Come sembra dalle conclusioni degli incontri di oggi al Quirinale si è trovato l'accordo sul nome del Presidente del Consiglio, con il programma dell'eventuale nuovo governo che deve essere discusso prima di decidere chi poi lo attuerà, ossia i ministri e i vice ministri. Il nascituro ha una dichiarata impronta ecologica e re-distributiva, che possiamo definire “di Sinistra”. Proviamo a mettere a fuoco delle soluzioni ai nodi di natura ecologica e re-distributiva sollevati che siano – almeno ai nostri occhi – ragionevoli e moderate. Nella seconda parte della nota sono raccolti in ordine cronologico e senza alcun cambiamento i tre precedenti flash sulla crisi: il primo sui primi segni di una crisi, il secondo sul nodo del Mezzogiorno, il terzo scritto quando la crisi si è palesata agli inizi di agosto.

 

1 - Meno incentivi e più mercato per l'Ecologia

 In passato il compito di attuare le politiche energetiche era affidato ai grandi enti pubblici – l'Enel e l'Eni, poi è stato il mercato a guidare le scelte, anche se la maggior parte degli investimenti è stata spinta dagli incentivi. E' difficile pensare che si possa andare avanti nel modo tradizionale per l’impatto che i costi degli incentivi hanno sui prezzi finali dell’energia. Se il Piano nazionale per l’energia fosse una distribuzione di incentivi, ecco che verrebbe a mancare la volontà degli imprenditori nella ricerca di innovazioni in campo energetico. Alla lunga, infatti, gli incentivi creano una dipendenza dalla politica e dalla discrezionalità delle amministrazioni pubbliche. La ragione che un tempo giustificò l'intervento pubblico – la modesta convenienza delle rinnovabili - è in gran parte venuta meno.

Per approfondire: https://www.ilfoglio.it/economia/2019/08/28/news/basta-ecoballe-superare-la-politicizzazione-dellenergia-271237/?

 

2 – E' aumentata la povertà, non la diseguaglianza

In Italia la disuguaglianza è cresciuta molto tra il 1980 e il 2000. Da allora lo scenario è cambiato, perché la crescita della diseguaglianza ha frenato. Rispetto al livello del 1980, il reddito dell'uno per cento più ricco della popolazione è aumentato molto fino ai primi anni 2000, per poi calare leggermente fino ai giorni nostri. Lo stesso – ma con una magnitudine inferiore - è avvenuto per il 10 per cento degli italiani più ricchi. La classe media, invece, ha continuato a guadagnare la stessa quota di reddito nazionale. Insomma, la disuguaglianza è oggi simile ai livelli di 15 anni fa. Dov'è il punto? Durante la crisi i redditi di tutta la popolazione sono diminuiti, ma la perdita è stata di molto superiore per il 10 per cento più povero della popolazione, che ha visto il proprio reddito crollare di un terzo. Se “i poveri piangono, i ricchi non ridono”, poiché anche questi ultimi hanno dovuto subire delle riduzioni, ma inferiori 10 per cento. Il fenomeno più rilevante in Italia è quindi quello della povertà e non della disuguaglianza.

Per approfondire: https://www.ilfoglio.it/economia/2019/08/26/news/il-problema-e-la-poverta-non-la-disuguaglianza-270903/

 

3 - Riforma non abolizione del RdC e di Quota 100

Si hanno obiettivamente due nodi. Uno legato - causa la demografia - all'età oblunga richiesta per andare in pensione, che con il governo antecedente il 2018 era stato affrontato con l'Anticipo PEnsionistico e da quello successivo con quota 100. L'altro legato alla forte presenza della povertà era stato affrontato dal governo precedente il 2018 con il REddito di Inclusione, e da quello successivo il 2018 con il Reddito di Cittadinanza. Si possono trovare delle modalità che spingano le diverse soluzioni verso una comune che sia compatibile con i conti pubblici.

Per approfondire: https://www.ilfoglio.it/politica/2019/08/23/news/salari-e-lavoro-si-puo-fare-cosi-270634/

 

4 – Una crescita trainata dai salari?

Se la quota dei profitti sale e quella dei salari scende, ecco che i consumi non aumentano, mentre aumentano gli investimenti. Aumentano in questo caso anche le esportazioni nette. Se, invece, la quota dei salari sale e quella dei profitti scende, ecco che i consumi aumentano, mentre non aumentano gli investimenti. Non aumentano in questo caso nemmeno le esportazioni nette. Le cose non sono così “simmetriche”. Si osservi il caso dei maggiori profitti. L'aumento degli investimenti non compensa la stagnazione dei consumi. Ossia l'economia cresce meno. Si ha il caso dei maggiori salari. La stagnazione degli investimenti è compensata dalla crescita dei consumi. Ossia l'economia cresce di più. Resta da valutare l'impatto delle esportazioni. Se un Paese esporta soprattutto verso un'area omogenea, le esportazioni nette trainate dai maggiori profitti non crescono poi tanto. E' il caso dei Paesi dell'Unione Europea. Il contrario avviene per le esportazioni verso le aree disomogenee. Questo per dire che un rialzo della quota dei salari attuato di concerto fra Paesi potrebbe aiutare ad alzare il tasso di crescita dei Paesi facenti parte di un'area economica omogenea.

 Per approfondire: http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---ed_protect/---protrav/---travail/documents/publication/wcms_192121.pdf; http://www.ilo.org/public/libdoc/ilo/2012/112B09_325_engl.pdf

 

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Primo Flash - del 19 luglio

Cinque Stelle e Lega sono ai ferri corti su quasi tutti i dossier. E' gia accaduto molte volte, con la crisi che si è sempre fermata grazie al raggiungimento di un compromesso. Anche questa volta la partitura sarà la stessa? Oppure vi sono delle novità?

La novità sono i risultati delle elezioni europee, laddove la Lega è debordata, andando sopra il 30% dei voti, mentre i Cinque Stelle sono implosi, scendendo verso il 20%. I risultati delle elezioni europee sono stati l'opposto di quelli delle elezioni nazionali dello scorso anno. Potrebbe formarsi – in assenza di nuove elezioni che si direbbe che nessuno voglia e in presenza di una crisi dell'attuale maggioranza - un governo tecnico appoggiato dei Cinque Stelle e dal Partito Democratico?

Una nuova maggioranza Cinque Stelle e Partito Democratico avrebbe abbastanza seggi alla Camera ma non al Senato, dove potrebbe trovare l'aiuto di qualche esponente di Forza Italia. Ma non è questo il punto. Nelle fila parlamentari del Partito Democratico è forte la presenza dei renziani contrari ad ogni accordo con i cinquestelle. Se si giungesse a questo accordo, l'ipotesi centrista di Renzi sarebbe messa fuori gioco. Si formerebbe, infatti, una coalizione attenta alle tematiche dell'equilibrio con la natura e della redistribuzione del reddito, ma non a quelle della produzione e della crescita. Tematiche queste ultime che potrebbero finire nelle mani dell'opposizione formata dalla Lega e Forza Italia. Una evoluzione che metterebbe in grande difficoltà il disegno (quello che abbiamo etichettato come “centrista”) di una parte del Partito Democratico, quello di osservanza renziana.

Non si ha per giustificare una nuova maggioranza che porti ad un governo tecnico all'orizzonte nemmeno una crisi finanziaria – in breve, lo spread è più alto di un anno fa, ma non è fuori controllo, e l'Italia non è stata sanzionata - che possa spingere verso un governo tecnico appoggiato da una nuova maggioranza, come accaduto nel 2011 con il governo presieduto da Mario Monti.

Un governo tecnico - se è tale - spingerebbe – ma non è detto però che ci riesca - verso un ridimensionamento della spesa pubblica e un aumento delle imposte allo scopo di ridurre fin da subito il peso del debito pubblico. Con un governo tecnico volto all'austerità una maggioranza centrata sui Cinque Stelle e sul Partito Democratico potrebbe difficilmente esibire un programma ecologico-distributivo.

Abbiamo visto come sia molto difficile, qualora si rompesse l'attuale maggioranza, trovare un'alternativa solida. Un'alternativa soldida che non spinga verso nuove elezioni. Elezioni anticipate il cui risultato, allo stato delle conoscenze, sarebbe avvolto nel buio.

 

Secondo Flash - del 23 luglio

E' ripresa la polemica sull'autonomia regionale della Lombardia, del Veneto e dell'Emilia Romagna. Questa è la riforma bandiera della Lega, ed è contestata dal M5S, ma anche da altri parti politiche. Qui proviamo - sine ira et studio - a esporre i contorni della vicenda, facendo ruotare il ragionamento intorno ad un'unica domanda. Oggi si ridiscute il centralismo che sposta molte risorse delle regioni più ricche verso il Meridione. Nel dopoguerra, invece, questo non accadeva. Perché ora sì, mentre ieri no?

Il Meridione ha mutato spesso volto. Meglio, ha avuto diversi volti che sono mutati. Un volto era quello di essere un mercato maggiore per le esportazioni delle imprese del Nord. Un altro era quello di fornire manodopera ai tempi della industrializzazione accelerata del Nord. Questi due primi volti del Secondo Dopoguerra hanno da tempo esaurito la propulsione. Il Nord esporta in massima misura fuori dai confini nazionali, e la manodopera non qualificata proveniente da altre aree non è più richiesta. Altro volto era bilanciare il pericolo social-comunista ai tempi della Guerra Fredda. Il Meridione votò, infatti, prima per la Monarchia e poi per le forze moderate. La Guerra Fredda non c'è più e il pericolo social-comunista non si vede dove oggi possa albergare. Volto finale – quest'ultimo esauritosi per effetto della guerra persa e quindi estintosi con la rinuncia ad essere la “più piccola delle grandi potenze” - era la funzione militare. Il Meridione popoloso serviva per fornire l'esercito di soldati, e per proiettarsi verso il mare nostrum.

Queste erano le ragioni dell'interesse per così dire “materiale” del Nord a perseguire una politica di “alleanza” con il Meridione. Queste ragioni materiali non ci sono più. Il Nord potrebbe rinunciare in maniera definitiva all'ambizione di fare dell'Italia la più piccola delle grandi potenze – una progetto perseguito dall'Unità alla Seconda Guerra - e diventare come il Belgio, l'Olanda, l'Austria. Trasmutarsi in un Paese dove la politica è dissolta nell'economia e dove il Paese è junior partner del Sacro Romano Impero.

Come possiamo quantificare le numerose importanti funzioni svolte nel Secondo Dopoguerra dal Meridione: quanto vale l'aver arginato i social-comunisti? Quanto vale l'aver alimentato il grande esodo dalla campagna alla città? L'unica quantificazione di cui disponiamo – di valore limitato - è relativa al debito pubblico. Esso si è formato in Meridione, laddove le spese dello stato sono state maggiori delle entrate che traevano origine localmente. Il bilancio pubblico – inteso come surplus primario - nel Nord-Ovest è stato in avanzo, nel Nord-Est è stato prima in deficit e poi in avanzo, nel Centro quasi sempre in pareggio. Nel Meridione si aveva un disavanzo spaventoso che negli ultimi anni va riducendosi pur restando molto elevato.

Per approfondire: https://www.centroeinaudi.it/cerca.html?gsquery=meridione

 

Terzo Flash - del 10 agosto

Caduto il governo centrato sulla coalizione M5S-Lega, ecco che si hanno tre uscite: 1) elezioni anticipate subito, quest'autunno, 2) un governo di transizione che prepari le elezioni anticipate più in là, nei primi mesi del 2020, 3) un governo di transizione che invece di preparare le elezioni fra qualche mese dura molto di più. L'argomento è come ovvio, complesso, perché si hanno da analizzare le molte combinazioni che emergono fra le strategie dei diversi attori.

1 – Elezioni anticipate nel 2019

Si va alle elezioni anticipate in autunno. Dai sondaggi si arguisce quanto segue. La Lega ottiene molti seggi e per stabilizzare la maggioranza si allea con Fratelli d'Italia. La maggioranza di questi due partiti è elevata alla Camera, ma meno solida al Senato, In questo secondo caso la maggioranza potrebbe essere puntellata dai fuoriusciti da altre forze.

Una grande e solida maggioranza, pure politicamente abbastanza omogenea, per fare che cosa? Sulla base delle dichiarazioni dei due partiti per tagliare le imposte sie delle persone fisiche sia di quelle giuridiche e per rilanciare fin da subito gli investimenti in infrastrutture. Secondo questa linea di pensiero le famiglie tornerebbero - avendo un maggior reddito netto a disposizione - a consumare, e le imprese – pagando meno imposte e quindi trattenendo una quota di profitti maggiore – tornerebbero a investire, mentre le infrastrutture creano domanda aggiuntiva, con l'annesso moltiplicatore. Il Bel Paese esce così – grazie al maggior deficit pubblico frutto del taglio delle imposte e della spesa per investimenti - dalle secche in cui era finito, e ciò avviene grazie ad una maggioranza che è finalmente a favore della produzione del reddito e non della sua re-distribuzione.

Prima di passare alle obiezioni politiche allo scenario appena mostrato, osserviamo quelle economiche.

Questa proposta – se funzionasse – averebbe come risultato quello di portare sotto controllo il debito pubblico (il numeratore) facendo crescere il PIL (il denominatore). Per ridurre il rapporto debito/PIL si agisce sul denominatore, ossia bisogna crescere di più e per crescere di più occorre fare più deficit. Ossia l'intervento dello stato spinge l'economia verso la crescita, crescita che l'economia da sola, con buona pace dei “liberisti”, non saprebbe cogliere. Insomma, si aumenta il deficit, che è come dire che si aumenta la domanda addizionale. Ed ecco che alla fine aumenta il PIL. Quest'ultimo aumenta grazie ai moltiplicatori – ossia grazie al maggior reddito che sorge a seguire la spesa iniziale. Grazie dunque ai moltiplicatori il PIL sale, e sale più del debito che inizialmente si forma per farlo ripartire. Segue che, alla fine, il rapporto Debito/PIL scende e il Bel Paese è salvo.

Può però accadere che, grazie ad un deficit più elevato, aumenti immediatamente il PIL, ma non il suo tasso di crescita di medio periodo – tasso che dipende da altre variabili che possono essere diverse da quelle della semplice spesa iniziale. Con il PIL che nel lungo termine non è detto che salga per effetto dello stimolo fiscale si ha intanto che il debito è diventato maggiore. Nell'attesa che la crescita dell'economia lo riduca come peso relativo il che, come abbiamo visto, non è scontato, possono crescere gli interessi a parità di tassi oppure i tassi e quindi gli interessi possono riprendere a salire. La soluzione della spesa pubblica in deficit finisce così per non funzionare.

La versione pop del ragionamento esposto nei capoversi precedenti si manifesta nel cosiddetto “partito dello spread”.

Passando alle obiezioni politiche, possiamo immaginare che oltre alla Lega e a Fratelli d'Italia anche il PD possa essere interessato all'opzione delle elezioni anticipate. Potrebbe – agitando il pericolo fascista insieme a un non ancora definito “programma di sinistra” - raccogliere una parte degli elettori del M5S ed arrivare intorno al 25% dei voti. Questi voti al PD non servirebbero per governare – infatti, con chi mai si potrebbe alleare, se i M5S, ormai decimati, prima dalla Lega e poi dal PD, avessero poco più del 10% dei voti – ma servirebbero a costituire una “casamatta” per sopravvivere, una casamatta volta a ribadire la propria identità – a ben guardare un'operazione simile a quella messa in atto nel ventennio berlusconiano – per poi magari ottenere - comprando tempo - di più in futuro. Con le elezioni anticipate subito – e questo è il secondo vantaggio dopo quello della “casamatta” - nelle liste i candidati renziani sarebbero falcidiati, ciò che renderebbe il PD più omogeneo a sinistra.

Contrari alle elezioni anticipate subito, sarebbero così i M5S, i renziani, e Forza Italia, se questa decidesse di non diventare un junior partner della nuova coalizione.

 

2 – Elezioni “anticipate posticipate” nel 2020

Il timore che una manovra espansiva del deficit e del debito porti – per le ragioni viste prima - ad una crisi finanziaria e quindi ad una crisi prematura del nuovo governo Lega-FdI, potrebbe agire cambiando lo scenario politico. In caso di crisi, invece di un taglio delle tasse, ecco che salirebbe l'IVA, e via dicendo. Le promesse dei nuovo governo sarebbero “smentite nella culla”. Un governo di transizione, invece, potrebbe fare le manovre necessarie per poi portare alle elezioni nei primi mesi del prossimo anno. A quel punto – salvati i conti – la Lega potrebbe inveire – ormai rischiando poco - contro la burocrazia di Bruxelles, e più in generale contro i “poteri forti”. Potrebbe quindi far passare una riforma fiscale – un taglio delle imposte insieme ad un taglio delle detrazioni – rilevante da un punto di vista simbolico, ma meno dal punto di vista della tenuta dei conti pubblici, perché alla tenuta di questi ha badato il governo di transizione.

Favorevoli alle elezioni “anticipate posticipate”, sarebbero così i M5S, i renziani, e Forza Italia, se questa decidesse di non diventare un junior partner della nuova coalizione. Non si può nemmeno escludere che la Lega - per evitare lo scenario peggiore di una crisi finanziari che ne ammazzi il programma - decida di non ostacolare troppo questo governo di transizione.

 

3 – Elezioni “anticipate posticipate” ma nel lontano futuro

Berlusconi diede le dimissioni nel gennaio del 1995 avendo – così si dice – avuto garanzia dal Presidente che le elezioni si sarebbero tenute al più presto. Dini che, come esponente di rilievo della Banca d'Italia, era il garante come ministro del Tesoro delle politiche di spesa “sobrie” divenne Presidente de Consiglio. Invece di preparare subito le elezioni dopo un anno da quelle appena celebrate, Dini durò fino alle elezioni sempre anticipate ma di due anni, quelle del maggio del 1996. Quando – grazie anche alla defezione della Lega dall'alleanza con Forza Italia – l'Ulivo vinse le elezioni. E se accadesse di nuovo?

Quali sarebbero i vantaggi per gli avversari della Lega-Fd'I. Quello che in finanza è chiamato “momentum”, ossia l'onda favorevole, verrebbe meno per la Lega. E i giochi si riaprirebbero.

Favorevoli alle elezioni “anticipate posticipate nel lontano futuro”, sarebbero così i M5S, i renziani, e Forza Italia, se questa decidesse di non diventare un junior partner della nuova coalizione. Si può, invece, escludere che la Lega decida di non ostacolare questo governo di transizione.

 

3 – Il Partito degli Elettori e quello del Parlamento

Non sappiamo quale probabilità dare a ciascuno dei tre scenari. Possiamo complicare la scelta che si dovrà fare dando delle definizioni di schieramento politico. Allo stato gli schieramenti di fatto sono due. Il “Partito degli Elettori” è quello che vuole andare a vedere il gioco delle elezioni anticipate nel 2019. E questo perché, secondo costoro, la legittimità degli elettori viene prima di tutto. Il “Partito del Parlamento”, invece, è quello che vuole spostare le elezioni nel 2020 ed anche dopo. E questo perché, secondo costoro, è il Parlamento, una volta eletto, ad essere Sovrano. Chiamiamo “populista” il Partito degli Elettori, e “liberale” il Partito del Parlamento. Il Partito degli Elettori etichetta come “casta” i seguaci del Partito del Parlamento, denunciando il desiderio di “mantenere le poltrone”, mentre il Partito del Parlamento non ha ancora trovato un'etichetta che diventi virale per quello degli Elettori.

Il Populismo è una corrente politica favorevole all'autoritarismo, e, non ultimo, al “nativismo”. Il Populismo ha fede nella saggezza (perché sa che cosa si deve fare) e nella virtù (è “ontologicamente” onesta) della gente “ordinaria” (ordinary people, silent majority) in contrapposizione alle classi dirigenti che sono “corrotte”. Si noti che la gente ordinaria è considerata dai Populisti una massa omogenea capace di esprimere un solo punto di vista, talmente ovvio (ossia facile da conoscere senza alcuna ricerca) da essere tosto condiviso. Il punto di vista della massa (“massa”, dal greco massein - fare la pasta, un verbo che indica un qualcosa di informe ed elastico che viene lavorato) si esprime attraverso il leader. Il quale ultimo è una sorta di vortice pneumatico che aspira l'informe volontà del popolo dando direzione agli eventi.

Siamo così agli antipodi della democrazia liberale, fatta di controlli, di contro poteri, insomma di “grigiori”, il cui scopo è inibire l'arrivo dei duci. Il Populismo dunque è l'opposto del liberalismo: a) è il leader che guida il suo popolo contro i governi parlamentari sottoposti a molteplici controlli; b) è una cultura che privilegia il lato nativo su quello cosmopolita. Insomma, è l'opposto di tutto quello che si è faticosamente raggiunto dal Secondo dopoguerra, partendo da due secoli prima.