Si terrà fra pochi giorni un dibattito sull'”economia e il liberalismo”. Di seguito propongo tre lavori – tutti pubblicati negli ultimi dieci anni su “Lettera Economica” - che saranno la traccia del mio intervento, che ha per oggetto la finanza. Il primo (“L'illusione della certezza) discute l'imprevedibilità dei mercati nel lungo periodo (dalla Prima Guerra) come nel breve periodo (la crisi italiana del 2011). Il secondo (“Il crack Lehman”) mostra il meccanismo che ha reso possibile un tale evento. Il terzo (“Il Nobel mancato di Posner”) riprende il dibattito sulla regolamentazione dei mercati.

L'illusione della certezza

Lo strato lungo è quello che osserva con distacco olimpico i mercati nell'ultimo secolo. Si ordinano i risultati (ossia i rendimenti intesi come variazione del prezzo delle attività finanziarie con l'aggiunta dei dividendi e delle cedole distribuite, al netto dell'inflazione) delle azioni, delle obbligazioni a lungo (come i BTP) e a breve termine (come i BOT) dei diversi Paesi.

Che cosa si scopre? Banalmente, il “peso della Storia”. I Paesi che hanno vinto le guerre, e che non hanno avuto delle crisi post belliche devastanti, sono quelli che hanno avuto i mercati finanziari migliori. Per effetto delle Guerre delle Rivoluzioni il debito pubblico tedesco, austriaco, giapponese, italiano, russo e cinese è uscito devastato. Mentre quello dei Paesi anglosassoni e neutrali - Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Svizzera, Svezia, eccetera - è uscito intatto dalle guerre.

Le azioni non hanno avuto, alla fine, un andamento troppo diverso fra Paesi, escludendo quelli che hanno sperimentato le Rivoluzioni, perciò la vera differenza fra “vincitori” e “vinti” è nel comportamento del debito pubblico.

Naturalmente molto tempo è passato, e perciò la memoria si è spenta. Per esempio, il debito pubblico tedesco oggi è considerato il massimo della sicurezza, ma così non era ai tempi di Weimar. Un altro aspetto è la cautela nell'accogliere i risultati di lungo termine come anticipazioni di quelli futuri, ossia, ciò che è stato vero in passato non necessariamente sarà vero in futuro. La Svizzera, per esempio, era un “approdo sicuro” sotto condizioni politiche, militari, e finanziarie particolari. Oggi e in futuro non è detto che lo sia.

Possiamo perciò provare a trarre delle prime considerazioni sulla “prevedibilità”. Prevedere l'andamento dei mercati finanziari agli inizi del XX secolo, voleva dire prevedere due Guerre Mondiali oltre che due Rivoluzioni maggiori. Una cosa piuttosto difficile da immaginare, ed, in ogni modo, non sufficiente per decidere dove investire. Pochi giorni prima che scoppiasse la Prima Guerra, le obbligazioni dei Paesi che poi la avrebbero condotta non si erano, infatti, mosse, perché nessuno pensava che non si sarebbe trovata per tempo una soluzione.

Se pensare che esista una prevedibilità storica non ha senso, hanno, invece, senso le previsioni di più breve termine? Per saggiare i punto, prendiamo il rendimento del BTP che, nell'estate del 2011, veleggiava ad un livello più che triplo – il 7 per cento - rispetto a quello di oggi – intorno al 2 per cento. Come è possibile una caduta del rendimento di questo tenore? Nel 2011 era davvero prevedibile che il BTP passasse in tre anni dal 7 al 2 per cento?

Proviamo a scavare nella crisi del 2011 e 2012. C'è un aspetto che non era e non è tenuto nella debita considerazione, un aspetto che potremmo chiamare della “profezia che si auto invera”. Se il costo del debito sale, come avviene quando i titoli in scadenza sono rinnovati al 7 per cento, diventa ovviamente molto più difficile metterlo sotto controllo, e ciò alimenta il “premio per il rischio”. Il timore che il debito possa non essere rimborsato chiede un “premio”, e il premio fa salire il rendimento richiesto per sottoscriverlo alle aste e quindi il costo per il Tesoro. Con l'ascesa del costo del debito e con l'economia depressa, è giustificato lo scetticismo di chi chiede rendimenti alti o di chi addirittura vende il debito nonostante i rendimenti.

Questa meccanica consente di leggere le vicende della crisi del debito italiano del 2011 e della sua ripresa dal 2012. Nella crisi del 2011 e 2012 sono venditrici nette di debito italiano le banche estere, mentre riduce gli acquisti la finanza non bancaria estera. Insomma, l'estero o vende oppure compra meno il debito italiano quando i rendimenti sono molto elevati, ossia quando i prezzi sono bassi. La quota del debito italiano detenuta dall'estero scende negli ultimi anni da quasi il 45% verso il 35%, mentre sale pro quota quella detenuta dagli italiani.

Nel 2012 scatta nell'Euro-zona il Long Term Refinancing Operations (LTRO), che consente alle banche di credito ordinario di indebitarsi con la banca centrale per un certo periodo con un tasso che allora era significativamente inferiore a quello dei titoli di stato dei Paesi “messi peggio” di durata equivalente. Scattano così gli acquisti del debito pubblico italiano da parte delle banche italiane. La differenza di rendimento porta ad un guadagno di “arbitraggio” che incrementa gli utili delle banche, che, se non distribuiti in forma di dividendi, accrescono il capitale di rischio, e quindi la loro capacità di erogare credito. Le banche italiane hanno quindi guadagnato con il LTRO, e, allo stesso tempo, hanno visto crescere i prezzi delle obbligazioni che detenevano. I loro bilanci su questo fronte sono visibilmente migliorati.

Una volta che il costo atteso del debito pubblico si comprime, il meccanismo descritto – quello della “profezia che si auto invera“ - gira al contrario. Non sono più necessarie manovre di correzione mostruose e quindi improbabili, e dunque cade il “premio per il rischio”. A quel punto l'estero – la profezia negativa non si è più “auto inverata” - torna a comprare i titoli del Tesoro italiano. Il debito italiano lo ha venduto – nel 2011 e 2012 - a dei prezzi di molto inferiori a quelli a cui lo ha comprato – nel 2013 e 2014. Gli operatori domestici hanno agito al contrario, perché hanno comprato a dei prezzi inferiori rispetto a quelli correnti. Possiamo così affermare che abbiamo avuto un gigantesco Buy Back. Gli italiani si sono comprati il loro debito guadagnandoci.

Anche qui le cose non sono lineari. Una volta i titoli ad alto rating erano molti. Dopo la crisi del 2008 sono scesi i rating dei titoli legati al settore immobiliare soprattutto statunitensi (quelli che avevano in pancia i mutui ipotecari), e quelli di alcuni Paesi (fra cui l'Italia e la Spagna). I titoli ad alto rating sono così diventati relativamente pochi, e dunque la domanda ne ha alzato il prezzo. Il maggior prezzo ne ha abbassato il rendimento (i prezzi e i rendimenti hanno un andamento opposto perché la cedola è fissa). Il rendimento è diventato così basso (si pensi alla Germania e ai suoi titoli decennali), che sono scattati gli acquisti di titoli a basso rating che rendevano di più (si pensi ai BTP e ai Bonos). Il maggior prezzo ne ha abbassato il rendimento, forse ad un livello che non avrebbero mai raggiunto senza la crisi. Ecco paradosso: più abbassi i rating più rendi attraenti i titoli di cui non hai abbassato il rating, più i rendimenti dei Paesi con il rating abbassato scendono.

La previsione su base storica è impossibile, come quella relativa al passato recente, a meno di essere in grado di inserire nel ragionamento (non a posteriori, ma nel corso della crisi) delle cose bizzarre come “le profezie che si auto inverano” e il paradosso che più abbassi i loro rating più i rendimenti dei Paesi “mal messi” possono salire. Le decisioni finanziarie, che debbono essere prese, hanno perciò una elevata dose di incertezza.

La non prevedibilità o la difficile prevedibilità mostrano bene come le teorie del “complotto” o dei “poteri forti onniscienti” siano, in fondo, solo dei modi per cercare un “ordine nelle cose”, un ordine che però non c'è. I mercati finanziari non sono diversi dalle altre attività umane. La loro prevedibilità è bassa, sono sistemi caotici.

Affidare i propri risparmi sapendo che questi finiscono in un sistema caotico è decisione difficile da prendere per i più. L'industria finanziaria ha perciò dovuto inventare un sistema complesso per farsi affidare i risparmi. Essenzialmente, l'industria finanziaria diffonde l'idea che, nonostante tutto – guerre, crisi - i mercati finanziari alla fine salgono sempre – il che è vero, anche se in alcuni casi si sono dovuti aspettare decenni. Perciò basta pazientare che i propri denari daranno i loro frutti.

 

Il crack Lehman

L'accesso al credito e al capitale aiuta lo sviluppo economico. Le piccole imprese possono trovare i denari che servono per investire e quindi svilupparsi. Senza il libero accesso al credito e al capitale, le piccole imprese non possono competere con le grandi. Dunque, alla fine, le grandi imprese restano dei mastodonti poco competitivi (o meno competitivi di quanto altrimenti sarebbero) che si fanno pagare più del necessario i beni e i servizi che producono. E i consumatori ci rimettono.

Un sistema finanziario che dia credito, collochi le obbligazioni e le azioni anche per le piccole imprese è dunque cruciale per lo sviluppo economico. Laddove per sviluppo economico si intende anche la crescita dell'occupazione, che avviene normalmente attraverso le nuove imprese, che, in origine, sono piccole. L'alternativa al libero mercato del credito, delle obbligazioni e del capitale di rischio, è il capitalismo dei compari (“crony capitalism”), laddove per avere successo si deve essere cooptati dalle élites dominanti. Considerazioni simili – ma più macchinose - si possono fare anche per i mutui ipotecari.

Fatta la premessa, che è volta a ribadire che una finanza “aperta” e “sveglia” è essenziale allo sviluppo economico, arriviamo a Lehman. Lehman è l'epitome di quel che non si doveva fare. Aveva assunto dei rischi esagerati, e, poiché i rischi si prendono con altre istituzioni finanziarie, quando è venuta giù, ha coinvolto pezzi importanti del sistema.

Perché mai tutti prendevano dei rischi che si sono poi rivelati catastrofici? Partiamo (quasi) da Adamo ed Eva.

Nel 2006 nell'industria finanziaria tutti erano estasiati per quanto le cose stavano “andando bene”. Le borse continuavano a salire. I rendimenti sul debito pubblico erano stabili. Insomma, tutto sembrava procedere, all’orizzonte si potevano anche intravvedere delle nubi, ma queste non avevano la conformazione della tempesta. La crisi è, invece, arrivata e improvvisamente nella primavera estate del 2007, ma allora ai più non sembrava molto grave. Infatti, ancora nell’autunno del 2007, le borse erano giunte ai massimi storici. Da allora fino alla primavera del 2009 si è avuta solo una caduta. Prestigiose banche d’affari in fallimento, fra cui la Lehman, salvataggi privati e pubblici, e via dicendo.

I lungimiranti – dopo lo scoppio della crisi si è naturalmente scoperto che erano la maggioranza – avrebbero anche potuto scommettere contro “le magnifiche sorti e progressive” dei mercati finanziari, ossia, se fossero stati coerenti, avrebbero potuto farsi prestare i titoli e venderli. Poi avrebbero ricomprato i titoli ad un prezzo inferiore, lucrando la differenza. Se in molti fossero andati – come si dice in gergo - “scoperti”, ecco che i prezzi non sarebbero saliti tanto, e dunque la crisi non sarebbe stata altrettanto grave. Dunque “i lungimiranti” non hanno agito, lasciando il mercato nelle mani degli “entusiasti”. Incoerenti o impossibilitati ad agire? Scommettere contro i mercati stabilmente in salita è molto pericoloso. Se uno vende un titolo preso a prestito che vale 10 e questo va a zero, ha guadagnato 10. Se uno vende un titolo preso a prestito a 10 e questo va a 100, ha perso 90. Se per qualche tempo la strategia non funziona e si manifestano delle grosse perdite, il gestore, che, lungimirante, ha scommesso contro i mercati, vede il patrimonio affidatogli ridursi per effetto dei riscatti della clientela. E’ quindi molto più facile che con un mercato stabilmente in ascesa quasi tutti decidano di guadagnare “andando lunghi”, ossia comprando i titoli per tenerli. Finisce così che non si crea un’opposizione nel parlamento dei prezzi in salita. Si crea piuttosto un sistema a partito unico in cui tutti fanno le stesse cose, anche quelli che “non ci credono”. Se tutti credono alle stesse cose, allora i prezzi salgono, e dunque si lucrano senza rischi dei bonus cospicui. Conveniva dunque non essere originali.

Si potrebbe obiettare che si doveva – anche nella razionalità del conformismo - tenere conto del rischio. E qui abbiamo una seconda spiegazione – dopo quella che nessuno osava scommettere contro i mercati in ascesa - del perché la crisi ha preso tutti alla sprovvista. I sistemi di controllo del rischio non hanno tenuto conto degli eventi a bassa probabilità, ma capaci di effetti devastanti. Un esempio di evento a bassa probabilità, ma capace di effetti devastanti è l’attacco alle Torri Gemelle. Dopo un periodo di prolungata stabilità, come quello durato dal 2002 al 2006, si era finito con il pensare che ormai ci fosse una riduzione permanente del rischio. Si pensava in questo modo, anche perché così si potevano prendere, credendo che fosse “scientifico”, dei rischi maggiori, contando sul realismo delle distribuzioni di probabilità con “code sottili”, quelle dove la probabilità che accada qualche cosa di grave è molto remota.

Tutto questo – il conformismo unito all’ingenuità nel controllo del rischio - non basta a spiegare la crisi. Si deve anche capire perché le obbligazioni – soprattutto quelle con “in pancia” i mutui ipotecari - abbiano combinato un tale disastro.

Non si possono studiare i bilanci degli emittenti titoli in modo serio ed omogeneo, senza incorrere in spese immense. Conviene che qualcuno li studi, e che ne studi molti per diversificare i portafogli. L’investitore poi ha bisogno di un voto che dia intelligenza del rischio. Questa è la logica delle agenzie di rating. Ma queste ultime di che cosa vivono? Non potendo non diffondere i risultati delle analisi, le obbligazioni, infatti, sono comprate solo se hanno un voto, finisce che nessuno le paga. Oppure, se qualcuno le paga, si spia nelle pieghe dei bilanci altrui che cosa è stato comprato. L’informazione di chi produce rating non riesce a farsi pagare, a meno che non la paghi l’emittente titoli, che così crea il mercato per la propria offerta. L’emittente titoli pagherà volentieri la società di rating che lo giudica ottimo, piuttosto che quella che lo giudica medio. Si forma un’asta inefficiente, perché alla fine è premiato chi dispensa i risultati più generosi. Come le università larghe nei voti, che trovano sempre degli studenti disposti a sapere meno in cambio di uno sforzo minore. La gran parte delle emissioni di obbligazioni aveva i voti molto alti, e questo bastava perché finissero nei portafogli degli investitori. Per chiudere con l’esempio, le imprese alla fine hanno assunto gli studenti meno preparati, credendo che fossero dei fulmini, perché a loro bastava guardare distrattamente il voto di laurea.

Tirando le somme: 1) l'ottimismo è più facile da gestire del pessimismo (la sindrome di Rossella O'Hara); 2) si tende a dimenticare che il rischio è nelle pieghe delle cose (si dimentica la “coda del diavolo”); 3) infine, si pensa che, se tutti pensano che una cosa sia vera, allora è vera (la “saggezza della folla”).

Scoppia la crisi nel 2008 e il sistema finanziario è salvato – per evitare il peggio - dagli interventi pubblici. Alcune banche ne assorbono altre, e dunque aumenta la concentrazione dell'industria finanziaria. Le imprese finanziarie diventano sempre più grosse, e dunque sempre più pericolose se fallissero (“too big to fail”). Più diventano grosse e più saranno salvate in caso di crisi. Dunque esse rischieranno più di quanto rischierebbero se potessero fallire. Si crea il cosiddetto “azzardo morale”. Il rischio nel sistema perciò non diminuisce. Non diminuisce perché, al solito, è più rischioso scommettere contro i mercati che salgono, perché, al solito, ci sono sempre gli eventi remoti dietro l'angolo, e, ecco la novità, perché più uno diventa grande più alza la soglia del rischio.

La soluzione - volta a evitare nuove crisi - proposta da alcuni è stata di dividere l'attività bancaria in quella di credito ordinario, che presta il denaro raccolto soprattutto con i depositi, e in quella d'investimento, che investe senza usare i depositi, ma che si finanzia con le proprie obbligazioni e le proprie azioni. Insomma la banca “universale” - che si è formata da qualche decennio - si divide in un'azienda noiosa che presta denaro per le attività ordinarie delle imprese e delle famiglie, e in un'impresa brillante che, se sbaglia, fallisce. Nella prima banca lavorano persone tristi e vestite con abiti dozzinali, nella seconda quelle con abiti firmati che parlano sempre al telefonino.

Non si è fatta la riforma della finanza. La spiegazione che darei non è tanto quella della potenza delle lobbies bancarie (la spiegazione dei “poteri forti”), quanto quella della persistenza delle mentalità (la spiegazione dell'”egemonia culturale”). Si pensa che i mercati finanziari siano in grado di autoregolarsi, e dunque che non vadano toccati. Insomma, che siano in grado di produrre un'allocazione efficiente.

 

Il Nobel mancato di Posner

Posner di formazione è un giurista, e di mestiere fa il giudice. Diventa famoso per la sua analisi economica della legge. Poi apre un blog con l'economista - premio Nobel nel 1992 - Garry Becker. Alcuni di questi dibattiti – brevi e su argomenti diversi, dal matrimonio gay al terrorismo - sono raccolti in un libro. Per un giurista che sa molto di economia la crisi in corso è un argomento troppo attraente. Posner scrive, infatti, “A Failure of Capitalism” nel 2009 e “The Crisis of Capitalist Democracy” nel 2010. Provo a raccontare le tesi di Posner nel secondo dei libri citati.

Il filo rosso dell'argomentazione è che, se i mercati sapessero auto-regolarsi, non ci sarebbe bisogno di una regolamentazione “esterna” (= pubblica) degli stessi. Insomma, in questo caso, niente Nobel. Dopo lo scoppio della bolla della tecnologia, Alan Greespan, allora a capo della Banca Centrale degli Stati Uniti, arriva alla conclusione che il rischio che corre l'economia degli Stati Uniti è quello della deflazione. Con questo termine si intende la caduta continua del livello dei prezzi che, spingendo a rimandare i consumi e gli investimenti (= se aspetto per pochi mesi un bene che desidero mi costerà di meno), alla fine produce una recessione (= una caduta del livello dell'attività economica e quindi dell'occupazione).

Da notare che la bolla della tecnologia poteva essere sgonfiata al tempo della sua formazione, ossia prima del 2000, alzando i tassi di interesse (= ciò che avrebbe frenato gli acquisti di azioni a debito), e alzando i margini di garanzia richiesti per il prestito di azioni. Greenspan all'epoca sosteneva che la banca centrale non può sapere meglio del mercato se i prezzi sono razionali o meno (= la conoscenza vera non può che essere diffusa), e quindi decide di aspettare, contando che, qualora la crisi fosse scoppiata, avrebbe potuto sempre intervenire abbassando i tassi di interesse, che aiutano l'economia a riprendersi.

I tassi di interesse, agli inizi dello corso decennio, dopo lo scoppio della bolla della tecnologia, sono abbassati, ma vanno - per il timore che l'economia potesse finire in deflazione, timore rivelatosi poi infondato - ben al di sotto del loro livello ragionevole (= come misurato dalla “Legge di Taylor”). I tassi molto bassi hanno immediatamente stimolato il settore immobiliare, perché era diventato meno costoso pagare i mutui ipotecari. Ed eccoci alla bolla immobiliare. Un esempio dello spirito speculativo che si era avuto è questo: sono inventati i mutui che si pagano molto poco all'inizio e molto nel futuro, laddove la scommessa è che nel futuro i prezzi delle case saranno maggiori, e dunque, quando il mutuatario dovrà pagare di più, ecco avrà la possibilità di vendere casa.

Alla fine - e immancabilmente - la bolla immobiliare scoppia - proprio come avviene con quelle mobiliari - perché non si hanno più acquirenti a quei prezzi. L'industria finanziaria – le banche ordinarie e quelle di investimento, i fondi comuni, le assicurazioni, ecc – era però piena di mutui ipotecari, soprattutto nella forma di obbligazioni che li mettevano insieme, e si stava avvitando nella crisi. L'industria finanziaria è fragile perché, allo stesso tempo, è rischiosa ed essenziale alla stabilità dell'economia. L'industria del trasporto aereo, per esempio, è rischiosa (= le compagnie possono facilmente fallire) ma non è essenziale per la stabilità del sistema. E' perciò l'essenzialità dell'industria finanziaria che richiede una regolamentazione adeguata.

Perché mai l'industria finanziaria è “ontologicamente” fragile? Le banche si indebitano e prestano il denaro ricevuto. Per guadagnare (o, semplicemente, per pagare i propri costi di funzionamento) le banche debbono ricevere un tasso di interesse maggiore (= uno spread) di quello che pagano, e dunque debbono cercare delle attività rischiose (= con un maggior rischio si può avere un maggior rendimento). Inoltre, sono indebitate a breve (= i depositi possono essere ritirati all'istante) e prestano a lungo termine (= i crediti delle banche non possono essere ritirati all'istante, e, se ciò anche avvenisse, l'economia si affloscerebbe). Se lo spread è basso, ecco che le banche non pagano i propri costi di funzionamento, se, invece, è alto, ecco li pagano, ma con uno spread alto (= un tasso di interesse attivo alto) si riduce il volume dei crediti.

Ergo, la condizione ottimale per le banche è quella in cui esse prestano molto (= hanno una leva – il rapporto fra attivo e capitale di rischio - elevata) per avere un margine di profitto (= un reddito sopra i costi di funzionamento) anche con spread bassi (= che incentivano i debitori). Ossia, per dirla in termini industriali, quando i margini sono bassi si deve agire sui volumi. Da qui la fragilità quando le cose vanno male: le banche con una leva elevata non sono a rischio solo se i loro crediti sono sicuri. La crisi ha mostrato che i molti crediti (soprattutto quelli in campo immobiliare) non lo erano.

Si guadagnava molto con la crescita (che si desiderava perpetua) degli immobili e con una modesta regolamentazione dei mercati finanziari. Perciò, alla fine, si aveva un incentivo per disinteressarsi dei rarissimi eventi negativi (= il famigerato cigno nero, un evento a probabilità bassissima e ad altissimo impatto). Agiva anche la convinzione che, nel caso di mal andamento, la banca centrale avrebbe, come era accaduto ai tempi della bolla della tecnologia, salvato il sistema solo abbassando i tassi. (Si è visto poi che, oltre a schiacciare a zero i tassi di interesse, la banca centrale ha dovuto comprare copiosamente le obbligazioni con in pancia in mutui e i titoli di stato – i famigerati Quantative Easings – per evitare andamenti peggiori)

Per meglio capire la crisi e le sue vie d'uscita Posner riesuma Keynes. Quando cade la “fiducia” (= che è un qualcosa impossibile da quantificare), si riducono i consumi e gli investimenti. Un minor tasso di interesse richiesto dalla banca centrale per prestare alle banche di credito ordinario può però non “salvare la partita”, perché le banche non si fidano (= non sanno come sono messi i conti di ciascuna) le une delle altre (= i tassi interbancari sono spinti al rialzo, oppure le banche non si prestano il denaro fra loro, qualunque sia il tasso) e nemmeno dei clienti non bancari, i quali cedono all'ansia e non chiedono altri crediti. Morale, le banche “immagazzinano” la moneta invece di farla circolare. In questo modo, l'economia non si riprende, per quanto possano essere bassi i tassi di interesse. Un programma di lavori pubblici potrebbe – come negli anni Trenta – salvare la partita? Un programma di lavori pubblici oggigiorno è difficile da attuare, in parte per ragioni teoriche (= quelli che pensano che i lavori pubblici spiazzino quelli privati, perché questi ultimi ci sarebbero comunque, invece di sostituirli, come pensano altri, perché questi ultimi sono evaporati; altrimenti detto, ci sono quelli che pensano che la spesa in opere pubbliche non stimoli l'economia), in parte per ragioni pratiche, come la complessità burocratica per metterli in moto.

Nell'attesa di una soluzione della crisi in corso, si può procedere a meglio regolamentare l'industria finanziaria – le proposte di Posner si trovano nel capitolo 11 del libro citato. L'invito è quello di non lanciarsi a varare riforme frettolose, perché la regolamentazione è cosa complessa. Per esempio, le agenzie di rating, quelle che emettono dei giudizi sul merito di credito, sono sempre di fronte ad un bivio. Se si mettessero a sfornare dei giudizi negativi in numero crescente, allora una parte dell'industria finanziaria si troverebbe a non poter più investire – i fondi pensione, per esempio, debbono avere solo investimenti in titoli a rischio bassissimo. (Se le agenzie di rating declassassero ulteriormente l'Italia, ci sarebbe una vendita immediata dei nostri titoli del Tesoro da parte dei fondi pensione, delle assicurazioni, ecc. Alzandosi il costo del debito, l'Italia andrebbe peggio e perciò si avrebbe una “profezia che si auto invera”). Se, invece, si mettessero a sfornare dei giudizi positivi in numero crescente, una parte dell'industria finanziaria si troverebbe investire in titoli ad alto rischio che appaiono come titoli a basso rischio. (Come è avvenuto con le obbligazioni con in pancia i mutui sub prime – quelli di peggior qualità - mischiati con quelli prime – quelli di miglior qualità, che si supponeva fossero in grado di bilanciare le eventuali perdite dei primi).