Vi è della sostanza dietro il nervosismo dei mercati finanziari? Si, certo. I prezzi delle azioni stanno flettendo. E stanno flettendo, perché il settore finanziario non è ancora uscito dalla crisi innescata dai mutui sub prime, mentre il petrolio continua a salire. Sembrano, e sono, delle motivazioni sufficienti. Ma non è tutto quel che bolle in pentola. Fermando il ragionamento alla caduta dei mercati finanziari, si tengono fuori i dilemmi della politica economica. E questi ultimi si concentrano in larga misura negli Stati Uniti.


Il 30 giugno esce il Rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), la banca centrale delle banche centrali, con sede a Basilea, in Svizzera. Colpisce il linguaggio molto diretto. Espressioni poco distaccate, anzi aspre, inusuali per una istituzionale autorevole. Si deve supporre che pensino che le cose si stiano davvero aggravando e che quindi occorra sottolinearlo. Possiamo sintetizzare il voluminoso e dotto Rapporto. Si possono lasciare i tassi di interesse dove sono per alimentare la crescita, ma in questo modo non si spengono i focolai di inflazione. Si possono, invece, alzare i tassi di interesse e questo può indebolire la crescita, ma si spengono i focolai di inflazione. Che cosa è meglio fare? Se si fosse sicuri che l’inflazione prima o poi si spegne, la prima scelta è la migliore. Ma, se non si è molto sicuri, la seconda scelta diventa la migliore. In questo modo, infatti, non si rischia di avere in futuro una minor crescita con una maggiore inflazione. La ricetta proposta dalla BIS è quella di alzare i tassi.
 

La prima settimana di luglio registra la decisione della Banca Centrale Europea (BCE) di alzare il tasso di interesse al 4,25% dal 4%. Circa la settimana prima la Federal Reserve (FED) aveva lasciato i propri tassi invariati al 2%. Si direbbe quindi che la BCE segua le idee della BRI, mentre la FED non ancora. (Un’interpretazione maligna dice che la FED potrebbe anche condividere le idee della BRI e della BCE, ma non le può seguire, perché teme il peggio se alza i tassi. Avendo, infatti, contribuito, fin dai tempi di Alan Greenspan, ad alimentare la credenza che ha gli strumenti necessari per cavar sempre fuori dai guai l’economia, quello che gli americani chiamano “magic”, si troverebbe ad ammettere la propria relativa impotenza).
 

Insomma, siamo ad una svolta. Il linguaggio diretto di una istituzione prestigiosa, seguito da una mossa, quella della BCE, schierata su una scelta di politica economica, quella di abbattere subito le aspettative di inflazione. La palla è ora nelle mani della FED. Ed è lei che deve servire. I tassi trimestrali negli Stati Uniti sono al 2%. L’inflazione misurata senza includere le materie prime è intorno al 3%, mentre quella che le include è intorno al 4%. I tassi di interesse sono negativi ed i tassi d’interesse negativi alimentano la crescita economica, ma possono spingere verso un’inflazione maggiore. La politica dei tassi negativi prima o poi deve cambiare. Ma, se la FED alza i tassi ora, il sistema finanziario statunitense, in crisi per i mutui sub prime e con le famiglie molto indebitate, ne può risentire molto negativamente. Non riuscendo a scegliere, va detto per sportività che non è facile, la FED sta pensando ad altre soluzioni.
 

Una è quella esposta in un incontro a Berlino qualche settimana fa da un suo vice presidente, Donald Kohn. Essa prevede che i paesi in via di sviluppo alzino i loro tassi d’interesse per combattere la loro inflazione, che è molto alta. Facendo così, frenerebbero le loro economie. Cadrebbe quindi la domanda di materie prime ed alla fine il loro prezzo. Il prezzo delle materie è all’origine dell’inflazione statunitense e quindi con la caduta del loro prezzo non ci sarebbe bisogno di alzare i tassi. Questa scelta consentirebbe di tenere i tassi d’interesse statunitensi bassi, alimentando la crescita senza inflazione. Insomma la FED può non scegliere se gli altri scelgono per lei.


Non si capisce perché i paesi in via di sviluppo dovrebbero fare questa scelta per il bene altrui. Gli Stati Uniti, dentro un anno elettorale, non possono scegliere delle politiche economiche restrittive, come accadrebbe con il rialzo dei tassi. Si tratterebbe alla fine di fare loro un favore. I paesi asiatici durante la crisi del 1997 non furono favoriti, ma spinti a seguire delle politiche molto restrittive, non proprio direttamente dagli Stati Uniti, ma dal Fondo Monetario Internazionale. L’idea era che non si possono avere degli afflussi di capitale perpetui per finanziare i disavanzi commerciali. I disavanzi, proprio per evitare che diventino esplosivi, vanno eliminati “fin da bambini” con delle politiche monetarie e fiscali restrittive. Esattamente quanto dovrebbero fare oggi gli Stati Uniti, se fossero un paese asiatico minore di un decennio fa. Supponiamo, ed è ragionevole, che i paesi asiatici non facciano questo favore, quello di tagliare la propria crescita, ma che non vogliano nemmeno mettere in difficoltà gli Stati Uniti, perché essi sono ancora necessari per la loro crescita economica. In questa situazione, e vere tutte le ipotesi, l’unico equilibrio che si potrebbe ottenere negli Stati Uniti è quello che combina: 1) dei tassi bassi, per l’alimentazione “di base” dell’economia 2) degli stimoli fiscali per alimentare ulteriormente l’economia, stimoli peraltro già chiesti da entrambi i candidati alla Presidenza, 3) con i paesi in via di sviluppo che comprano il nuovo debito emesso per far fronte ai succitati stimoli fiscali. Ossia, in parole povere, con i paesi asiatici che non fanno un vero favore agli Stati Uniti, ma neppure li mettono in vera difficoltà.
 

Tutto questo dieci anni dopo la crisi asiatica. Il mondo si capovolge in fretta.
 

Non è detto che funzioni. La domanda di materie prime, infatti, in questo caso, non scende in misura significativa, e questo può alimentare l’inflazione. Non solo, anzi soprattutto, non è detto che i paesi emergenti dopo qualche tempo non finiscano per ridurre i propri acquisti di titoli del tesoro statunitensi, chiedendo di potere comprare le azioni statunitensi. Può sembrare un’ipotesi azzardata, ma perché mai il governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, tutto sorridente fra il governatore italiano Draghi e quello europeo Trichet, ha dichiarato un paio di settimane fa a Roma che il loro fondo sovrano, ossia il fondo che investe in azioni per conto della banca centrale, è pronto ad investire ovunque a condizione che non gli vengano posti dei limiti?
 

Pubblicato su Gazeta.ru il 15 luglio 2008