“Eliminare oggi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non serve. Anzi, sarebbe controproducente, perché genererebbe centinaia di migliaia di disoccupati in più e aggraverebbe la crisi occupazionale”: così scriveva l’anno scorso – l’anno scorso, non 20 o 30 anni fa – Yoram Gutgeld, deputato Pd e renziano ante marcia, attualmente consigliere economico presso la Presidenza del Consiglio a Palazzo Chigi.

 

 

“In questo momento è di fatto economicamente impossibile abolire l’articolo 18. Per colpa di questa guerra di religione abbiamo trascurato per lungo tempo le questioni più importanti”, rincarava la dose, definendo l’argomento “uno scontro ideologico interessante, ma poco rilevante”. Sono in molti a pensarla così, non solo nella sinistra tradizionale: Ferruccio De Bortoli, Diego Della Valle e altri ancora. Dalle colonne dello stesso Corriere della Sera, tuttavia, Angelo Panebianco fa giustamente notare che l’operato del governo Renzi non va valutato solo per le riforme portate a termine - per questo è ancora presto - ma anche e soprattutto per la forte carica innovativa sul piano politico e simbolico.

In questo senso, lo scontro cercato e voluto da Renzi con il sindacato proprio sul tema cruciale della riforma del lavoro, potrebbe generare nel clima economico e negli investimenti esteri ritorni imprevisti, ben al di là dell’effettiva consistenza dei provvedimenti in discussione. Rovesciando la frase di prima, insomma, Panebianco giudica questo scontro ideologico rilevante, in quanto interessante.

Se da un lato Gutgeld si contraddice, da un altro lato dimostra di avere ben chiari i termini del problema, quando sostiene che le difficoltà attuali dell’Italia non derivano affatto – o non solo – dall’austerità imposta da Bruxelles, dai vincoli di bilancio, dall’eccessivo rigore tedesco eccetera. Scrive infatti che “negli anni Settanta e Ottanta siamo cresciuti con deficit ciclopici, raggiungendo un livello di debito insostenibile (…) La nostra sfida non è spendere di più con il beneplacito di Bruxelles e di Francoforte, ma avere politiche di entrata e di spesa che, a parità di dimensioni (anzi possibilmente un po’ più piccole) ottengano più crescita”.

Una direzione, questa delle politiche di bilancio virtuose, e perciò positive in termini generali, che invece sembra sfuggire completamente a Jean-Paul Fitoussi, uno degli economisti più critici nei confronti degli attuali assetti europei. Leggendo attentamente i testi anche più completi e sistematici di Fitoussi, un particolare balza agli occhi: la parola “sprechi” non compare mai, neppure incidentalmente. Egli muove da un ritratto piuttosto caricaturale dell’economia di mercato e imputa la crisi attuale alla “irragionevolezza del sistema”, cioè all’eccessiva libertà dei mercati finanziari, foriera di squilibri e diseguaglianze. Tutto, in questa visione, viene fatto risalire al pensiero unico liberista, colpevole di limitare il ruolo dello Stato nell’economia.

Il motto “troppe tasse uccidono le tasse”, sostiene Fitoussi, non è altro che una falsificazione. Sono semmai le diseguaglianze la causa principale della crisi: essa non è forse nata negli Usa, cioè là dove le distanze sociali sono aumentate? Agli inizi degli anni Duemila, dopo gli attentati del 11 settembre, le autorità americane hanno abbassato i tassi di interesse e immesso sul mercato una grande massa di liquidità, inducendo le famiglie a indebitarsi. Da qui la bolla immobiliare e la crisi dei subprimes. A fronte della situazione attuale, scrive ancora Fitoussi, caratterizzata da sperequazioni e miseria intollerabili, sarebbero necessarie politiche espansive, mirate non solo alla crescita ma anche all’eliminazione delle diseguaglianze, che sono “frutto avvelenato di una particolare concezione dell’economia che pone al cuore delle politiche pubbliche la concorrenza fiscale e sociale”.

Secondo Fitoussi “convertirsi indiscriminatamente all’economia di mercato significa ridurre il peso dello Stato e il suo ruolo di assicuratore di ultima istanza”. Altrimenti detto, una politica espansiva è all’origine della crisi e un’altra politica espansiva dovrebbe tirarcene fuori.

In riferimento all’Europa e alla crisi dei debiti sovrani, Fitoussi si mostra indulgente nei confronti del governo greco: la sua “rendicontazione creativa” è un peccato tutto sommato veniale, imputabile alla severità dei trattati, che ha determinato una “perdita di sovranità del popolo greco”. A quanto pare, la ferita inferta alla democrazia greca dalle menzogne di quel governo, non sembra turbare particolarmente i sonni dell’intellettuale d’Oltralpe. Il suo bersaglio rimane quella “banda di idioti” che con “eccesso di zelo e fede dottrinaria impiega ogni energia a far quadrare il passato più che a costruire il futuro, e crea problemi più gravi di quelli che è chiamata a risolvere”.

Di conseguenza, sul piano generale, Fitoussi si oppone alle riforme economiche strutturali, viste sempre e solo come aumento delle diseguaglianze e mai come tentativi di razionalizzare e ottimizzare la spesa. Insomma “è ora di finirla con questa ossessione dei debiti pubblici”, poiché nessuno studio ha sin qui dimostrato l’esistenza di un limite massimo al livello di indebitamento degli Stati.

Questi stessi argomenti sono oggetto di riflessioni, scientificamente ben più rigorose, da parte di Luca Ricolfi, che analizza “l’enigma della crescita” nei suoi aspetti fondamentali. Negli scritti di Ricolfi le tesi di Fitoussi incontrano varie smentite. Reinhart e Rogoff, in uno studio del 2009-2010 - per la verità molto discusso e controverso - hanno teorizzato l’esistenza di una soglia-limite del 90% del rapporto debito/PIL, al di là della quale un paese difficilmente può crescere, perché risorse importanti sono bruciate nel pagamento degli interessi.

Quest’ultima osservazione è sicuramente vera nei paesi dell’area euro. Ricolfi mette in discussione anche un altro assioma piuttosto scabroso di Fitoussi: quello delle diseguaglianze come freno allo sviluppo. Dopo gli studi di Kristin Forbes (2000) che di nuovo hanno indicato nella diseguaglianza una determinante positiva, e non negativa, della crescita, le opinioni in argomento si sono fatte più caute. Al momento sembra prevalere un’interpretazione mediana: la diseguaglianza è un ostacolo alla crescita nei paesi poveri, ma è uno stimolo nei paesi ricchi. Questa considerazione sembra avallare la tesi centrale di Ricolfi sulla crescita: dopo aver raggiunto determinati standard di benessere, l’economia si stabilizza, ristagna o addirittura si contrae. Il principale ostacolo a un’ulteriore crescita, dunque, è la crescita stessa, che assomiglia a uno strano animale: un “drago-balena” che dapprima sputa fuoco dalle fauci e successivamente un getto d’acqua dal dorso, a spegnere il fuoco stesso.

Sicuramente alcune politiche per la ripresa della crescita possono essere implementate, ammette Ricolfi, che però avverte: investire sul capitale umano produce effetti nel lungo periodo; attuare riforme delle istituzioni economiche li produce nel medio. Solo la riduzione del carico fiscale sulle imprese genera un effetto immediato nell’economia, favorendo a breve la ripresa della produzione, dell’occupazione e delle esportazioni.

Le tesi qui esposte sulle opinioni di Yoram Gutgeld, Jean-Paul Fitoussi e Luca Ricolfi sono riferite rispettivamente ai libri “Più uguali, più ricchi” (Rizzoli), “Il teorema del lampione” (Einaudi), “L’enigma della crescita” (Mondadori), tutti pubblicati nel 2013.