Ecco l'analisi di Deutsche Bank come pubblicata su Limes di oggi. Deutsche Bank (DB) è sotto i riflettori per due motivi: perché è una delle maggiori banche mondiali e perché è tedesca. È sotto i riflettori per la presenza di molti titoli derivati nei suoi bilanci e perché potrebbe mettere a repentaglio l’idea diffusa della superiorità germanica, costringendo Angela Merkel a scelte impensabili fino a pochi mesi fa. Insomma una sorta di Lehman Brothers II, ma in salsa teutonica.


Parte prima: il bilancio di Deutsche Bank


Normalmente i derivati (contratti basati sul valore di mercato di un’attività sottostante, come gli indici di borsa, il cui valore è appunto “derivato” dal “sottostante”) sono gestiti per “contrapposizione”. Ho un derivato che vale 100 euro col quale guadagno se la borsa sale e uno che vale 100 col quale guadagno se la borsa scende. La mia esposizione “lorda” è di 200 euro, ma in realtà è pari a zero, perché la borsa non può salire e scendere nello stesso momento. La mia esposizione “netta” è eguale all’eventuale differenza: se ho 120 euro di derivati se la borsa sale e 100 derivati se la borsa scende, allora la mia esposizione è pari a 20 euro.


Il bilancio di Deutsche Bank (DB) mostra che l’esposizione netta a fine 2015 era pari a 18 miliardi di euro. Questa esposizione netta – un guadagno potenziale per DB, se le cose si mettono nella direzione da loro prevista – è tale solo se le attività sono egualmente e immediatamente liquidabili. Da qui il sospetto che DB abbia caratteristiche paragonabili a quelle di Lehman Brothers.


La differenza sostanziale tra le due banche risiede nella tipologia di strumenti finanziari: i prodotti strutturati di Lehman non erano derivati bensì titoli assemblati dalla banca, poi diventati tossici perché contenevano mutui non solvibili di bassissima qualità mischiati a emissioni di maggior qualità in modo da ottenere un rating più elevato delle singole parti. La loro illiquidità determinò la crisi che coinvolse l’intero sistema finanziario statunitense e mondiale.


La caratteristica che assimila DB a Lehman è la leva finanziaria, quale indicatore di un’eventuale dimensione degli attivi eccessiva rispetto alle risorse patrimoniali. Pochi mesi prima del fallimento Lehman aveva una leva (Totale Attivo Tangibile/Patrimonio Netto Tangibile) di 29, pari agli attuali valori di DB. A fine 2008 DB aveva un valore di leva ancora più elevato, superiore a 100. La criticità degli attivi bancari risiede nella liquidabilità degli stessi unita alla leva che, se associati a una dimensione particolarmente significativa, può originare le crisi sistemiche.


Per il Fondo Monetario Internazionale, DB è la banca col maggior rischio sistemico al mondo. L’European Banking Association (Eba) e lo Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (Zew) hanno effettuato degli stress test per capire cosa potrebbe accadere se le cose prendessero la piega peggiore.


Per farla brevissima: invece di introdurre, come fa l’Eba, della valutazioni discrezionali sulle tipologie degli attivi per stabilire la sufficienza patrimoniale in condizioni estreme, lo Zew afferma di non essere interessato alle scelte dei banchieri sulle valutazioni del proprio attivo, ma si concentra sulla quantità minima di patrimonio necessaria a evitare rischi sistemici. E applica alle medesime 51 banche europee scrutinate dall’Eba i parametri ben più restrittivi utilizzati dalle autorità Usa per lo stress test effettuato a giugno 2016.


Rispetto all’Eba, che attribuisce a una ben nota realtà bancaria italiana (la banca più antica del mondo) una situazione deficitaria, i risultati di Zew dicono cose molto diverse. Il deficit patrimoniale in caso di crisi è molto maggiore (123 miliardi di euro) di quello stimato dall’Eba ed è imputabile per oltre due terzi a Germania, Francia e Olanda; l’Italia s’aggiudica solo il 15% del problema.


Deutsche Bank, in particolare, ha un deficit di 19 miliardi di euro. A questi si aggiunga la multa (14 miliardi) richiesta dal Dipartimento di giustizia statunitense per la poca trasparenza con cui l’istituto di credito tedesco ha operato sui mutui sub prime. Si arriva a 33 miliardi, una cifra molto superiore alla capitalizzazione di borsa di DB, pari a 18 miliardi. La capitalizzazione di DB è peraltro è tornata ai livelli del 1983, ossia ben prima che cadesse il Muro di Berlino.


È come se dalla cosiddetta “globalizzazione turbo-liberista” fossimo tornati ai tempi della guerra fredda.


Parte seconda: vie d’uscita


L’Austerità di cui sono alfieri i tedeschi è sia una complessa scelta di politica economica, sia un qualcosa che affonda la propria matrice culturale nel cosiddetto Ordoliberalismus. La declinazione pop di questa combinazione è l’antinomia cicale (i Mediterranei gaudenti) / formiche (i Nordici pensosi).


Le difficoltà di Deutsche Bank sono perciò diventate un’imperdibile occasione di dileggio della supponenza germanica – “predicate una virtù che non praticate” – e per la polemica politica – “ma come, noi italiani non possiamo salvare le nostre banche con un intervento pubblico, mentre si vocifera di un intervento pubblico per salvare DB?”.


In Italia si ha notoriamente il problema dei cattivi crediti, da cui le banche possono essere tirate fuori in due modi: il bail-out, quindi l’intervento pubblico, oppure il bail-in, quindi l’intervento da parte degli azionisti e degli obbligazionisti meno protetti della banca in crisi. I primi dovrebbero sottoscrivere gli aumenti del capitale per non vedere diluita la propria quota di controllo, i secondi potrebbero trovarsi con le obbligazioni che perdono di valore. Il bail-out invece scarica sui contribuenti, che sono molte decine di milioni, il costo del salvataggio, con ciò occultandone il costo.


Basta sostituire i cattivi crediti con i derivati e con le multe per avere la vicenda di DB. Il bail-out non è però più ammesso in Europa, quindi l’eventuale crisi della banca tedesca sarà un problema dei suoi azionisti e dei suoi obbligazionisti.


In Germania si levavano voci contrarie alla politica della Banca Centrale Europea anche prima che emergessero le difficoltà della DB. La Bce pratica dei tassi di interesse nulli o negativi e compra titoli di Stato (il Quantitative Easing).


Le critiche sono due: il modesto reddito dell’industria creditizia e di una parte di quella finanziaria e il disincentivo a promuovere bilanci statali più efficienti. I tassi a breve e i rendimenti delle obbligazioni a più lungo termine frenano il reddito delle banche, che raccolgono a basso costo, ma lo impiegano guadagnando poco. I tassi attivi hanno come base il rendimento dei titoli di Stato, più un margine per coprire i costi di struttura e il rischio.


Se il rendimento dei titoli di Stato è quasi nullo, le banche guadagnano poco e non hanno mezzi per coprire i cattivi investimenti. Le assicurazioni poi fanno fatica ad onorare i propri impegni. In Germania il rendimento minimo dei nuovi contratti è intorno al 1,5%, mentre il rendimento dei titoli decennali tedeschi è intorno allo zero. Le assicurazioni sono perciò spinte a cercare gli investimenti rischiosi che rendono di più, ma che sono appunto “pericolosi”. Infine, più lasca è la politica monetaria, maggiore è il risparmio per i bilanci pubblici.


Nel caso italiano, ogni anno scade un quarto del debito pubblico. Se questo è rinnovato a un costo vicino allo zero, il costo complessivo del debito scende ogni anno. Il debito italiano costava il 4%. Se un quarto è rinnovato con un costo pari a zero, passa al 3%. Il bilancio pubblico ha quindi un fabbisogno finanziario inferiore. Perciò, invece di tagliare le spese, le si lascia invariate, perché la spending review la fa il costo del debito in discesa.


Senza tassi e rendimenti elevati, senza una forte crescita dell’economia e infine senza un bail-out, le banche (tedesche e italiane) possono solo tagliare i costi per alzare il proprio reddito volto a coprire le perdite, varare degli aumenti del capitale e trasformare le obbligazioni meno protette in azioni senza intervento pubblico (il bail-in, il salvataggio solo privato).


Tutte queste operazioni generano scontento che si ripercuote nell’arena politica.


Sicuri che non ci sarà il bail-out? Secondo indiscrezioni, un intervento è possibile: DB potrebbe vendere (non è specificato a chi) parte dell’attivo al valore di libro e, in caso di grave crisi, si potrebbe avere addirittura un intervento diretto dello Stato che acquisterebbe il 25% delle azioni della banca.


È come se, nel caso italiano, i cattivi crediti fossero comprati da agenti terzi al valore facciale (quindi a 100) e non per importi decisamente più bassi (intorno a 30, come è attualmente); è come se il Tesoro intervenisse direttamente nelle operazioni del capitale.


Se finisse così, la credibilità della Germania come alfiere dell’austerità e della responsabilità privata per i propri atti riceverebbe un duro colpo.


Berlino si troverebbe a dover scegliere fra la coerenza della predicazione con la prassi e la necessità di salvare il proprio sistema.

 

Link: http://www.limesonline.com/perche-deutsche-bank-minaccia-la-germania/94434