi che gravano su Washington quello che racchiude la migliore promessa per i democratici è l’affiorare di sensazioni anti Trump nel suo feudo elettorale del Midwest, in particolare nello stato dell’Iowa dove il Presidente ha raccolto soltanto il 35 per cento dei favori nell’ultimo sondaggio. Più importante però è il fatto che solo il 34 per cento dei potenziali elettori dell’Iowa pensa di votare per i candidati repubblicani nel 2018. Una cosa è certa ed è che gli umori dell’elettorato repubblicano dell’Iowa si sono fatti più scuri nel primo anno della Presidenza Trump. Secondo alcuni, il protezionismo di Trump comincia a pesare sull’economia dello stato che è principalmente agricola. Su scala nazionale, il discorso di fondo è quello degli effetti della riforma fiscale appena approvata dal Congresso. Molto dipende dall’esito della campagna dei repubblicani imperniata sui presunti benefici del pacchetto. Di fatto, i maggiori beneficiari della riforma sono le classi più ricche e le grandi aziende che possono ora rimpatriare profitti ad un tasso nettamente inferiore. Le diseguaglianze non solo non diminuiscono, ma sono destinate ad aumentare. I democratici si chiedono: fino quando gli elettori di Trump continueranno a votare contro i loro reali interessi?

Al questo quesito se ne contrappone un altro che riguarda i democratici e che contribuirà a decidere l’esito delle prossime consultazioni elettorali. Con quale leadership si presenteranno i democratici a quelle elezioni, a cominciare dal prossimo novembre? Una bordata l’ha sparata l’ex capo del comitato nazionale democratico, il controverso Howard Dean, già candidato all’investitura democratica nel 2004. “I vecchi membri del partito democratico devono togliersi di mezzo e lasciare la guida del paese ai cinquantenni”, ha detto con la franchezza che tutti gli riconoscono. I “vecchi sono parecchi: l’ex Vice Presidente Biden, il Senatore Sanders, i leader democratici al senato Charles Schumer e alla Camera Nancy Pelosi. Candidati di grande personalità non se ne vedono all’orizzonte, ma è facile prevedere che la scalata alle posizioni di leadership nel partito democratico passerà attraverso la difesa dei capisaldi della pubblica sanità, dall’Obamacare – che tutto considerato ha retto l’urto degli incessanti attacchi repubblicani – al Medicaid, il programma di assistenza ai meno abbienti. Un’offensiva dell’amministrazione Trump volta a ridurre il bilancio di Medicaid e Medicare, accusati di essere i maggiori responsabili del deficit federale, è destinata a fallire per la strenua difesa democratica ma anche per l’opposizione di un importante settore repubblicano. Non sono pochi infatti gli Stati che intendono avvalersi degli stanziamenti federali per questa forma di assistenza sanitaria. L’espansione di Medicaid sospinta da un crescente numero di Stati promette di fare massa critica nella campagna elettorale degli Stati “rossi” conquistati da Trump, soprattutto nel Midwest.

Alla base di tutto c’è questa constatazione: l’aspetto più disastroso della Presidenza Trump è che il suo populismo arreca danni incalcolabili agli interessi nazionali dell’America. Dopo aver lanciato accuse ad una moltitudine di Paesi di aver fomentato i deficit americani, di aver distrutto posti di lavoro in America e di aver abusato della protezione e della generosità degli Stati Uniti, Donald Trump ha instaurato una politica di “brinkmanship” ossia di rischio deliberato che accresce il pericolo di “escalation” praticamente in tutte le aree “calde” nel mondo. Il carattere dominante della sua gestione di politica estera è l’aver praticamente affossato il sistema di alleanze basato sul riconoscimento che gli interessi di sicurezza degli Stati Uniti coinvolgono interessi reciproci in Europa, in Asia e nel Medio Oriente. Il risultato più evidente è che i Paesi del mondo non fanno più affidamento sulla leadership americana mentre si attendono ultimatum, minacce e tweet insultanti come quello che Trump ha indirizzato al Pakistan.

Il ridimensionamento dell’America nel mondo è un processo che si è aperto nei primi minuti del discorso inaugurale di Donald Trump quando questi ha enunciato la dottrina di “America First”. Il senso di una tale “dottrina” è più che evidente: l’America conferisce priorità ai propri diritti sovrani e non agli obblighi internazionali. In altri termini, non pone gli interessi di altri innanzi a quelli propri. Dopo un anno che molti giudicano distruttivo per la rete delle interazioni politiche ed economiche del mondo sarebbe poco realistico ignorare o sottacere la crescente immagine di inaffidabilità dell’America di Trump. È un fenomeno all’antitesi della reputazione di leadership globale acquistata a caro prezzo dagli Stati Uniti dopo la fine della seconda guerra mondiale. Quando un Presidente apre con il leader nord-coreano un confronto a base di epiteti in una sfida tipica di due adolescenti, c’è poco da sperare nell’efficacia curativa di una diplomazia attiva.

Il quesito che si è ingigantito nell’America dei nostri giorni è dunque se una massa sufficientemente ampia di americani si renderà conto, in un nuovo drammatico anno, dei reali costi interni ed esterni della Presidenza Trump, e più precisamente del fatto che il costo di promuovere l’ordine globale è inferiore al costo di non farlo. Basterebbe ponderare con attenzione la cosiddetta strategia di sicurezza nazionale del Presidente repubblicano per rendersi conto che è il risultato di ignoranza associata a inesperienza, di incoerenza e dell’ossessiva pretesa, tipica del demagogo, di soddisfare istanze emotive ed irrealistiche.

Resta da vedere, infine, se l’opera dell’inquisitore speciale Mueller centrerà bersagli più compromettenti che non il riciclaggio di denaro che sembra aver accompagnato la crescita del patrimonio della famiglia Trump. “Follow the money” (segui il denaro), comunque, è una costante delle investigazioni politiche e finanziarie in America. Quanto all’ultima bomba, detonata dall’ex collaboratore di Trump, Steve Bannon, già sta avendo effetti ad ampio raggio. Bannon ha infatti denunciato in termini esplosivi un certo incontro, avvenuto nel Giugno 2016 presso la Torre Trump di New York, tra il figlio di Trump, Donald Jr., il genero Jared Kushner, capo dell’organizzazione elettorale di Trump Paul Manafort, e l’avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya. Bannon insiste che si trattò di un incontro incriminante durante il quale il figlio di Trump disse “I love it” quando l’emissaria russa accennò alla documentazione in possesso di Mosca nociva alla candidatura di Hillary Clinton. Il Presidente ha immediatamente sparato a zero sul suo ex collaboratore affermando che Bannon ha perso “il suo lavoro e la sua sanità mentale”. Ma intanto l’imbroglio cresce e attanaglia l’azione politica della Casa Bianca in un anno elettorale che l’America sana e democratica si augura possa essere risolutivo.