In un mondo intensamente digitalizzato e globalizzato, la capacità di accedere a internet e alle tecnologie informatiche fondamentali è ormai divenuta condizione imprescindibile per qualsiasi percorso di valorizzazione e crescita dell'individuo.

Nella Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE), la competenza digitale è definita come la capacità di “utilizzare, con dimestichezza e spirito critico, le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione “ e presuppone “l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.” In Italia, anche il Regolamento ministeriale in materia di adempimento dell'obbligo scolastico riconosce alla competenza digitale un ruolo di primo piano, in quanto essa “arricchisce la possibilità di accesso ai saperi, consente la realizzazione di percorsi individuali di apprendimento, la comunicazione interattiva e la personale espressione creativa”.

L'Italia soffre però di un grave ritardo rispetto agli altri paesi d'Europa quanto a competenze digitali e a informatizzazione. Secondo l' Indice di digitalizzazione dell'economia e della società 2016 (DESI - Digital Economy and Society Index), il nostro paese si colloca al 25° posto nella classifica dei 28 Stati membri dell'UE. I dati mostrano che il commercio elettronico e l'e-banking sono ancora esigui, le soluzioni e-business per il comparto industriale poco diffuse, mentre la sottoscrizione di abbonamenti a banda larga interessa soltanto il 53% delle famiglie. Gli italiani sono generalmente poco inclini a utilizzare internet, sia che si tratti di effettuare transazioni, interagire con gli altri o informarsi: il 37% della popolazione non accede mai alla rete, il rimanente 63% è coinvolto in poche attività online e tra questi almeno il 31% non possiede competenze digitali di base. La Commissione Europea definisce perciò l'Italia come una catching up country, insieme a Croazia, Lettonia, Romania, Slovenia e Spagna: nonostante un trend in recupero, ha prestazioni ancora inferiori alla media europea.

Ciò significa ovviamente che la nostra economia patisce costi elevati in termini di mancato sviluppo – costi che sono però difficilmente quantificabili, visto che mancano adeguati studi al riguardo. Il deficit di competenze digitali ha cause sistemiche serie ed estese, non esclusivamente attribuibili a politiche di sviluppo insufficienti.

Un fattore decisivo è senz'altro rappresentato dalla questione demografica, poiché l'invecchiamento della popolazione per sua natura comporta un'interazione limitata con la tecnologia. Ma il problema maggiore del nostro paese è che nell'ultimo decennio internet e le tecnologia informatiche non hanno saputo essere adeguatamente inserite in un più ampio percorso collettivo di qualificazione scolastica, culturale e professionale dei cittadini. È certamente difficile rimanere al passo con quella vertigine tecnologica che travolge incessantemente società e mercati, costringendoci a metabolizzare di continuo nuove abitudini e competenze. È anche vero però che abbiamo poca attitudine a sperimentare novità in ciò che facciamo e a investire in nuove competenze. Non siamo dei cosiddetti lifelong learner e oggi iniziamo a pagarne gli effetti di lungo periodo.

Se poi la connettività ha conosciuto un abbattimento sostanziale dei costi divenendo ormai pervasiva, ciò non si è per forza tradotto in un'occasione di crescita collettiva. L'adozione di tablet e smartphone e l'immediatezza dell'approccio touch-screen, ad esempio, hanno ultrasemplificato la navigazione in rete, portando spesso a un' ulteriore selezione delle esperienze cognitive e a una perdita nella qualità delle nostre interazioni, più frequenti o addirittura compulsive, ma più povere di contenuti. Spesso il rapporto con la tecnologia risulta essere perciò confinato a esperienze passive, occasionali o ricreative – come quelle dei digital natives, attratti soprattutto da musica, video e giochi – e non riesce a diventare strumento di sviluppo economico, di cultura, di emancipazione e di costruzione del sapere.

Il deficit di competenze digitali è dunque un problema complesso di natura economica, antropologica e sociale. Non si può risolvere con la buona volontà di un solo governo attraverso monumentali e repentine politiche top-down, imponendo dall'alto cambiamenti che i cittadini non sentono propri, solo per rientrare più degnamente nelle statistiche europee. Ciò che occorre è una visione politica e sistemica di lungo periodo.

Per prima cosa, è necessario prendere atto di quel generale degrado cognitivo che affligge il nostro paese e che purtroppo investe le competenze digitali quanto quelle umanistiche: il nostro ad esempio è un paese che non legge e che spesso ha difficoltà ad affrontare un testo complesso – non parliamo poi di produrlo. Dunque è l'intero sistema dell'istruzione e della cultura che necessita di grande attenzione da parte delle istituzioni, e di ben più adeguati investimenti distribuiti coerentemente nel tempo, perché ricominci a creare e disseminare valore.

Non bisogna poi commettere l'errore di contrapporre i saperi, pensando che gli umanisti, la formazione classica e la “cultura del secolo scorso” siano un passivo per la nazione e che d'ora in poi sia necessario privilegiare le materie scientifiche. Questo approccio al problema è errato e illusorio. Non solo tutta la cultura è importante, ma la chiave per la prosperità di una nazione sta proprio nella varietà, nella differenziazione, nella contaminazione dei saperi, che devono sempre vivere in relazione osmotica. Solo così si costruisce quella coscienza di sé e del mondo che poi è la ricchezza fondante di tutte le altre ricchezze e di tutti gli altri saperi, soprattutto in un mondo saturo di tecnologie, di macchine e di automatismi. L'esperienza industriale di Adriano Olivetti a suo tempo ha incarnato mirabilmente proprio questa idea di fusione tra tecnologia e umanesimo, con risultati straordinari a cui potremmo e dovremmo ancora ispirarci.

Di certo non è l'interesse per la letteratura francese o per la storia dell'arte a impedire l'acquisizione di competenze digitali nel nostro paese, ma piuttosto la superficialità, il disinteresse diffuso per la conoscenza, l'impoverimento spirituale dei cittadini, moltiplicatisi anche attraverso quella subcultura mediatica dominante alimentata da tv, chat e social network. Proprio alla luce di queste considerazioni, risulta sorprendente credere di poter ancora affrontare il degrado cognitivo degli italiani attraverso strategie di adescamento commerciale, che di nuovo puntano tutto su intrattenimento e social network – come recentemente proposto da una grande azienda di telecomunicazioni. Si veda in proposito Agenda Digitale, "Social e intrattenimento le leve per convertire gli analfabeti digitali"

La curiosità, la volontà di apprendere, la consapevolezza dei propri limiti e il desiderio di migliorarsi di uomini e donne di ogni età rimangono il vero fattore cruciale di sviluppo: è un capitale umano che va sostenuto attraverso un'agenda politica a lungo termine e un ecosistema culturale vivo e variegato, e non semplicemente lasciato al piano marketing delle grandi corporation.  

 

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DESI 2016 - Indice di digitalizzazione dell'economia e della società (range 0-1). La performance dell'Italia è inferiore sia alla media UE, che a quella degli altri paesi in recupero.
Fonte: Commissione Europea