Nella polemica corrente si etichetta come “keynesiano” chi vuole usare il bilancio dello stato per spingere la crescita e redistribuire il reddito. Sempre nella polemica corrente si etichetta come “neoliberista” chi, al contrario, vuole tenere separato l'ambito economico da quello politico. Le politiche keynesiane sono state portate avanti nel periodo 1945-1975, quelle neoliberiste da allora. Abbiamo avuto due modalità - durate entrambe una trentina di anni - per gestire l'economia e politica. Queste due modalità hanno una comune origine politica – il timore sorto negli anni Venti e Trenta che la sovversione, ossia l'insorgere dei movimenti comunisti e nazionalisti, potesse abbattere l'Ordine liberale - e un'idea opposta di soluzione: l'intervento pubblico contrapposto alla neutralità dello stato.

1 – L'approccio keynesiano

Keynes è visto come il padrino dell'attivismo economico, ma va ricordato che, allo stesso tempo, è anche colui che ha evitato il disastro – quest'ultimo avrebbe potuto essere frutto della grande crisi prima politica con l'insorgere dei totalitarismi dagli anni Venti, e poi economica con la grande depressione dagli anni Trenta. Il keynesismo ha contribuito al mantenimento dell'Ordine liberale in una nuova veste, quella sviluppatosi dopo la guerra nella forma dello Stato Sociale. Keynes rientra nel filone della critica di Burke della Rivoluzione francese, critica che insiste nell'affermare che, per quanto attraente possa essere una rivoluzione, questa, alla fine, porta al disastro. E dunque che la rivoluzione va governata evitando che prendano il sopravvento i rivoluzionari.

La sfida consiste quindi nel navigare evitando la regressione conservatrice e il rovesciamento rivoluzionario. Nel progetto keynesiano, che è di natura interventista, si nasconde una china scivolosa, che è poi il cuore della critica neoliberista al keynesismo. Critica che consiste nell'affermare che, una volta che si manifesti l'intervento politico nell'economia, prima o poi si scivola nel socialismo (laddove per socialismo nell'elaborazione degli economisti austriaci, che sono i padri del neo-liberismo, non si intende solo l'Unione Sovietica, ma anche il nazi-fascismo). Procediamo per gradi.

Una soluzione per fermare la succitata a ancora indefinita “china scivolosa” era adombrata dallo stesso Keynes, quando sosteneva (con finta ironia?) che l'economia avrebbe potuto (e dovuto) raggiungere lo status dell'odontoiatria. Una tecnica senza politica, insomma. Laddove la tecnica è necessariamente di pertinenza della Tecnocrazia.

Ma la tecnocrazia è una soluzione? Potrebbe, ma solo se combinata con la flessibilità politica, il cui esempio keynesiamo classico è: se i salari non sono flessibili a causa del potere dei sindacati e se la rottura con questi ultimi equivale ad alimentare la - un termine ormai fuori moda - “contrapposizione di classe”, allora il mezzo più conveniente per aggiustare i salari reali potrebbe essere quello di agire attraverso un modesto aumento dell'inflazione, che riduce il costo reale del lavoro. Anche fissare un tasso di cambio a un livello non competitivo è pericoloso non tanto perché ostacola le esportazioni, ma soprattutto perché esercita una pressione sul sistema politico per forzare il taglio dei salari.

La flessibilità politica governata dalla tecnocrazia, come si vede, emerge come la soluzione. Ma essa non ancora sufficiente. Eravamo, infatti, partiti dalle domanda: dove si ferma l'intervento pubblico che scivola verso il socialismo? Siamo al passo finale, laddove si vede che e idee keynesiane si sono imposte senza scivolare nel socialismo grazie alla vittoria in guerra. Keynes era consapevole delle implicazioni della sua proposta di soluzione dei problemi. Come emerge dalla prefazione all'edizione tedesca della General Theory del settembre 1936: "la teoria dell'output nel suo insieme, che è ciò che il seguente libro intende fornire, è molto più facilmente adattato alle condizioni di uno stato totalitario, di quanto non lo sia la teoria della produzione e distribuzione in condizioni di libera concorrenza”. Keynes certo non aveva simpatia per il Nazismo, ma l'allineamento della macroeconomia keynesiana con la democrazia politica è stato più l'effetto della vittoria degli Alleati, che il risultato di un'affinità intellettuale o politica intrinseca.

 2 – L'approccio neoliberista

I neoliberisti vogliono il “laissez-faire globale”, che si estrinseca nei mercati auto-regolamentati, negli Stati ristretti, nella riduzione dell'umana complessità all'Homo economicus. Così, almeno, si dice, anche banalizzando. Perché mai oggigiorno si dovrebbe condividere questo progetto, in apparenza estremo? Una risposta asserisce che il numero di persone che al mondo vive con un dollaro al giorno diminuisce con il laissez- faire ogni anno. Ecco la risposta preferita a “destra”. Un'altra risposta asserisce che il neoliberismo è una restaurazione del potere di classe dopo l'intervallo egualitario del Welfare State. Ecco la risposta preferita a “sinistra”.

Si ha una terza risposta più sottile. Torniamo alle origini del movimento neoliberista, quindi negli anni Venti e Trenta. Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises non avrebbero potuto pensare alle succitate due spiegazioni. Non hanno, infatti, mai affermato che la crescita economica giustifichi tutto. Non hanno nemmeno pensato alla “restaurazione di classe”. Hayek, infatti, non credeva nell'uso di aggregati come il PIL - ciò di cui abbiamo bisogno per dire che ci sia o meno crescita. La scuola neoliberista crede, infatti, che l'economia non possa essere catturata con i numeri, perché la sua totalità sfugge alla nostra comprensione. Se si potesse comprendere, si potrebbe pianificare, e, se si potesse pianificare, allora si potrebbe perseguire la giustizia sociale, così come il suo opposto, che è la “restaurazione di classe”.

E dunque che cosa potrebbe portare alla condivisione dell'approccio neoliberista? Il neoliberismo più che una dottrina economica è una dottrina di ordinamento – ossia della creazione delle istituzioni che facciano funzionare un sistema centrato sui mercati, a loro volta centrati sulla libertà individuale. Si ha nell'universo neoliberista un mondo di imperium (il mondo degli stati) e un mondo di dominium (il mondo della proprietà) che sono separati. L'idea all'origine era che il mercato non sarebbe potuto sopravvivere con le sue sole forze alla pressione degli eventi di coloro – i seguaci dei vari totalitarismi - che cercano di fare della terra un posto “giusto” o per la propria razza (i nazisti) o per i proletari (i comunisti). Per difendere il mercato – e quindi la libertà dell'individuo – ci si rivolge allo stato che però non interviene attivamente nella regolazione dell'economia, come nel caso di Keynes, ma che la regola e non solo a livello nazionale. L'apogeo delle idee neoliberiste si ha così negli anni Novanta con un'economia mondiale regolata da strumenti legali transnazionali, che impediscono alle dinamiche interne agli stati di alterare il comportamento dei mercati.

L'dea di spostare il controllo politico dal livello nazionale a quello internazionale nasce – è un'ipotesi affascinante – nella mente degli economisti austriaci – si potrebbe dire “non per caso” - in seguito alla caduta dell'impero degli Asburgo. Venuta meno la garanzia sovra-nazionale e sovra-etnica che garantiva l'Impero, come si sarebbe potuta preservare la libertà degli individui dal dilagare del nazionalismo delle diverse etnie?

3 – Keynesiani nel breve termine, neoliberisti nel lungo termine?

Il keynesianismo non nega i mercati lasciati liberi di agire e supervisionati dal potere statale come nella modalità neoliberista possano andare bene nel lungo periodo, una volta che le varie forze abbiano avuto il tempo di lavorare. Ma nega che queste verità si traducano in regole di azione nel presente. A lungo andare, infatti, le tendenze fondamentali dell'equilibrio del mercato possono ben imporsi, ma "alla lunga siamo tutti morti". Non è "a lungo termine", o anche "a medio termine", ma nel "breve periodo", che il problema del mantenimento della civiltà deve essere intrapreso. È qui che si fanno sentire le pressioni della necessità. Non è un caso che quando un governo si trova di fronte ad una crisi diventi keynesiano. La crisi del 2008 con l'uscita dopo qualche anno grazie all'interventismo ne è stata una dimostrazione. In altre parole, si riconosce come guida dell'agire l'incertezza e la disarticolazione, l'imperfezione e l'indeterminatezza e si fa quel che si può.

La conclusione sarebbe perciò questa: ci piacerebbe essere neoliberisti, ma i problemi vanno risolti “qui e subito” e quindi ci tocca diventare pro tempore keynesiani.

4 - Per approfondire

Geoff Mann, In the Long Run We Are All Dead, Keynesianism, Political Economy, and Revolution, Verso, 2017

Quinn Slobodian, Globalist, The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard, 2018