Quanto dell’immagine diffusa che si ha dei conflitti mediorientali si basa sulla documentazione di operazioni militari e quanto è costruita attraverso la narrazione dei media?

 

Da queste stesse colonne un mese fa si scriveva di come “il Medio Oriente dei prossimi mesi e anni sarà sicuramente molto diverso da quello sino ad oggi conosciuto dall’Occidente. Da un lato, le linee di frattura legate alla questione curda che interessano Iraq, Turchia, Iran e Siria saranno centrali nel determinare nuovi equilibri e (potenzialmente) nuovi conflitti. Dall’altro lato, non è chiaro chi potrebbe evitare che la situazione degeneri”. Proprio rispetto al pericolo di degenerazione, nell’articolo si sottolineava il peso delle scelte future di Stati Uniti e Russia e, oggi, di fronte agli scontri violenti scatenati a Gaza a seguito dell’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme non possiamo che rafforzarci in questo pensiero.

In questo nuovo articolo, tuttavia, ci si focalizzerà su un aspetto che sta avendo un peso significativo nell’evoluzione della situazione mediorientale: il ruolo dei media internazionali e della manipolazione dell’informazione sui fatti di sicurezza internazionale.

Con riferimento al peso dell’informazione, il mese scorso l’attenzione mediatica è stata monopolizzata dall’episodio del presunto ricorso alle armi chimiche in Siria e dalle minacce di guerra che ne sono derivate. Oggi, come spesso succede, la notizia è quasi scomparsa dai media, sostituita da nuove notizie e allarmi, ma non essendo questo il primo caso in cui i media svolgono un ruolo importante di sostegno all’interventismo militare occidentale, è doveroso ricostruire l’episodio “a mente fredda” e cercare di inquadrarlo nell’attuale contesto geopolitico internazionale:

Se da un lato Assad ha già usato in passato armi chimiche è vero che anche i ribelli hanno impiegato in passato il gas per le loro operazioni belliche. L’arsenale chimico di Assad avrebbe dovuto essere smantellato nel corso del 2013 quando la Russia, per evitare l’intervento americano, si era fatta garante dell’operazione che si era conclusa positivamente. Quello dei ribelli non è noto e va anche detto che, da diverso tempo, armi chimiche sono a disposizione di vari gruppi irregolari in Medio Oriente (per esempio i gruppi dell’insorgenza irachena che iniziarono a impiegare bombe al cloro nel 2006).

E anche dal punto di vista delle motivazioni si possono trovare posizioni a sostegno di entrambe le ipotesi:

Quello che è certo è che le nostre società sono oggi fortemente esposte all’influenza dei media e della loro capacità di indirizzare ampi settori dell’opinione pubblica. Questo, indipendentemente dal fatto che le notizie siano sempre vere e verificate. Le fake news non sono purtroppo una novità, ma se applicate con intenzionalità ai temi della sicurezza internazionale possono avere effetti dirompenti. Il caso dei falsi video messi in rete con riferimento alla Siria è emblematico ma non è il solo. Un altro caso molto “famoso” è indubbiamente quello del 2003 in cui Colin Powell, all’epoca segretario di Stato, si presentò al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una fialetta contenente della polverina bianca sostenendo che fosse antrace. Powell affermò che il regime di Saddam fosse in grado di produrre e usare quella sostanza e che per questo fosse necessario agire il prima possibile. Il mese successivo sarebbe quindi scoppiata la guerra in Iraq, salvo poi scoprire che i programmi legati alle armi chimiche di Saddam fossero stati abbandonati a metà anni Novanta. Famoso anche il caso di manipolazione dell’informazione legato alla soldatessa americana Jessica Lynch, rapita dagli iracheni a Nassirya e liberata attraverso un blitz nell’aprile 2003, ma falsamente promossa dal governo americano come eroina di guerra. Ma esempi importanti possono essere documentati anche in precedenza, prima ancora che nascesse ufficialmente il World Wide Web, oggi canale privilegiato di diffusione delle fake news.

Uno di questi risale infatti al 1989, anno in cui stava chiudendosi la Guerra fredda. Nel dicembre di quell’anno scoppiarono delle rivolte in Romania contro il regime di Ceausescu, tra le notizie che filtrarono dal Paese si diffuse, anche sulla stampa italiana, quella di uccisioni di massa nella città di Timisoara. Malgrado nella zona non ci fossero giornalisti, come oggi spesso capita dal fronte siriano, la notizia venne pubblicata e gli viene data ampia diffusione, tanto che si parlò addirittura di documenti del regime intercettati che elencavano migliaia di morti. Emersero poi anche foto e report dalla città che descrivevano con minuzia di particolari le terribili ferite inferte e le cataste di cadaveri. Poi, con la morte del dittatore, la notizia quasi scomparve e solo nella primavera successiva si venne a sapere che quei cadaveri erano in realtà di persone precedentemente sepolte nel cimitero locale e le ferite altro non erano che i segni dell’autopsia. A Timisoara gli scontri ci furono ma le vittime si limitarono a qualche decina, molte meno di quelle all’epoca documentate dai media.

Un secondo evento accadde prima della guerra del Golfo del 1991, quando venne fatta circolare la notizia che i soldati iracheni, che avevano occupato il Kuwait, stavano uccidendo i bambini nelle incubatrici dell’ospedale della capitale. La notizia indignò il mondo e indubbiamente aiutò gli Stati Uniti a compattare l’alleanza che avrebbe di lì a poco liberato il Kuwait, ma era del tutto falsa: si basava infatti su un racconto di una testimone che era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington e che non era neppure in patria in quei giorni.

Questi e altri casi simili ammoniscono rispetto a un utilizzo eccessivo e troppo invasivo dei media, che spesso funzionano come cassa di risonanza per attori interessati e su notizie non sempre vere o verificate. Difendersi non è facile, ma cominciare a documentare i casi “svelati” di manipolazione e propaganda mediatica (sull’ipotesi Russiagate si sta ancora dibattendo e investigando, ma è anche questo certamente un caso “scuola”) possono essere un primo passo verso la costruzione di una maggiore consapevolezza.