I prezzi delle azioni continuano a salire, mentre quelli delle obbligazioni dei Tesori dei Paesi maggiori hanno smesso di salire. Come si spiega questa ascesa perpetua? E poi come sono le cose se viste con disincanto?

Partiamo dalle obbligazioni. La domanda di obbligazioni da parte delle banche centrali – il famigerato Quantitative Easing – schiaccia il rendimento di tutte le attività finanziarie. Come? Il QE riduce le attività a disposizione dei privati. Questi ultimi però le chiedono lo stesso, e perciò i prezzi salgono. I rendimenti allora si addensano, sia che il rischio sia basso, sia che sia elevato. Trovate esposto per esteso il meccanismo che porta alla compressione dei rendimenti qui (1).

Ma non c'è solo la domanda di obbligazioni da parte delle banche centrali. La popolazione invecchia e quindi abbisogna di un maggior stock di risparmio per passare una vecchiaia serena. Una popolazione con una forte presenza di anziani chiede anche di investire dove il rischio è limitato, quindi in attività finanziarie con un merito di credito elevato, altrimenti noto come rating elevato. Le attività a rischio limitato negli ultimi anni sono diminuite molto, ossia le obbligazioni con in pancia i mutui ipotecari negli Stati Uniti e le obbligazioni del Tesoro di Italia e Spagna hanno oggi, a differenza del passato, un rating basso. Segue che, se tutti per mancanza di alternative si riversano a comprare il debito tedesco, ecco che questo finisce con il rendere appena l'uno per cento sulle scadenze lunghe. Il livello minimo del debito tedesco incentiva a comprare gli altri debiti, quelli con un rating inferiore. Il debito italiano, pur rendendo solo il due e mezzo per cento, ha però anche un rendimento pari a due volte e mezzo quello tedesco, e dunque, passata la paura che l'Euro-area andasse in frantumi, è diventato attraente. Trovate esposto per esteso il secondo meccanismo che porta alla compressione dei rendimenti qui (2).

In campo azionario le cose sono più complicate, perché si hanno meno informazioni di quelle a disposizione in campo obbligazionario. Inoltre, le informazioni complete si hanno sugli Stati Uniti. Ma poiché il mercato statunitense guida gli altri, ha senso osservarlo a fondo, per farsi un'idea della fragilità.

Contrariamente a quanto si crede, gli Stati Uniti non sono l'Eden delle imprese quotate. Quelle non quotate occupano due terzi della forza lavoro, generano la metà del fatturato di tutte le imprese, e, infine, producono la metà degli utili ante imposte (3). Se producono la metà degli utili, allora le imprese quotate producono la metà rimanente, direbbe sommesso monsieur de La Palisse. Indaghiamo. Si hanno gli utili calcolati come contabilità nazionale – la parte dei redditi che deve essere coerente con il PIL che, a sua volta, misura la parte pertinente la domanda. Questi sono numeri solidi. Ebbene la volatilità (la variazione media intorno alla media) degli utili delle imprese quotate è stata dal 1952 al 2000, quindi per quaranta anni, simile a quella calcolata secondo le statistiche nazionali. Poi, a partire dal 2000 ed arrivando fino ad oggi, quindi da quindici anni, la volatilità degli utili dichiarati dalle imprese quotate è pari al triplo della volatilità degli utili misurati dalle statistiche nazionali. Viene il dubbio che i bilanci siano volti a migliorare i risultati “facciali”, che aiutano la crescita dei redditi legati ai risultati dei manager. Trovate esposta la discussione sull'anomalia della volatilità degli utili delle imprese quotate, rispetto agli stessi utili come misurati da contabilità nazionale qui (4), (5).

Una prova semplice dell'anomalia è questa. I dividendi, a differenza degli utili, sono “certi”, ossia sono un reddito distribuito per contanti. Avevamo visto che gli utili ante imposte delle società non quotate è pari alla metà di tutti gli utili, quindi le società quotate devono produrre la metà degli utili nazionali. Mentre i dividendi delle imprese non quotate (i numeri sono quelli delle imprese non finanziarie) e quotate sono simili (52%), e dunque soddisfano la metrica della contabilità nazionale, gli utili non distribuiti sono quasi il doppio (171%). Il che alimenta il sospetto che siano “gonfiati”. Questi sono i conti di Andrew Smithers, già prestigioso gestore ed ora, giunto alla pensione, commentatore disincantato (6).

Miliardi di dollari

Imprese quotate (a)

Tutte le imprese (b)

a/b

Utili netti

814

859

95%

dividendi

286

551

52%

Utili non distribuiti

527

308

171%

E allora, si potrebbe dire, sono solo delle astruserie? C'è il risvolto pratico. Se gli utili netti delle imprese non finanziarie quotate sono quasi eguali a tutti gli utili (814 in rapporto a 859) invece della metà, come si evince indirettamente dai dividendi che sono correttamente la metà (286 su 551), allora può ben essere che essi siano molto gonfiati. In questo caso, il rapporto fra Capitalizzazione e Utili della borsa statunitense, invece di essere circa pari a 15 volte, sarebbe pari a 30 volte (7). Ossia la borsa è molto più cara di quanto si creda.

Messa con linguaggio colorito. Le obbligazioni salgono, perché comprate dalle banche centrali e dai vecchietti. L'ascesa delle obbligazioni buone trascina l'ascesa delle obbligazioni cattive. Entrambe, quelle buone e quelle cattive, hanno dei prezzi anormalmente alti (dei rendimenti anormalmente bassi). Le azioni sembrano care – hanno un rapporto fra prezzo e utili distante dalla media storica. Gli utili però sembrano gonfiati (i numeri sono quelli statunitensi, perché Oltreoceano si hanno più informazioni e ricerche). Anzi, piuttosto gonfiati, addirittura pari al doppio di quel che sarebbero secondo altre metriche. Perciò abbiamo una borsa che già non è a buon mercato con degli utili che non sono credibili. Che fare?

Nel 2000 e nel 2007 i mercati delle azioni avevano delle valutazioni simili a quelle correnti – dei rapporti prezzi utili alti ed un livello elevato di sottovalutazione del rischio, come misurato dall'indice VIX. La differenza fra il 2000 e il 2007 rispetto ad oggi è il livello dei rendimenti sui titoli di stato. Ai picchi dei livelli delle azioni si avevano dei rendimenti decennali normali – il 5% negli Stati Uniti ed il 3,5% in Germania, contro il 2,5% e il 1% di oggi.

Nel 2000 e nel 2007 si poteva osservare con distacco olimpico il livello elevato delle quotazioni azionarie, perché il livello dei rendimenti delle obbligazioni era sufficientemente alto da potersi spostare dal reddito variabile a quello fisso senza rischio. Oggi, invece, se ci si sposta dal reddito variabile a quello fisso si rischia, perché il rendimento delle obbligazioni è così basso se non negativo che il prossimo movimento dei prezzi delle obbligazioni sarà all'ingiù – per alzare il rendimento di un'attività la cui cedola è fissa, è, infatti, il prezzo che deve scendere.

Per dirla con linguaggio colorito, nel 2000 e nel 2007 avevamo un mercato in “bolla” ed uno che non lo era, mentre oggi abbiamo entrambi i mercati in “bolla”. Per bolla azionaria si intende una valutazione maggiore di quella che ci si può aspettare da un flusso ragionevole di dividendi scontato con dei rendimenti normali. Per bolla obbligazionaria si intende una valutazione che non può essere giustificata una volta che la crescita economica si stabilizzi e la variazione dei prezzi (inflazione) diventi normale.

In quale dei due mercati in bolla conviene stare? Se il mercato delle azioni cade, quello delle obbligazioni resta fermo. Se il mercato delle obbligazioni cade, come avvenuto ad un certo punto del 2013, quello delle azioni cade. In questi semplici termini, il mercato delle obbligazioni è meno pericoloso. Ossia, in termini di divaricazione dei mercati in un arco temporale limitato, il mercato del reddito fisso, pur essendo molto caro, è meno pericoloso. Diverso è il caso di una ascesa regolare del rendimento delle obbligazioni. I prezzi di queste ultime scenderebbero, salirebbero i rendimenti, ossia salirebbe il fattore di sconto delle azioni, che scenderebbero anche esse. In questo caso va preferita la liquidità.

(1) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3920-vivisezione-del-quantitative-easing.html

(2) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3917-la-stagnazione-secolare-i.html

(3) http://www.hbs.edu/faculty/Pages/item.aspx?num=41494

(4) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3781-del-salire-e-del-rimanere-sospesi.html

(5) http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3860-del-salire-e-del-rimanere-sospesi-ii.html

(6) blogs.ft.com/andrew-smithers/2014/09/true-profits-and-published-profits/

(7) http://www.scmsim.it/web/blog/lincertezza-sulla-direzione-delle-cose-ii

Avvertenza: Lettera Economica (su www.centroeinaudi.it) è un sito di ricerca sull’economia dei mercati finanziari. In nessun modo le sue previsioni vanno intese come un invito a trasformarle in investimenti. Il Centro Einaudi declina ogni responsabilità per le conseguenze che possono essere arrecate agli utenti per danni o perdita di profitti. I contenuti pubblicati non rappresentano né un incitamento o un’offerta di acquisto o vendita, né un incitamento o un’offerta a effettuare transazioni o atti giuridici. Sono forniti esclusivamente a titolo informativo e possono essere modificati dalla redazione di Lettera Economica in qualsiasi momento senza preavviso. I contenuti messi a disposizione non costituiscono raccomandazioni per le decisioni d’investimento. Gli investimenti finanziari vanno scelti a livello individuale, tenendo presente che il rischio non è eliminabile e decidendo in anticipo l’orizzonte temporale cui fare riferimento.