Nel dibattito sulla politica economica prevale l'approccio sugli effetti immediati della manovra. Messo in questi termini il dibattito sulla politica fiscale non è però esaustivo, perché dipende troppo dall'approccio macroeconomico, più precisamente dalle sole manovre di bilancio. Così facendo mancano le contaminazioni di altra natura – come quelle storiche e politiche. Di questo ora dibattiamo. Nella prima parte abbiamo dibattuto della manovra fiscale come tale.

1 – Che cosa abbiamo ereditato?

Da circa venti anni l'Italia ha smesso di crescere - anche molti altri paesi europei hanno smesso di crescere, ma l'Italia ha rallentato di più, e lo spegnimento è incominciato prima che si entrasse nell'euro. Le imprese italiane sono molto competitive nei settori tradizionali - come il tessile abbigliamento, la meccanica, e i beni capitali, ma hanno perso colpi nei settori dove si muovono le grandi imprese – come quello della chimica, della farmaceutica, dell'elettronica, e dell'auto. L'economia italiana è perciò più concentrata rispetto al passato nel campo delle piccole e delle medie imprese. Quelle che servono il mercato interno vanno bene a tratti, quelle che esportano, invece, crescono. Le imprese piccole e medie hanno un debito di maggiore del capitale di rischio. Perciò quando il credito si restringe, esse hanno meno risorse per continuare.

Questa è l'economia che molti – le forze oggi al governo – pensano che si possa governare e far crescere rilanciando la politica fiscale in deficit.

Ieri però si era cercato di migliorarla grazie all'euro. L'Italia aveva una base industriale più che decente, ma era penalizzata dagli alti tassi di interesse, tassi maggiori di quelli degli altri Paesi sviluppati. Il livello dei tassi dipendeva dall'inflazione corrente, che aveva raggiunto dei picchi intorno al venti per cento, ma che normalmente era intorno al cinque per cento, e dall'incertezza intorno al suo corso futuro. Il denaro costava più che in altri Paesi, che avevano un'inflazione di molto inferiore. Ciò penalizzava non solo l'industria, ma anche le famiglie con i mutui, e il Tesoro con gli interessi sul debito. Vincolando il cambio, prima con i vari “serpenti”, e poi con l'Euro, l'inflazione non avrebbe potuto che scendere, perché sarebbe mancato lo sfogo della svalutazione. Inoltre, una volta che si fosse vincolato il bilancio pubblico al solo finanziamento con obbligazioni, ossia senza emissione di moneta, l'inflazione non avrebbe potuto che scendere. 

Allora i salari crescevano più della produttività. In diversi momenti, man mano che crescevano i differenziali di inflazione da costi, le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. Ma c'era una terza opzione: la svalutazione della Lira. Questa era la più semplice delle soluzioni, perché le merci tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale – ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”, e non era nemmeno richiesto – almeno nel breve termine, che tecnologia salisse di livello. La svalutazione della Lira era un'opzione politica compatibile con la forza del Partito Comunista, che era un “partito di lotta e di governo”, e quindi promuoveva sia le relazioni industriali conflittuali sia la governabilità. Il compromesso fra i due “vettori” era la moneta libera di fluttuare, grazie alla quale si lasciavano correre “le lotte” per poi fermarne l'impatto negativo con il cambio svalutato. Dalla caduta del Muro nel 1989 il PCI è mutato cambiando molte volte denominazione per poi unirsi alla Sinistra democristiana e formare il PD. Da allora l'idea che la politica economica debba piegarsi alla “lotta di classe” non si è più sentita.

Le cose non si sono però messe nella direzione dello sviluppo di qualità. Le produzioni italiane possono prosperare con il cambio forte se si specializzano lungo la catena alta del valore aggiunto, vale a dire nei settori a maggiore innovazione tecnologica, quelli che meno soffrono la concorrenza delle economie emergenti. Le produzioni leggere - dette del Made in Italy - o dei servizi, come quelle legate al turismo, invece, non richiedono molta istruzione formale, ragion per cui si va a scuola relativamente poco e si studiano meno le materie scientifiche; allo stesso tempo, i livelli di istruzione insoddisfacenti ostacolano il miglioramento tecnologico che sarebbe proprio di un paese avanzato. Altrimenti detto: la crescita non fondata sul capitale umano è andata bene fin quando non vi era la concorrenza manifatturiera dell’Asia e la Lira si svalutava. A ciò si aggiunge l’inefficienza del sistema amministrativo. Si ha un'offerta carente di infrastrutture, che sono sotto la media dell'Unione, e una modesta efficienza della giustizia, che si può approssimare con la durata dei procedimenti civili in primo grado e in appello, anch'essa sotto la media dell'Unione (1).

2 – Il partito della spesa e quello contro

Come si è visto, l'offerta negli ultimi decenni non si è mossa verso la parte alta della catena del valore, sicché ha tratto forza l'idea del traino dell'economia attraverso la domanda. In particolare la domanda pubblica - in deficit e non.

Il ragionamento di quelli che non vedono che cosa ci sia da toccare (anzi) sul lato delle spese, e che si possono (addirittura) alzare è questo: a) in Italia si ha un'alta spesa per interessi, circa il 4% del PIL. Non si può far nulla per ridurla, perché si forma sui mercati finanziari che fanno le comparazioni fra debiti pubblici; b) e abbiamo un'alta spesa per pensioni. Quel che si poteva fare per ridurre quest'ultima è stato fatto. L'Italia perciò, se si esclude la spesa per gli interessi e per le pensioni, che sono delle “esogene”, è un Paese che ha una modesta spesa pubblica in rapporto al PIL, almeno entro l'Unione Europea. Per quanto riguarda le altre voci, potremmo perciò spendere come gli altri.

L'idea di fondo di chi vuole frenare la spesa è che esiste un livello oltre la quale non si ha un ritorno proporzionale nella qualità dei servizi e nei risultati. Per esempio, la salute. La spesa sanitaria sale velocemente, ma la speranza di vita aumenta lentamente. Altro esempio, la scuola. Aumenta la spesa, ma è da vedere se, da un certo punto in poi, cresce la qualità del capitale umano o solo il monte salari degli insegnanti.

Dov'è, alla fine, la differenza fra il “partito della spesa” e quello dei suoi avversari? Il primo vuole lo “stato sociale”, mentre il secondo, crudele, vuole abbatterlo? No. La prima differenza è che il primo, a differenza del secondo, non vede “i risultati marginali decrescenti” della spesa pubblica. Infatti, parla solo di “livelli” e mai di “efficienza”. La seconda differenza fra i due “partiti” è nell'importanza che si vuol dare alle politiche dell'”offerta”. Il primo pensa che sia la domanda a trainare l'economia, il secondo pensa che una miglior offerta possa aiutare la crescita efficiente della domanda.

3 – Il partito del debito pubblico all'inglese e alla tedesca

Si può giudicare il debito pubblico all'”inglese” – ossia trovarlo troppo pericoloso, perché nelle mani dei potenti, così come, alternativamente, lo si può giudicare alla tedesca – ossia pericoloso ma governabile (2), (3), (4).

Nel Bel Paese i due punti di vista si scontrano e qualche volta si confondono.

In olandese e tedesco Schuld (=debito) richiama sia il debito sia la colpa, così come accade con l'ebraico Chayav. Questo per dire della profondità di richiami della parola “debito”. L'argomentazione sul debito è generalmente favorevole quando si parla di quello privato, perché grazie a questo, se erogato agli imprenditori, si accelera lo sviluppo d'impresa, mentre il debito privato, se erogato alle famiglie, ha una lettura ambigua, positiva quando grazie a questo si può anticipare un miglior tenore di vita, negativa quando si afferma che è pericoloso “vivere sopra i propri mezzi”. Un esempio classico è quello dei mutui. Invece di vivere risparmiando molto in una abitazione modesta sognando di comprare un giorno una casa migliore, ecco che - grazie al mutuo ipotecario - si evita il risparmio preventivo portato avanti negli anni e la casa migliore la si può avere subito. Se però l'eccesso di offerta di mutui spinge così in alto i prezzi delle abitazioni che questi non possono che cadere in un periodo successivo, ecco che si ha una crisi, che può essere anche grave come quella dei famigerati mutui sub-prime di dieci anni fa.

A noi però interessa il debito pubblico. Il debito era della Corona e il re di frequente lo ripudiava. Se non lui, accadeva che il successore al trono non lo riconoscesse. Da qui i tassi di interesse abnormi richiesti dai banchieri dei tempi. Si pensò allora che, se il debito fosse stato controllato da chi lo comprava – i ricchi dell'epoca, ecco che sarebbe diventato più sicuro. Diventando più sicuro il tasso richiesto sarebbe sceso. A quel punto i ricchi erano contenti, perché evitavano il ripudio, mentre il re poteva indebitarsi a un costo inferiore. Ciò che accadde in Gran Bretagna prima che da altre parti. Il risultato fu che le guerre della “perfida Albione” costavano molto meno di quelle degli altri. In Francia si era scettici proprio per colpa (Schuld) dell'esperienza reale del ripudio del debito (Schuld). Montesquieu sosteneva che il debito pubblico “estraeva il reddito da quelli che lavoravano per darlo agli indolenti”. Gli scozzesi Hume e Smith temevano – nonostante o proprio perché favoriva le ambizioni della Corona - che il debito pubblico avrebbe corrotto gli stati, spingendolo a guerre vane. Inoltre, temevano che avrebbe alimentato le clientele (=political patronage). Delle idee non diverse si manifestavano anche negli Stati Uniti con Jefferson.

Quelli che sono visti oggigiorno come i nemici del debito pubblico – i tedeschi, sono, invece, quelli che in epoca pre-keynesiana, quindi anteriormente alla Prima guerra, difendevano il ruolo dinamico della spesa e del debito pubblico. La Germania era “il” Paese emergente e per industrializzarsi in fretta seguì la strada del “dirigismo”, con l'intervento pubblico diretto e con quello delle banche “miste” in sede di investimenti. L'Italia fece lo stesso. Addirittura un economista dell'epoca - Karl Dietzel – sosteneva che “A nation is so much the richer and its national economy so much more blossoming and progressing, the greater the ratio of interest payments on government bonds in total government outlays is”. Addirittura un altro economista dell'epoca - Lorenz von Stein – sottolineava “the role of public debt as collective insurance, above all in helping provide for old age, and thus in promoting social and political integration”.

Naturalmente restavano tedeschi quindi aborrivano lo spreco. Il dubbio era che la spesa pubblica si sarebbe rivolta verso il finanziamento dei consumi e non degli investimenti. Insomma, si voleva uno Stato Dirigista e Sociale, ma, nel contempo, austero. Il succitato von Stein chiese allora una salvaguarda costituzionale contro l'uso improprio della spesa. Salvaguardia che è oggigiorno ripresa nella Legge Costituzionale della Repubblica Federale di Germania.

4 - Conclusioni

Nel campo della politica fiscale si hanno due schieramenti avversi. Gli economisti “mainstream” sono quelli che hanno creduto che una stretta fiscale - come quella di Monti – avrebbe potuto essere espansiva, perché avrebbe potuto riportare la fiducia sulla tenuta del sistema, e quindi spingere gli investimenti e i consumi. Sempre gli economisti “mainstream” credono che le espansioni fiscali – come quella in atto del governo MM5S-Lega - possano – all'opposto delle intenzioni – essere restrittive, perché, accrescendo gli oneri da interesse, finiscono per frenare la crescita. Naturalmente gli economisti “fuori dal coro” - o per usare un termine in voga i “sovranisti” - pensano l'opposto. Nella prima parte (5) abbiamo visto che gli economisti “mainstream” sembra che abbiano ragione.

Non basta mostrare come le politiche centrate sulla maggior spesa a favore dei redditi di cittadinanza e pensionistici non siano efficaci. Si tratta di capire perché sono sorte. Il Bel Paese ha fatto fatica a modernizzarsi, e dunque alla fine ha un sistema economico a macchie: forte da alcuni parti, polverizzato da altre. In questo mondo è facile che emergano dei politici tornati “dei sacerdoti volti alla salvezza dei meno fortunati” (6). L'offerta politica di un intervento immediato come il reddito di cittadinanza e le pensioni non può che essere ben vista da chi non vede delle soluzioni all'orizzonte. La soluzione offerta non ha però respiro, perché non tocca la spesa per incrementare il “capitale umano”, le infrastrutture, eccetera. E dunque alla fine, è una manovra dal lato della domanda che lascia l'offerta così come è.

5 - Link

1 - Emanuele Felice. Ascesa e declino: Storia economica d'Italia. Il Mulino.

2 - https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/4997-pamphlet-su-populismo-terza-parte.html

3 - https://www.foreignaffairs.com/articles/2015-05-03/morality-debt

4 - https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2255977

5 - https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/5020-strette-ed-espansioni-fiscali-prima-parte.html

6 - https://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/3636-economia-come-religione-da-cambridge-a-chicago.html