Il mese di Febbraio non poteva essere più crudele per il Presidente Trump.

 

Tanto per cominciare, Wall Street ha registrato un crollo di portata storica, perdendo 1.000 punti dell’indice Dow Jones ben due volte, stracciando tutti i guadagni che il Presidente Trump aveva esaltato come prova della sua capacità di raddrizzare l’economia americana. I suoi predecessori si erano sempre guardati dall’approfittare dell’ascesa di Wall Street con una vanteria politica rischiosamente affidata alla roulette della borsa.

L’approvazione dell’accordo biennale di bilancio si è rapidamente profilata come un boomerang che porterà con sé un deficit annuale di 1 trilione di dollari. C’era una volta in cui i repubblicani svolgevano con orgoglio il ruolo di accaniti difensori di un bilancio in equilibrio. Adesso, non soltanto hanno abdicato al ruolo di partito votato alla responsabilità fiscale, ma hanno abbracciato una riforma fondata sul taglio delle tasse a favore della classe più ricca e delle imprese e pertanto foriera di durevole opposizione da parte della classe media. La reazione di questo settore dell’elettorato – circa due terzi – è stata fin qui negativa ed ha contribuito alla decisione di un numero insolitamente elevato di membri repubblicani del Congresso di non ripresentarsi alle elezioni midterm del prossimo novembre.

La Casa Bianca è stata travolta da una serie di scandali che hanno portato alle dimissioni di vari personaggi, tra cui un importante membro dello staff, Rob Porter, messo all’indice per aver maltrattato due ex mogli. Un altro scandalo è scaturito dalla scoperta che non soltanto Porter, ma lo stesso genero del Presidente, Jared Kushner, non possedeva la necessaria “clearance”. L’autorizzazione di Rob Porter, in particolare, era ad interim ma il capo dello staff presidenziale, il generale John Kelly, non aveva adottato alcun provvedimento, lasciando che Porter continuasse a trattare informazioni coperte dal segreto ufficiale. Anche Kushner svolge le funzioni di “senior adviser” con un’autorizzazione provvisoria mentre è soggetto ad una investigazione da parte del Dipartimento della Giustizia.

L’aspetto più sconcertante del caso Kushner è che il capo dello staff Kelly esita a prendere una decisione in proposito, mentre il Presidente se ne lava le mani e rovescia su Kelly la responsabilità di una decisione. Kushner intanto continua a fruire di una “clearance” temporanea, per quanto l’accesso sia stato limitato. In questa veste, continua ad occuparsi del processo di pace nel Medio Oriente, che di fatto è finito in un binario morto dopo la decisione di Trump di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme. Ma c’è ben altro evidentemente nel background del genero di Trump che preoccupa il generale Kelly e gli stessi funzionari del Dipartimento della Giustizia. A Washington, molti sono convinti che l’indagine dello Special Prosecutor Mueller, improntata alla vecchia massima di “follow the money” (segui il denaro) finirà prima o poi con l’intrappolare il genero del Presidente, associato a vari abboccamenti con emissari russi ed altre oscure figure interessate a tessere rapporti commerciali con l’impresa Trump.

Che lo staff della Casa Bianca rappresenti una palla al piede del Presidente è ormai innegabile. Fino ad oggi, sono arrivati a tre dozzine i funzionari che hanno lasciato la Casa Bianca per varie ragioni, tra le quali spicca il fatto che tre di loro sono stati messi alla porta dopo che i loro commenti razzisti erano stati resi di dominio pubblico. In ogni caso, il fatto saliente è che Donald Trump aveva preso le redini di capo dell’esecutivo con uno staff di scarsa preparazione e limitata valenza politica, tanto che in breve volgere di tempo vari funzionari erano stati costretti a dimettersi o avevano rinunciato all’incarico di propria volontà. Quel che è apparso chiaro sin dal primo giorno è che Trump ha tollerato precedenti imbarazzanti e affiliazioni estremiste e antisociali, se non addirittura a sfondo razzista, ma ha usato il pugno di ferro nei confronti di collaboratori rei di comportamenti giudicati sleali. Donald Trump è senza ombra di dubbio il Presidente dalla personalità più intollerante e intemperante nella storia recente della presidenza americana. Ma il tratto che è emerso con chiara evidenza è la mancanza di sensibilità morale, come ha rivelato il caso di Rob Porter, che Trump ha difeso pubblicamente giungendo a definire poco credibili le accuse di violenza rivolte dalle donne.

Il deficit morale di Donald Trump è al centro del conflitto sorto attorno ai cosiddetti “dreamers”, i giovani entrati illegalmente negli Stati Uniti che Obama ha cercato di proteggere dalla deportazione con il programma DACA (Deferred Action for Childhood Arrival). L’Amministrazione Trump ha dichiarato il programma illegale spalancando un triste destino di espulsione per i “dreamers”. Due corti di appello hanno però bloccato l’applicazione delle misure dell’esecutivo, che sono rimaste in un limbo legale anche perché il Congresso appare incapace di risolvere la questione con una legge ad hoc a causa della perdurante battaglia legislativa in tema di immigrazione. Con l’esorbitanza tipica di Trump, l’Amministrazione ha chiesto alla Corte Suprema di accantonare le decisioni delle corti d’appello ma la richiesta è stata bocciata dai giudici della Corte Suprema che hanno deciso di non prenderla in considerazione. Il dramma dei “dreamers” peraltro non accenna a chiudersi ma è certo che l’elettorato hispanico ne terrà conto il prossimo novembre.

A questo insuccesso giudiziario si aggiungono quello politico ed uno diplomatico. I democratici sembrano in parte disposti a sostenere una certa spesa per il muro al confine con il Messico ma Trump non accetta condizioni con il risultato che il finanziamento del muro è bloccato al Congresso. Al tempo stesso, l’ostinazione di Trump nel chiedere che il Messico paghi i costi del muro ha generato un duro scontro telefonico con il Presidente messicano Enrique Peña Nieto, che dopo aver ripetuto il suo diniego, ha cancellato un’imminente visita a Washington. In pratica, Trump ha fatto scempio delle delicatezze diplomatiche e ha preferito lo scontro aperto con il suo interlocutore. Uno sviluppo che ha messo in crisi i lunghi e amichevoli rapporti tra i due Paesi e complicato ancor più la già difficile rinegoziazione dell’accordo NAFTA.

Se la diplomazia di Donald Trump è compromessa dalla sua esasperazione, la politica estera è divenuta una specie di circo dove è difficile trovare lineamenti strategici che riflettano una visione coerente degli interessi degli Stati Uniti. Il caso dell’Afghanistan in particolare denuncia l’assenza di una ponderata strategia politica dietro la decisione di aumentare il contingente militare. Nel Medio Oriente, gli Stati Uniti si sono ormai schierati con la destra ultra-nazionalista di Netanyahu e dei “settlers” nei territori occupati da Israele, spazzando via ogni illusione di “due stati”. Né vi è dubbio che l’Amministrazione Trump è di fatto divenuta sostenitrice di regimi autoritari, dall’Arabia Saudita alle Filippine. In Siria, ha abbandonato la linea di azione moderata dell’Amministrazione Obama dando via libera a fitti bombardamenti che hanno prodotto migliaia di vittime civili. In Europa, ha incoraggiato i leader nazionalisti della destra in Polonia e Ungheria, alienando i tradizionali alleati dell’America. Infine, la riluttanza di Trump ad attaccare il Presidente russo Putin per quella che viene definita una “incontrovertibile” ingerenza nelle elezioni americane non mancherà di avere conseguenze, al momento in cui l’indagine di Mueller porterà alla luce i dettagli di quell’ingerenza, come si attende una maggioranza degli americani. Su questo fronte, il mese di Febbraio ha riservato altre cattive sorprese per il Presidente, in modo speciale la confessione dell’ex funzionario dell’organizzazione elettorale di Trump, Rick Gates, di aver mentito agli investigatori dello FBI circa i contatti avuti con agenti russi.

Ma è nel Medio Oriente che lo spettro di conflitti più vasti, accentuato dal “mission creep” ossia da una missione strisciante in netta espansione, espone gli interessi americani a rischi maggiori nell’immediato futuro. Obiettivo precipuo degli Stati Uniti - fa notare l’ex ambasciatore americano alla NATO Robert Hunter - dovrebbe essere quello di portare stabilità in Siria. Trump, però, ha privilegiato l’alleanza con l’Arabia Saudita volta a neutralizzare e possibilmente attaccare l’Iran, con il risultato di eliminare ogni interesse di Teheran nella stabilità in Siria. Hunter conclude: la diplomazia americana è in conflitto con se stessa.

In breve, la strategia politica di Trump è quella di espandere la presenza americana nello scacchiere medio orientale ma di mantenere l’opinione pubblica all’oscuro negli Stati Uniti. I dati che filtrano dal Pentagono rivelano che il contingente americano in Siria supera ormai le duemila unità; lo ha ammesso in una deposizione al Congresso il comandante americano nel Medio Oriente, Generale Votel. In un quadro circondato da pesanti incertezze, è inspiegabile che il Congresso, che dovrebbe autorizzare interventi militari all’estero, abbia messo la testa nella sabbia del medio oriente. E’ solo questione di tempo ma l’opposizione interna non mancherà di costruire un capo di accusa fondato sul fatto che gli ingenti danni collaterali dell’intervento americano in conflitti complessi e implacabili hanno come conseguenza l’intensificarsi dell’estremismo anti-americano e del terrorismo internazionale. Sono molti insomma, e crescono, i nodi che possono venire al pettine. Sta ai democratici saperli razionalizzare e sfruttare, il che è tutt’altro che sicuro.