Sono tre le espressioni in voga nel dibattito politico ed economico statunitense: “fiscal cliff”, “debt ceiling”, e “brinkmanship”. La prima espressione (“baratro fiscale”) fa riferimento alla correzione automatica dei conti pubblici che si avrebbe qualora non fosse mutata la legislazione. La seconda (“tetto al debito”) fa riferimento blocco della crescita del debito pubblico che si avrebbe qualora non si cambiassero i regolamenti. La terza (“politica del rischio calcolato”) fa riferimento alla strategia di portare lo scontro politico al limite della rottura per avere una maggiore forza negoziale.

Per ora abbiamo avuto solo un assaggio del “brinkmanship”, come si visto dal chiusura positiva del negoziato fra Democratici e Repubblicani che si è avuta all'ultimo momento lo scorso anno. Negoziato che, se si fosse chiuso con un nulla di fatto, avrebbe fatto scattare il “fiscal cliff”. Intanto il debito pubblico degli Stati Uniti cresce. Il volume di debito pubblico che il Tesoro è autorizzato ad emettere (il “debt ceiling”) è pari a 16,4 mila miliardi dollari, un numero pari a circa il 100% del PIL. Oltre questo volume di debito, il Tesoro taglia i pagamenti degli stipendi a un buon numero di dipendenti pubblici, a meno che i deputati e i senatori non alzino il tetto del massimo volume del debito che si può emettere. Il volume di debito corrente più quello di nuova emissione raggiungerà il “debt ceiling” nei prossimi mesi.

Il baratro fiscale non è scattato negli scorsi giorni, perché all'ultimo minuto è stato trovato un accordo. L'accordo alza le aliquote massima di imposta per gli abbienti (dal 35% al 40% circa) e quindi riduce il deficit, ma, trattandosi di “pochi soldi”, lo riduce in misura marginale, e dunque il deficit si riduce, ma resta comunque molto elevato. Esso produce altro debito, che si scontra con “il tetto al debito”. Ora immaginiamo lo scenario politico, che diventa anche finanziario.

Un accordo parziale sul “fiscal cliff” è stato raggiunto - non toccando le spese, ciò che piace ai Democratici, toccando le aliquote degli abbienti, ma non toccando molto le esenzioni fiscali di cui usufruiscono gli abbienti, ciò che in fondo non dispiace ai Repubblicani – ma deve essere portato avanti. Dunque riprenderà lo scontro, perché i Repubblicani, che hanno la maggioranza alla Camera dei Deputati, vorranno un taglio delle spese. Il negoziato sul taglio delle spese si avrà mentre si dovrà decidere se alzare il “debt ceiling”. Questa è una combinazione di eventi favorevole per i Repubblicani. Hanno ceduto qualcosa sul “fiscal cliff”, e perciò possono negoziare sui tagli alla spesa, mentre arriva il famigerato “debt ceiling”, che mostra “urbi et orbi” quanto debito pubblico gli Stati Uniti stiano accumulando. Il negoziato probabilmente sarà condotto portando la situazione al limite della crisi, ossia con modalità da “brinkmanship”.

Non solo i negoziati dovranno continuare per risolvere nel breve termine il nodo del controllo del deficit e del debito, ma prima o poi dovrà riprendere il dibattito e poi i negoziati per mettere sotto controllo la spesa sociale nel lungo termine. Quest'ultima è una spesa crescente per effetto dell'invecchiamento della popolazione, con l'imbarazzante caratteristica di non essere finanziabile con il solo aumento delle imposte.

Se Bush non avesse mai tagliato le imposte per un periodo limitato, poi esteso da Obama, e se non avesse fatto guerra all’Iraq e all’Afghanistan, poi continuata da Obama, e se non ci fosse stata – sotto entrambi i Presidenti – la crisi, ebbene il bilancio federale sarebbe in pareggio e non in deficit. Ciascuna delle succitate voci ha avuto un impatto molto diverso. Di molto maggiore è il peso del taglio delle imposte nell’alimentazione del deficit, seguito dalla crisi e, in ultimo, dalle guerre.

I deficit generati delle diverse voci (i flussi) si sommano fino a produrre il debito (lo stock) generato da ogni voce. Ai diversi deficit sono sommati gli oneri da interessi pro quota. Ne viene fuori il debito pubblico generato da ogni voce. Si proiettano poi i deficit – che, cumulati, producono debito – sino alla fine del decennio. La proiezione avviene mantenendo la legislazione invariata, quindi escludendo l'accordo sul rialzo delle imposte raggiunto nel dicembre 2012. Alla fine del decennio in corso la metà del debito pubblico statunitense – quello detenuto dal pubblico, che tende al 100% del PIL - sarà figlio delle minori imposte. Lasciando, invece, spirare le esenzioni delle imposte di Bush e supponendo di avere un gettito pari alle maggiori imposte, si ha il nuovo gettito fiscale. Le vecchie imposte più le nuove imposte che arrivano dalla fine delle esenzioni sono in grado – azzerando il deficit – di fermare la crescita del debito già nel decennio in corso.

Tutto bene, pericolo scampato, basta alzare le imposte (o meglio far finire le esenzioni) nei prossimi anni? No, perché la popolazione invecchia e l’impatto della spesa sociale arriva nei decenni che seguono quello in corso. Se si proietta il nuovo gettito fiscale – quello con la simulazione della fine delle esenzioni d’imposta – esso da solo è pari, nel 2050, alla spesa sociale. Ossia, le altre spese pubbliche (la gestione della difesa, della giustizia e dell'ordine pubblico) non saranno finanziate dalle imposte. La spesa sociale crescerà molto per l’invecchiamento della popolazione. Laddove per spesa sociale si intende il Medicare – le cure sanitarie per gli anziani – e il Medicaid – le cure sanitarie per i poveri. La spesa sociale crescerà in tutto il Mondo, ma molto meno in Germania e in Italia.

Con le maggiori imposte si porta sotto il controllo il debito pubblico nel decennio in corso e si finanzia solo la spesa sociale nei decenni a venire. Il sistema politico dovrà quindi decidere se colpire i contribuenti oppure chi usufruisce della spesa sociale – o una via di mezzo. In realtà, esiste anche una «terza via», praticata con successo dopo la la seconda guerra, che è quella di schiacciare artificialmente i rendimenti del debito pubblico sotto il tasso di crescita dell’economia. In questo caso, non sono i cittadini come contribuenti, né i cittadini che usufruiscono della spesa sociale a essere colpiti, ma i cittadini come risparmiatori.