La tesi “internazionale” è questa: i Paesi illiberali avranno un peso sempre maggiore nell'economia mondiale, e quelli liberali – sempre ricchi in termini assoluti, ma meno ricchi di prima in rapporto ai Paesi illiberali – si rinchiuderanno dove erano alla fine degli anni Ottanta, ossia intorno alle due rive del Nord Atlantico, in Giappone, e nell'emisfero australe.

La tesi “nazionale” è questa: le idee che si sono imposte con le ultime elezioni non sono nuove, perché sono quelle che prevalevano fino agli anni Ottanta: la domanda cresce grazie alla spinta di un bilancio pubblico in forte deficit coadiuvato da una politica monetaria lasca. Una politica economica che si concentra sul lato della domanda e frena le riforme sul lato dell'offerta è miope. Lo sviluppo economico è, infatti, tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono troppi vincoli, le innovazioni si diffondono facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi se la forza lavoro si sposta dai vecchi ai nuovi settori.

1 – la fine della storia, o la fine della fine della storia?

Agli inizi degli anni Novanta a molti sembrava che la "Storia fosse finita". Con la vittoria dell'Ordine liberale sia all'interno degli stati – brevità più Mercato e meno Stato - sia nei rapporti fra questi – breviter la caduta del Muro di Berlino e le riforme cinesi che facevano venir meno "la sfida comunista" - poco sembrava che potesse cambiare, e dunque che la Storia - letta come mutamenti imprevedibili - fosse finita.

Invece, fra sfide esterne – il ritorno dei giganti comunisti, ed interne – il populismo - la Storia sembra essersi risvegliata e non proprio entro l'Ordine liberale, come sembrava una trentina di anni prima. La "fine della fine della Storia"?

2 – le potenze revisionistiche e quelle sovrastanti di ieri

Le tensioni fra la potenza sovrastante e quella revisionista sono studiate fin dall'antichità. Sparta era dominante ed Atene voleva prenderne il posto, da qui la guerra del Peloponneso. Abbiamo poi avuto numerosi scontri nel corso dei secoli. Alcuni si sono conclusi con una guerra. Il penultimo è sfociato in ben due e pure mondiali: quello fra la potenza che sovrastava – la britannica - e quella revisionistica – la tedesca. Non sempre però lo scontro si è concluso con una guerra. L'ultimo caso è quello della guerra fredda, laddove la potenza revisionistica, l'URSS, ad un certo punto è implosa. Ed eccoci all'oggi.

3 – le potenze revisionistiche e quelle sovrastanti di oggi

La Cina ha registrato un tasso di crescita impressionante, tanto che la sua economia – se misurata non a prezzi correnti, ma a parità di potere d'acquisto (PPP) - ha circa la stessa dimensione di quella statunitense. Col tempo, dato il maggior tasso di crescita, l'economia cinese diventerà più grande di quella statunitense. Ad oggi gli Stati Uniti, la Cina, e l'Europa, hanno una dimensione simile. I cinesi sono però molto più numerosi, per cui il loro PIL diviso per il numero di abitanti è pari a un quarto circa di quello che si forma intorno alle sponde dell'Atlantico. La dimensione assoluta e non pro capite di un'economia conta molto in campo militare. Considerando lo sviluppo tecnologico che si ha in Cina, la sua spesa militare va presa sul serio.

Si può dibattere sui meriti relativi delle economie prevalentemente dirigiste come quella cinese oppure prevalentemente di mercato come quella statunitense. Sorge la domanda: come ha potuto un'economia dirigista – meglio una commistione di dirigismo e libero mercato come quella cinese - avere tanto successo? Come è riuscita a registrare per decenni dei tassi crescita particolarmente elevati, che la hanno portata ad avere un'economia diversificata e competitiva? Il segreto - secondo Yuen Yuen Ang di Foreign Affairs - alberga nella burocrazia: “Dall'apertura dei suoi mercati nel 1978 la Cina ha perseguito una riforma politica significativa. Non quella che instaurava un sistema multi partitico che concorre alle elezioni, con la protezione formale dei diritti individuali, bensì la riforma della sua vasta burocrazia. La riforma ha trasformato la burocrazia, rendendola duttile e con i risultati misurabili. Abbiamo così avuto una autocrazia con caratteristiche democratiche“.

4 – la Cina come “lunga durata”

Un Paese antico come la Cina inevitabilmente porta la discussione sulla “lunga durata”. La Cina è risorta dopo aver perso parte della sovranità e dopo esser finita in miseria. Sulla decadenza cinese si hanno diverse ipotesi. Tre fra le maggiori: 1) quella della trappola dell'equilibrio, laddove con una manodopera a buon mercato ed una burocrazia efficiente non si hanno dei particolari incentivi a innovare; 2) quella dello Stato unitario al posto dei molti Stati in competizione fra loro come in Europa, competizione che ha spinto a sviluppare i sistemi d'armi e i commerci; 3) quella dell'accesso alle materie prime alimentari di origine americana e la vicinanza delle materie prime locali come il carbone ai luoghi di produzione che ha favorito l'industrializzazione europea.

5 – le due sfide esterne

Due sono le sfide all'Ordine liberale: il radicalismo islamico, e le ex potenze della guerra fredda. Il primo potrebbe essere pericoloso se un attore non statale fosse mai in grado di usare delle armi di distruzione di massa, ma non è una sfida alla modernità. Le seconde sono, invece, davvero pericolose, perché la Cina e – in misura molto minore - la Russia, agiscono come Paesi di “capitalismo autoritario” e non più come Paesi comunisti. Essi possono diventare per la maggiore dinamicità del capitalismo autoritario rispetto (si noti) all'economia pianificata, un Secondo Mondo avanzato economicamente e politicamente illiberale. I capitalismi autoritari del passato – la Germania e il Giappone - sono stati un'alternativa all'Ordine liberale fino al 1945, ma da allora – a causa del loro annichilimento militare – non lo sono più. Si noti che nonostante le loro caratteristiche illiberali essi non erano indietro nella produzione manifatturiera e nello sviluppo tecnologico rispetto ai Paesi liberali. Il loro limite era nella media dimensione, da intendere come spazio e popolazione. Il passaggio della Germania e del Giappone all'Ordine liberale è stata il penultimo grande mutamento nei rapporti di forza nel mondo, l'ultimo essendo la perdita da parte dell'Unione Sovietica di metà dei propri territori e delle proprie influenze militari.

6 – la vulnerabilità delle sfide esterne

Gli Stati illiberali – in particolare quelli che dipendono dalle materie prime, che sono i più fragili economicamente, perché, non producendo nulla, sopravvivono grazie alle esportazioni - tradiscono un sentimento di grande vulnerabilità nei confronti di quelli liberali. Come percezione del loro modesto fascino culturale, certamente. Ma, soprattutto, perché i Paesi liberali sono il luogo sicuro dove le loro élite - solitamente “predatrici” - occultano i beni che hanno cumulato. Sarà un caso, ma il dittatore e/o l'autocrate preferisce Londra o la Svizzera come rifugio per i propri beni e la propria famiglia, e non certo un altro Stato gestito con le caratteristiche del suo. Da qui le ricche donazioni per esempio alle università, e le assunzioni di professionisti e consulenti come lobbisti. Fosse solo questo, perché si ha anche il tentativo di influenzare il corso politico dei Paesi liberali. Indebolendo l'Unione Europea, la Russia conta di avere una maggiore influenza con i Paesi dell'ex Patto di Varsavia, che le facevano da “cuscinetto” in caso di guerra.

7 – le due sfide interne: individualismo e insicurezza

Alle due sfide – di natura esterna - all'Ordine liberale – il radicalismo islamico e le due ex potenze comuniste - se ne aggiungono altre due di natura interna, che possiamo etichettare come “populiste”. Il benessere ha da tempo spinto le società liberali verso i beni “post materiali”. Una volta che i “beni materiali” - quali l'alimentazione, la salute, l'abitazione, l'educazione, e la pensione – siano – in misura più o meno completa – soddisfatti, ecco che si passa a quelli detti “post materiali”. I legami di solidarietà – dalla famiglia patriarcale al mutuo soccorso - erano il paracadute delle società povere. Una volta che il paracadute diventata lo “Stato sociale”, che è per sua natura impersonale, i legami tradizionali possono sciogliersi e può emergere la libera scelta individuale. Da qui il desiderio di affermare l'eguaglianza di genere, di “razza”, di inclinazioni sessuali. Una parte della popolazione - legata ai valori tradizionali - si spaventa e vuole reagire alla ”decadenza”. A ciò si aggiunga l'emigrazione che in alcuni Paesi – quelli senza ex-colonie da gestire, come è il caso della Francia e del Regno Unito, ossia la Svezia, la Svizzera, e la Germania – è giunta in pochi decenni a pesare circa un quarto della popolazione residente.

Gli avvenimenti nei Paesi dell'Europa dell'Est sono una complicazione ulteriore alla combinazione di spinte esterne – le potenze autocratiche - ed interne – il dilagare della modernità come individualismo, cui si aggiungono i flussi migratori. I Paesi dell'Est hanno potuto crescere molto grazie agli investimenti dell'Ovest ai trasferimenti dell'Unione. Dunque non è l'economia come tale all'origine del loro malessere. Malessere che si estrinseca nel limitare - in Polonia e in Ungheria - il sistema di poteri e contro poteri e di preservazione dei diritti delle minoranze che sono alla base dell'Ordine liberale. All'origine del malessere – questa è un'ipotesi – abbiamo l'insicurezza dovuta alla vulnerabilità di Paesi anche quando non sono piccoli davanti a quelli ben più potenti.

8 – l'Ordine liberale torna da dove era partito

La democrazia – o meglio la democrazia incapsulata nell'Ordine liberale, che aveva, dal secondo dopoguerra, al centro l'impero benevolo degli Stati Uniti - è fiorita negli ultimi decenni in un numero sempre maggiore di Paesi per una condivisione dei suoi valori, oppure, o soprattutto, per il traino del suo successo economico e della vittoria nella guerra fredda? E che cosa accadrebbe se la dinamica corrente – i Paesi autocratici si affermano in campo politico e crescono in quello economico - si rivelasse duratura, oppure abbastanza duratura? I Paesi illiberali avrebbero un peso sempre maggiore nell'economia mondiale, e quelli liberali – sempre molto ricchi in termini assoluti, ma meno ricchi di prima in rapporto ai Paesi emergenti - tornerebbero dove erano, ossia intorno alle due rive del Nord Atlantico, in Giappone, e nell'emisfero australe, come erano fino alla fine degli anni Ottanta. In altre parole, avremmo un ciclo, partito con la vittoria nelle due guerre mondiali, allargatosi con la vittoria nella terza, che è tornato al punto di prima, proprio per l'emergere degli sconfitti e dei loro imitatori nella terza guerra. I vincitori e i vinti delle prime due guerre, invece, continuano a stare dalla stessa parte.

9 – la grande decisione italiana di cedere sovranità

Si hanno delle forze politiche che vogliono la spesa pubblica in forte deficit – finanziata anche con l'emissione di moneta - come la soluzione per rilanciare l'economia, mentre hanno simpatia per le nazionalizzazioni e (più sommessamente) per la Lira. Ossia, si hanno delle forze politiche che vogliono cancellare le tre scelte fatte negli ultimi decenni: il deficit pubblico sotto controllo, la moneta europea, le privatizzazioni. La classe dirigente italiana decise sovranamente di cedere parte della sovranità per portare a compimento le tre scelte.

Altrimenti detto, la cessione di una quota di sovranità fu una decisione sovrana. Ecco le ragioni. L'Italia aveva una base industriale, ma era penalizzata dagli alti tassi di interesse. Il livello di questi ultimi dipendeva dall'inflazione corrente e dall'incertezza intorno al suo corso futuro. L'incertezza richiedeva un premio (per il rischio) sopra il tasso di inflazione corrente. Il denaro alla fine costava molto più che in altri Paesi e penalizzava l'industria italiana – non solo, ma anche le famiglie con i mutui, e il Tesoro in sede di pagamento degli interessi. Vincolando il cambio, prima con i “serpenti”, e poi con l'euro, l'inflazione non poteva che scendere, perché mancava lo sfogo della svalutazione. Inoltre, vincolando il bilancio pubblico al solo finanziamento con obbligazioni (ossia senza emissione di moneta), l'inflazione non poteva che scendere. Se l'inflazione si fosse definitivamente compressa, i tassi (reali) d'interesse si sarebbero definitivamente compressi, perché sarebbe scomparso il premio per il rischio, e quindi l'industria italiana non sarebbe stata penalizzata rispetto ai concorrenti esteri.

Al ragionamento manca un pezzo. Pezzo che oggi può apparire buffo, ma che negli anni Settanta e Ottanta – anni di forte dialettica sociale - era di assoluto rilievo. La decisione di apertura dei mercati e di adozione dell'euro impediva l'aggiustamento dei conti (e del consenso) attraverso le svalutazioni. I salari in Italia crescevano più della produttività. In diversi momenti nel corso del tempo - man mano che crescevano i differenziali di inflazione - le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale (ma come?), o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro (ciò che non è avvenuto!). C'era fortunatamente (o sfortunatamente?) una terza opzione. La svalutazione della Lira. Questa era la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano (temporaneamente) appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”, e perciò non era nemmeno richiesto – almeno nel breve termine – che tecnologia salisse di livello.

10 – Le idee oggi vincenti sono opposte a quelle della grande decisione e non sono nuove

Nel 2013 – elezioni nazionali, nel 2014 – elezioni europee, ma anche nel 2015 – elezioni amministrative, si avevano dei progetti molto simili a quelli che sono poi emersi con le elezioni nazionali del 2018. La contrapposizione ai progetti di Forza Italia, del M5S, e del PD di Bersani, che possiamo etichettare come crescita trainata dal settore pubblico, si aveva solo nell'esperienza prima di Letta e poi di Renzi, un'esperienza che possiamo etichettare come “austerità espansiva”. Quest'ultima non era proprio una novità perché inaugurata da Monti nel 2011.

Insomma, ciò che era ben presente ma che non era passato dal 2013 in poi, è dilagato pochi anni dopo. Si avevano allora tre punti di vista che si possono anche mischiare dentro lo stesso schieramento: 1) gli euro-fobici, 2) gli euro-scettici; 3) gli euro-fili.

Euro scettici che diventano euro fili. Nel caso di Forza Italia l'argomentazione euro scettica non poteva non tener conto della sua adesione al progetto dell’euro per tutto il tempo che - come Forza Italia prima e come PDL poi - ha governato. Perciò per Forza Italia l’euro andava bene, ma a condizione che si fossero fatti “gli interessi dell’Italia”. Ossia che si fosse abbracciata una politica fiscale espansiva, il che tradotto significa in deficit ma in una misura maggiore di quanto non fosse già avvenuto. Allora – il QE non era ancora stato introdotto – Forza Italia pensava che questa politica potesse essere finanziata dalla BCE che avrebbe comprato le obbligazioni emesse dai Tesori. Si chiedeva anche un euro debole. Una politica - spiegava allora Silvio Berlusconi – che non era originale, perché era già in corso sia negli Stati Uniti sia in Giappone. Possiamo perciò affermare che Forza Italia pensava che, se si fosse cambiata la politica economica nell’euro-area, essa da euro-scettica avrebbe potuto diventare euro-fila. A ben guardare la proposta di Forza Italia era la politica economica italiana di una volta, ma attuata a livello europeo: il bilancio pubblico in gran deficit per alimentare la domanda, con il finanziamento della banca centrale di una parte del deficit, il tutto combinato con una moneta debole in grado di spingere le esportazioni.

Euro fobi ed euro scettici. Il M5S non aveva una storia da giustificare. Non aveva mai governato, e perciò non aveva mai aderito agli accordi internazionali che hanno portato alla formazione dell’Euro area prima in chiave solo commerciale e poi anche anche valutaria. La proposta era: 1) il Paese è governato da una Kasta, che fa solo i propri interessi; 2) fanno parte della Kasta quelli che costituiscono la base del vecchio potere: istituzioni, imprese, sindacati, grandi media, eccetera; 3) non fanno parte della Kasta tutti gli altri; i non-Kasta hanno a disposizione la Rete per parlarsi e le Piazze per mostrarsi. Si ha così un sistema “orizzontale”, che si contrappone a quello “verticale” della Kasta; 4) poiché la Kasta è irriformabile, i “non-Kasta” entrano nell’arena politica per prendere il potere, che sarà di tutti; 5) i cittadini eletti che rappresentano i non-Kasta devono rigorosamente rappresentarli – perciò torna il “vincolo di mandato; 6) la proposta economica, mai circostanziata, poteva essere giudicata sia euro-foba, sia euro-scettica. In linea di massima era stata delineata nei sette punti programmatici al “V-day” del dicembre 2013. Si aveva: i) un referendum per la permanenza nell’euro; ii) l’abolizione del Fiscal Compact; iii) l’adozione degli Euro Bond; iv) l’alleanza tra i Paesi mediterranei per una politica comune, v) gli investimenti in innovazione e nuove attività produttive esclusi dal limite del tre per cento annuo di deficit di bilancio; vi) si hanno i finanziamenti per attività agricole finalizzate ai consumi nazionali interni; vii) infine, si ha l’abolizione del pareggio di bilancio. Questa proposta non è mai (è un caso?) stata circostanziata, perché, se si vuole uscire dall’euro non si possono avere gli euro Bond, così come non si possono avere questi ultimi, anche stando nell’euro, con l’eliminazione dei vincoli di bilancio dei Paesi membri.

Euro fili che sostituiscono gli euro scettici. Si contrapponeva a questa visione della “mano pubblica” di Forza Italia e del M5S - la spesa in deficit con finanziamento monetario oppure con la condivisione del rischio grazie agli euro Bond - quella del nuovo corso renziano del PD, che possiamo definire euro fila. In precedenza, con le elezioni del 2013, non era emerso un vincitore – il PD aveva la maggioranza alla Camera, ma non al Senato. Il programma di Bersani, che possiamo definire apparentemente euro filo ma in realtà euro scettico, per avere una maggioranza stabile al Senato era una miscela di: (a) minor austerità da realizzarsi con maggiori investimenti pubblici, (b) miglior protezione sociale, (c) tagli ai costi della politica, (d) energia verde, (e) matrimonio civili più aperti. Tutti punti che potevano incontrare il favore del M5S. Punti che non sarebbero stati troppo diversi se nel 2018 fosse passata l'idea di un accordo fra il PD e i M5S. La premessa dell'accordo cercato da Bersani era che «l’aggiustamento di debito e deficit sono obiettivi di medio termine, poiché l’immediata emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione».

Questa premessa che si è manifestata di nuovo nel 2018 con la nascita del governo Conte. Si trattava allora - nel 2013 - di un capovolgimento rispetto al governo Monti, che fino ad allora il PD – ma anche Forza Italia - aveva appoggiato: Monti vedeva nell’aggiustamento dei conti pubblici la premessa per il rilancio. Il PD di Bersani sarebbe stato prima facie euro-filo, ma con una politica economica che rimandava le riforme a dopo il rilancio. Poi – prima con Letta e poi con Renzi – il PD era tornato a volere prima le riforme del mercato dei prodotti e del lavoro - e poi la negoziazione dei vincoli di bilancio dell'euro area.

11 – la battaglia delle idee: prima la crescita o prima le riforme?

Si hanno così – già dal 2013, ma oggi sono i vincitori delle elezioni – quelli che pensano che si debba prima rilanciare l'economia attraverso il deficit di bilancio e poi fare le riforme, e quelli che pensano ancora che questo sentiero sia rischioso. Si possono delineare i due modelli. Il primo è quello del Fiscal Compact (FC) il secondo del Fiscal Growth (FG).

Il FC è l'idea che i saldi del bilancio pubblico vadano portati in pareggio (quasi) in qualsiasi contesto economico. A saldi fra uscite e entrate pari a zero (ossia con deficit di bilancio nulli) il debito pubblico non è più emesso. A quel punto, il debito non può che decrescere il rapporto all'andamento dell'economia (come misurata dal PIL), perché questa, per quanto possa crescere poco, alla fine cresce. Per rendere credibile il “vincolo di bilancio” (i deficit nulli), esso va accolto come regola costituzionale. I seguaci del FC sostengono che, una volta che i debiti pubblici non crescono più, torna “la fiducia”. Come fa a tornare la fiducia? Secondo questo schema: 1) i cittadini tendono a spalmare i propri consumi nel tempo: se hanno un reddito maggiore (della media del proprio reddito) spendono meno e risparmiano, mentre, se hanno un reddito inferiore, spendono di più e de-cumulano il risparmio. 2) se sospettano che il maggior debito pubblico in futuro – per essere ripagato - “comanderà” più imposte, ecco che spenderanno meno oggi. Se, invece, prevedono che le imposte saranno inferiori, perché i debiti pubblici saranno sotto controllo, ecco che oggi spenderanno di più.

Il FG è l'idea del rilancio dell'economia attraverso una politica fiscale attiva – ossia con il deficit pubblico finanziato con l'emissione di debito. Si parte dall'assunto che la compressione della domanda di origine pubblica e il rialzo delle imposte - in assenza di un livello adeguato di consumi e investimenti del settore privato – possa spingere l'economia nella trappola della mancanza di crescita. L'altro assunto è che non si sa se un debito pubblico cospicuo sia o meno un freno alla crescita; potrebbe, infatti, essere vero il contrario, ossia che è la modesta crescita ad alimentare il debito. Perciò l'emissione di nuovo debito porta la crescita, che consente di mettere sotto controllo il debito. In altre parole, si ha il paradosso che è il debito a scacciare il debito che è il debito a scacciare il debito.

Attenzione, la gran spesa pubblica in deficit per sé non porta automaticamente ad una grande crescita. La spesa pubblica in deficit funziona, infatti, solo sotto certe condizioni. L'espansione dell'economia (purché sia in partenza depressa, ossia con una sotto occupazione degli impianti e della manodopera) attraverso un maggior deficit pubblico senza per questo avere un aumento del debito pubblico (in percentuale del PIL) è possibile. Ciò avviene se il deficit pubblico alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore della spesa iniziale in deficit (ossia, se il moltiplicatore della spesa è significativo), a condizione che il costo del debito sia inferiore al tasso di crescita dell'economia. Si assume perciò che la politica monetaria sia fuori gioco, ossia che i tassi stiano per qualche tempo molto bassi.

Nel caso del FC sono troppe le assunzioni che debbono incastrarsi per avere un ritorno non troppo distante nel tempo dei frutti della fiducia. Nel caso del FG i numeri non girano facilmente. Si ha una complicazione ulteriore nel campo del FG. Ammettiamo che nei tempi delle “vacche magre” i deficit e l'emissione del debito aiutino a uscire dalla crisi. Una volta che sia usciti dalla crisi, vale a dire quando tornano le “vacche grasse”, il bilancio pubblico in surplus mangia il debito emesso in precedenza, e si torna al punto di partenza, oppure no? Ossia, il debito arriva e poi va via, e dunque nel lungo termine non cresce mai, oppure no? Chi più chi meno, tutti i paesi sviluppati non riescono a contenere i deficit e ad evitare di accumulare debito. La crescita perpetua del debito è, infatti, il luogo dove si materializza la ricerca del consenso. Il gran debito pubblico che si è cumulato e che non si riesce a ridurre è un punto molto delicato. Negli ultimi anni esso è cresciuto molto ovunque, ma esso costa molto meno di quanto sia mai costato. Un costo così compresso, a meno di durare per decenni, è pericoloso. Che cosa accadrebbe, infatti, se si alzasse? Il costo del debito pubblico emergerebbe, e il bilancio pubblico si troverebbe a dover pagare degli oneri da interesse molto alti, come è accaduto in Italia prima dell'adesione all'euro, quando il debito costava il 10 per cento del PIL.

12 – la distanza fra Francia e Germania e lo spazio per l'Italia

La contrapposizione fra l'“austerità” - voluta dalla Germania, e, in generale, dai Paesi del Nord - e la “flessibilità” - voluta dalla Francia, e, in generale, dai Paesi Latini - non è sorta durante la crisi recente, quella iniziata nel 2008, quando si è diffusa l'espressione pop di “cicale” - i Paesi del Nord - e formiche” - i Paesi del Mediterraneo. Essa – nello specifico della contrapposizione nel campo della politica economica fra Francia e Germania - ha origine nel lontano secondo Dopoguerra, come elaborazione della tragedia che si era appena conclusa. La sua lontana origine ne ha nascosto la portata durante i primi tre decenni di euforia dopo la guerra – i cosiddetti “Trenta Gloriosi”. Anche a seguito degli accordi di Maastricht – quelli sui vincoli di deficit e di debito - la contrapposizione non si è palesata, perché non stava accadendo nulla di grave, mentre essa è emersa con la crisi finanziaria, più precisamente con la vicenda greca. Prima della seconda guerra, e per tutto il secolo precedente, la Francia era stata - nonostante la tradizione “super-centralista” - un Paese “mercatista”. Prima della seconda guerra, e per tutto il secolo precedente con la forzatura “ultra-dirigista” nel periodo nazista, la Germania era stato un Paese “dirigista”. Oggi è il contrario. Perché mai?

La sconfitta nella seconda guerra spinge i francesi nella direzione dell'intervento pubblico, quindi verso il “dirigismo”. Quest'ultimo era visto come il demiurgo di uno stato forte, a sua volta concepito come uno strumento per non perdere più le guerre con la Germania (ben tre in meno di un secolo: 1870, 1914, 1940). Al contrario, la sconfitta totale del Nazismo spinge i tedeschi verso la delimitazione dell'intervento pubblico. L'esperienza li spinge verso il “mercatismo” per impedire la formazione di uno stato forte, che, nel caso tedesco, era diventato, come noto, “totalitario” come l'Unione Sovietica. Nel caso tedesco, il “mercatismo” assume la forma dell'“Ordoliberalismus” - laddove lo stato decide le regole della competizione “vera” e interviene solo a favore dei bisognosi. L'Ordoliberalismus si è avvalso della spinta delle autorità statunitensi desiderose di de-nazificare e de-cartellizzare l'economia tedesca ai tempi dell'occupazione. L'Ordoliberalismus, infine, è una dottrina giuridica più che economica, infatti in Germania domina, come del resto quasi ovunque, la “sintesi neoclassica”. Quest'ultima domina solo in campo accademico, ma non in quello politico e giornalistico.

Abbiamo così, dopo la seconda guerra, il dirigismo francese ed il mercatismo tedesco. Questa macro-differenza si articola in numerose micro-differenze. Ne segnaliamo due:

La Francia persegue lo sviluppo dei suoi “campioni nazionali”, le grandi imprese che competono nel mondo, mentre la Germania, che pure ha i suoi “campioni nazionali”, persegue anche lo sviluppo delle piccole e medie imprese concentrate nel Sud-Ovest. Il Sud-Ovest germanico fa parte dell'Europa che include per le caratteristiche economiche simili anche la Svizzera e in Nord-Italia; In Francia abbiamo dei sindacati conflittuali, mentre in Germania essi sono collaborativi. In Germania i sindacati erano molto conflittuali fra le due guerre. Di nuovo, l'esperienza di Weimar e lo shock del Nazismo hanno spinto i tedeschi verso la ricerca della pace sociale. Le imprese tedesche con più di duemila dipendenti hanno - si noti fin dal 1952 - i lavoratori subordinati rappresentati con la metà dei consiglieri.

Torniamo alle macro-differenze. Proviamo ora ad elencare i punti che esprimono il punto di vista francese, e, per confronto, quello tedesco. Come si vede, si possono riconoscere molte delle tesi che sono sostenute anche in Italia, laddove si hanno sia quelle di sapore francese - la norma con i governi “politici”, sia quelle di sapore tedesco - la norma con i governi “tecnici”. Come si vede ancora, questi opposti punti vista hanno caratterizzato lo scontro politico ed economico degli ultimi anni:

Francia - le regole sono soggette al processo politico e possono essere rinegoziate. Germania - le regole “sono regole”: se si sa che sono negoziabili nessuno le rispetterà fin dall'inizio. Francia - dal punto precedente emerge che le crisi vanno gestite con flessibilità. Germania - se si immagina che la flessibilità possa palesarsi, ecco che le regole non saranno rispettate.

Francia – limitare la libertà di movimento dei governi – per esempio l'indebitarsi - è antidemocratico. Germania – forse è antidemocratico non indebitarsi rispetto alle generazioni in vita, ma è certamente antidemocratico indebitarsi quando il costo sarà scaricato sulle generazioni future che oggi non votano e quindi non sono rappresentate.

Francia – la politica monetaria non può avere come obiettivo la stabilità dei prezzi, perché deve tener conto della crescita. Germania – non è compito della politica monetaria stimolare la crescita, il compito è quello di garantire un quadro di certezze, come l'assenza di inflazione.

Francia – se un Paese è in deficit con l'estero e l'altro è in surplus, il secondo deve espandere la domanda per importare le merci del primo per ottenere un pareggio. Germania – il deficit dipende da una carenza di competitività. Il sistema diventa più efficiente se non si aiutano i meno competitivi a sopravvivere.

Francia – degli equilibri multipli sono possibili, ma non tutti sono accettabili. Un rendimento ingiustificatamente elevato di un'obbligazione del Tesoro, se lasciato sedimentare “perché il mercato lo vuole”, può inibire la crescita di un Paese, che si trova, alla fine, costretto a pagare molto il proprio debito a danno, per esempio, degli investimenti pubblici. Germania – a guardare troppo il presente – nel caso un elevato e ingiustificato rendimento richiesto per sottoscrivere il debito pubblico – si perde di vista il futuro. Il futuro deve emergere come “coscienza” dei mercati, come una responsabilità, e dunque non come il frutto degli interventi delle autorità.