Gli scontri tra politica e sindacati stanno monopolizzando l’agenda italiana, e più in generale quella europea, se si pensa che per la prima volta nella loro storia anche le ostetriche britanniche sono entrate in sciopero (per poche ore). A Chicago, città simbolo di molte faccende americane degli ultimi anni, non ultima quella che riguarda la formazione del presidente Barack Obama e di buona parte del suo gruppo ristretto di collaboratori, sta succedendo un fenomeno particolare.

Il sindaco della città è Rahm Emanuel, ex chief of staff di Obama, ex clintoniano, uno noto per il suo linguaggio colorito e per i modi rudi di uno che ottiene quel che vuole a qualsiasi costo (sembra, in qualche declinazione, Frank Underwood di “House of Cards”, senza la moglie però): da quando è alle prese con una città così complessa e indebitata, Emanuel non ha perso la sua verve, ma ha imparato anche cosa significa trovare interlocutori più duri di te.

I sindacati, per l’appunto. Come ha raccontato il Wall Street Journal (1), i sindacati dei dipendenti pubblici sono inferociti con Emanuel, il quale ha tagliato alcuni benefit per le pensioni e ha chiuso le scuole che stavano fallendo. Rendi Weingarten, obamiana leader della Federazione degli insegnanti, ha promesso un milione di dollari da parte del sindacato per far sì che Emanul perda le elezioni per la sua riconferma, a febbraio.

I sindacati dei lavoratori del settore privato invece hanno un rapporto del tutto diverso con il sindaco: il sindacato degli operatori del turismo fa campagna per Emanuel così come quello che si occupa di costruzioni e infrastrutture, perché hanno ottenuto grandi benefici in termini di lavoro – di mercato – durante il mandato di questo sindaco.

Secondo gli esperti, quel che accade a Chicago si sta replicando anche a livello nazionale, o almeno in altre parti dell’America: i dipendenti pubblici si oppongono per difendere i loro stipendi e benefit, e fanno di tutto per boicottare tutti i politici che promuovono una riforma fiscale. I sindacati privati sostengono candidati democratici, e dicono che quando l’economia gira poco i politici devono concentrarsi sul lavoro, costi quel che costi.

Come in molti partiti di sinistra in giro per il mondo, il conflitto sta spingendo i sindacati fuori dall’alveo del progressismo, con effetti a volte del tutto distorti: i repubblicani sono per lo small governement, ma sono anche compassionevoli. In mezzo c’è spazio persino per un sindacato infelice.

I repubblicani hanno fatto tutto bene, alle elezioni di metà mandato del 4 novembre. A differenza di quanto è avvenuto nel 2010 e poi ancora nel 2012, i candidati sono stati scelti con grande attenzione (2) perché, come dice il consigliere politico Scott Reed, “candidates matter”.

E, infatti, il 2013 è stato tutto speso, da parte del direttore finanziario del National Republican Senatorial Committee, Rob Portman e dal direttore esecutivo del gruppo, Rob Collins, a cercare i migliori uomini da proporre al voto (con i finanziamenti adatti alle spalle). Il risultato s’è visto, i commentatori americani non trovavano nemmeno le parole per descrivere la “valanga”, il “massacro”, insomma la gran vittoria del Gop sul Partito democratico di Barack Obama (come ha scritto Arianna Huffington su Twitter, “se il 2010 è stato uno ‘shellacking’, come lo chiamiamo questo…? (3)).

Ora bisogna vedere se questo momento magico dei repubblicani regge e soprattutto se il sistema di recruitment messo in piedi dal Partito riesce a trovare per il 2016 un candidato alle presidenziali valido. Per ora, a parte i soliti nomi che vanno da Rubio a Jeb Bush, spicca il profilo di Scott Walker, governatore del Wisconsin, che ha vinto tre elezioni in quattro anni, quando ormai sembrava spacciato di fronte a Mary Burke, una delle poche candidate che si è fidata dell’abbraccio del presidente Obama (sciaguratamente): tutti i sindacati lo odiano, avendo lui messo mano ai loro privilegi (il Wisconsin, alle presidenziali, di solito vota per i democratici). Non è un caso che al discorso della vittoria Walker abbia sottolineato che si tratta di un brutto colpo per “gli interessi speciali legati al big government”.

Non ha raggiunto l’obiettivo che si era posto di creare 250 mila posti di lavoro entro questa tornata elettorale – come la Burke ha ripetuto fino allo sfinimento – ma ora Walker promette crescita reale, anche nel mercato del lavoro diventato più snello dopo la cura anti sindacati.

Dal profilo di Walker, vincitore nelle urne e liberale nelle riforme, parte l’offensiva dei repubblicani moderati, dopo la sbornia dei Tea Party che ha lasciato più ferite che certezze. Infatti Ron Paul, leader dei libertari, non ha festeggiato più di tanto, perché secondo lui si tratta di una vittoria dell’establishment, che quindi favorirà politiche legate alla sopravvivenza di molti orpelli legati al sistema della politica.

Ideologia a parte, ora si pensa alle questione pratiche. Come la riforma del “tax code” (4), che è prioritaria per gente come il senatore Paul Ryan e che piace anche al presidente Obama. Si tratta però di trovare un accordo, e già il dialogo tra democratici e repubblicani era complesso prima, figurarsi ora che il dominio del Gop è incontrastato.


http://online.wsj.com/articles/steven-malanga-the-emerging-political-divide-between-public-and-private-unions-1414190654

http://online.wsj.com/articles/midterm-elections-2014-gop-won-by-recruiting-the-right-candidates-1415166925

https://twitter.com/ariannahuff/status/529883392712912896

http://online.wsj.com/articles/will-the-new-congress-change-the-tax-code-1415148701