Per quanto dall'esito scontato, le elezioni presidenziali del 18 marzo in Russia hanno segnato una svolta. Vladimir Putin ha vinto il suo quarto mandato, secondo consecutivo, per rimanere per altri sei anni al Cremlino.

I timori del Cremlino riguardo a un “voto con i piedi” sono stati sventati da una macchina statale inarrestabile e capillare, che ha funzionato da Mosca all'ultimo villaggio sulla Kamchatka. Sindaci e governatori, preti e poliziotti, primari e rettori, fino all'ultimo amministratore di condominio e maestra d'asilo, sono stati coinvolti in una campagna martellante per convincere i russi ad andare a votare, e nell'ultima settimana perfino gli scontrini dei supermercati e le schermate dei bancomat ricordavano ai russi il loro dovere elettorale. Non veniva specificato a beneficio di chi: la costruzione stessa della campagna elettorale, con l'esclusione dell'unico concorrente vero dell'opposizione, Alexey Navalny, e la scelta di un candidato comunista, il miliardario agricolo Pavel Grudinin, molto poco convincente, ha reso il voto un referendum su Putin, invece che un'autentica competizione. L'obiettivo che il Cremlino si era posto, vincere con una quantità di consensi superiore a tutte le altre elezioni di Putin, è stato pienamente raggiunto. Dimostrando che, dopo 19 anni al potere, il Presidente ha costruito un meccanismo statale su misura, che risponde perfettamente ai comandi ed è in grado non solo di garantire una vittoria scontata ancora prima dell'apertura della campagna, ma anche di produrre il risultato desiderato. Una dimostrazione di questo nuovo stato delle cose è la straordinaria omogeneità del voto, senza più le variazioni, i picchi e le cadute di un Paese immenso: hanno votato per Putin anche Mosca e Pietroburgo, notoriamente più scettiche verso il governo, e i nuovi governatori nominati dal Cremlino hanno “allineato” tutte le regioni, con metodi che gli osservatori dell'opposizione hanno denunciato, seppure in misura minore delle elezioni del decennio precedente.

Dalla “democrazia governata” al modello asiatico

Si tratta di un cambiamento molto più profondo di quello che può apparire. Non si tratta più di convincere gli elettori, è tutta una questione di organizzazione. Per anni si è discusso della natura del regime putiniano: “democrazia sovrana” o “democrazia governata” - come teorizzavano i politologi di corte nel primo mandato, 2000-2004 -, autoritarismo soft, sistema “ibrido”, “democrazia incompleta”, oppure la “democrazia illiberale” proposta dal leader ungherese Viktor Orban. Con il voto del 2018 è stata sancita la trasformazione definitiva: il sistema politico della Russia odierna è molto più assimilabile a quelli dell'Asia Centrale postsovietica, dove il regno del leader termina solo con la sua morte. “Senza Putin non ci può essere la Russia”, diceva già tempo fa il presidente della Duma Viacesclav Volodin. E questo segna un cambiamento di paradigma: il riconoscimento e il rispetto dell'Occidente, così importanti nei primi 15 anni del putinismo - periodo in cui Putin ha investito un notevole sforzo nel presentarsi all'estero come un leader pari ai suoi colleghi, e dotato della stessa legittimità democratica - , non sono più valori per il Cremlino.

Uno dei principali motivi della polemica della Russia con i partner occidentali era proprio questo mancato riconoscimento paritario, e l'arma principale dell'Europa e degli Usa come deterrente erano le critiche, le condanne, le sanzioni, in poche parole, i meccanismi che costringevano Putin almeno a cercare di apparire democratico. Oggi questo limite sparisce: Putin non ci tiene più a farsi eleggere con un risultato almeno in qualche modo plausibile, perché non vuole entrare a far parte del sistema internazionale che condivide gli standard democratici. Per anni si è proposto agli interlocutori occidentali come una soluzione, ora si accontenta di essere il problema. Anche perché la rottura con metà del mondo ha pagato elettoralmente: i collaboratori del Presidente russo dicono che nessuno ha fatto più per il voto del 18 marzo di Theresa May. Lo scandalo con l'avvelenamento dell'ex spia russa Serghey Skripal a Salisbury, invece di danneggiare Putin, gli ha regalato punti in più, così come il discorso alla nazione con la presentazione dei nuovi missili strategici russi che facevano piovere le testate nucleari sulla Florida. L'isolamento diplomatico, le sanzioni, l'espulsione dal G8 e il boicottaggio delle Olimpiadi, che tanto avevano urtato l'establishment russo, soprattutto dopo l'annessione della Crimea, quattro anni fa, oggi vengono portati come medaglie al merito, una prova del valore della Russia, circondata da un mondo di nemici. La retorica della fortezza assediata che accresce l'autostima nazionale è la carta più forte di Putin, e venute meno le altre – la redistribuzione della ricchezza petrolifera e il messaggio di “ordine” dopo il caos postcomunista – è quella che gli porta più voti.

L'addio al modello occidentale

La politica russa ha abbracciato definitivamente valori diversi e contrapposti a quelli occidentali. Quello che all'estero viene considerato lesivo dell'immagine russa – come l'avvelenamento, insieme a Skripal (comunque regolarmente processato e condannato in Russia, e graziato dal Cremlino per venire consegnato ai servizi inglesi per i quali lavorava), di sua figlia Yulia e di 20 cittadini britannici che avevano avuto la sfortuna di trovarsi nei paraggi – viene accolto dall'opinione pubblica russa come una dimostrazione di forza. In questo contesto la sfida con l'Occidente diventa il matrimonio perfetto tra due nemici che hanno bisogno l'uno dell'altro, un po' come il binomio Berlusconi-sinistra in Italia, dove ciascuno aveva come ragione d'essere l'esistenza dell'avversario. Nella nuova “guerra fredda” la Russia non è più l'allievo ribelle dell'Occidente, è il suo avversario che per esistere necessità dell'ostilità degli ex partner, che a loro volta utilizzano dossier come le interferenze russe nelle elezioni, o i legami di Mosca con i partiti populisti europei, anche ai fini dello scontro politico interno.

È uno scontro che si svolge in buona parte su un terreno mediatico: la Russia non ha il potenziale economico per contrastare l'Occidente, e quello militare, nonostante lo spot elettorale sui nuovi missili inarrestabili, suscita parecchie perplessità degli esperti occidentali e anche russi, come si è visto anche dalle difficoltà incontrate nelle guerre in Ucraina e in Siria, contro avversari molto inferiori come preparazione. Il rapporto tra l'Occidente e la Russia a questo punto rischia di diventare paradossale: a un Putin non più vincolato dalle esigenze di rispettabilità democratica conviene venire temuto, e un'opinione pubblica che teme la sua mano dietro alle vicende in casa fa da gran cassa alla sua influenza; le cancellerie, a loro volta, non possono non esprimersi contro le eventuali ingerenze russe, rischiando così accuse di collusione, e finiscono per fare il gioco della propaganda russa, che presenta tutto l'Occidente storicamente mosso dal desiderio di annientare la Russia. Che non vuole più essere riammessa nell'Occidente, farsi perdonare, dimostrare di essere migliore, rientrare in gioco, anche perché probabilmente non è più possibile: dal Russiagate  alle spie avvelenate, dai legami con forze antisistema europee agli scandali del doping, l'immagine del “rogue state” è ormai costruita, e porta pure dei frutti. Le mosse della diplomazia, soprattutto quelle più mediatiche, dovrebbero venire studiate anche alla luce della necessità di Mosca di apparire minacciosa e temuta.

Il problema 2024

La prima domanda dei giornalisti russi a Putin dopo l'annuncio della vittoria è stata quella sulla sua ricandidatura nel 2024, o addirittura nel 2030. Quello che inizierà a maggio, tecnicamente sarebbe l'ultimo mandato di Putin, secondo la Costituzione russa, che lui per ora dice di non voler cambiare. Il vincolo di non aggiustare la Costituzione ai suoi bisogni, rispettato nel 2008 quando cedette per quattro anni il Cremlino a Dmitry Medvedev, faceva però parte appunto del paradigma di piacere all'Occidente, ormai abbandonato. A Mosca girano svariate ipotesi sulla soluzione al Putin-5: l'istituzione di un Consiglio di Stato non eleggibile al quale trasferire il potere, sul modello iraniano, oppure la nomina di un nuovo “delfino” più o meno manipolabile (come fece Boris Eltsin con lo stesso Putin), e addirittura l'istituzione di una monarchia, promossa dall' “oligarca ortodosso” Konstantin Malofeev, uno degli autori dell'invasione russa nel Donbass. Ma la soluzione più semplice potrebbe trovarsi più a Oriente: soltanto una settimana prima Xi Jinping ha eliminato il vincolo di mandato per se stesso, con l'indifferenza quando non il plauso dei commentatori occidentali, e un Putin che non cerca più l'approvazione internazionale potrebbe seguire il suo esempio.

Il problema della transizione però rimane, non solo perché Putin ha 65 anni, e sta invecchiando insieme ai suoi elettori e a una nomenclatura sempre più ingessata (perfino gli avversari “ufficiali” di Putin alle elezioni sono sempre gli stessi da 20 anni, come Vladimir Zhirinovsky e Grigory Yavlinsky). La macchina perfetta di Putin gli impedisce paradossalmente di avere feedback negativi dal Paese che governa, in una gerarchia verticale che non ha nessun incentivo a riportare ai gradini superiori segnalazioni di disagi e scontento: in un sistema del genere, verrebbero attribuiti alle colpe dei gestori del potere locale. La mobilità sociale, vertiginosa nei primi 15 anni postcomunisti, si è bloccata (con l'eccezione dei figli della cerchia putiniana), e il messaggio mandato ai russi, anche nella campagna elettorale, non è stato quello di appoggiare un nuovo progetto per il futuro, ma di votare perché tutto rimanga come è ora, o torni a un passato glorioso. Un messaggio che corrisponde alla composizione demografica di un Paese piuttosto anziano, e traumatizzato dal cambiamento della fine del comunismo. Lo scontento per la situazione attuale (la povertà, il carovita, la corruzione, il taglio del welfare) è diffuso, ma non trova una espressione politica – che era la scommessa di Navalny – e con un sistema così blindato non lo potrà trovare.

A questo punto, il regime potrebbe o implodere a causa di una crisi – che però per il momento non verrebbe dall'economia, in timida ripresa anche se senza grandi prospettive di crescita, legata essenzialmente al petrolio – o produrre una transizione che parte dall'interno, come successe con la perestroika di Gorbaciov. Un'ipotesi potrebbe essere il passaggio di testimone non a un singolo leader, ma a una generazione di tecnocrati allevati nel ventennio putiniano, che cominciano a fare la loro apparizione nei posti chiave come i governatorati e i ministeri. Sono preparati, pragmatici, senza particolari passioni ideologiche e proprio per questo pronti ad adeguarsi, una “generazione McKinsey” che provvede alla modernizzazione necessaria di un Paese che ha un urgente bisogno di ripartire, con davanti non più uno ma due competitor molto più ricchi, efficienti e tecnologici, l'Occidente e la Cina.

Sarebbe l'ipotesi di un passaggio di potere alla Castro, con il leader carismatico che esce di scena gradualmente, e senza perdere la sua aura di eroismo, evitando l'alternativa della rottamazione per obsolescenza. Con almeno due controindicazioni. La prima è che per un sistema di interessi come quello putiniano una exit strategy che non intacchi cariche, soldi, appalti, figli nelle poltrone altolocate, tutto l'intreccio di complicità e corruzione, è estremamente difficile. La seconda è che la macchina perfetta costruita da Putin è tale proprio perché totale: alla prima crepa nel monolite del potere rischia di sfasciarsi, oppure andrà in cerca di un nuovo padrone. La sola idea di una fine del putinismo nel 2024 manda già profondi segnali di inquietudine lungo i nervi del sistema, insieme a crescenti attese di una parte dell'élite moscovita. Quindi Putin dovrà dare ai suoi uomini certezze e promesse, senza disporre più di tante risorse.