L'attacco portato con i droni – sembra yemeniti - alla produzione petrolifera saudita ha spinto all'insù il prezzo del petrolio. Un rimbalzo di notevole entità – subito un 20 per cento, un balzo poi planato verso il 10 per cento. Un balzo simile a quello registrato nel 1990, quando partì la prima guerra con l'Iraq, quella di Bush padre. Questo rimbalzo è partito da un livello di 60 dollari al barile, quindi da meno della metà del prezzo che si aveva appena qualche anno fa. Per queste ragioni il rimbalzo potrebbe – in termini economici - non essere molto grave. Di seguito trovate così non un'analisi economica, ma un ragionamento sulle tensioni fra l'Arabia, l'Iran, e gli Stati Uniti.

Qual è la strategia di Washington nel Vicino Oriente? a) Vuole impedire l’ascesa di un egemone regionale. Durante la guerra fredda, ciò si traduceva nell’impedire l’estensione della sfera d’influenza sovietica oltre la Siria, l'Iraq, e l'Egitto. Oggi, la strategia si estrinseca nel mantenere un equilibrio fra gli attori dotati di maggior peso: Arabia Saudita, Iran, Israele, e Turchia. b) Vuole la protezione dei giacimenti di petrolio della provincia orientale saudita a maggioranza sciita. Non perché gli Stati Uniti siano direttamente dipendenti dal petrolio saudita. Da Riyad importano, infatti, solo 10 per cento del fabbisogno, ma perché l’instabilità del maggiore forziere d’oro nero – il più grande giacimento al mondo è in Arabia - invierebbe scosse telluriche in tutto il pianeta. c) Vuole garantire la sicurezza agli alleati sauditi e israeliani. La precarietà di entrambi i paesi li ha resi dipendenti dall’ombrello di protezione statunitense. d) Vuole mantenere i potere sui mari, potere che passa attraverso il controllo degli stretti, da cui transita l’ottanta per cento delle merci scambiate nel mondo. Nel Vicino Oriente ve ne sono tre: Suez (Egitto), Bab al-Mandab (Yemen), e Hormuz (che potrebbe essere messo sotto scacco dall'Iran).

Teheran è percepita come “naturalmente” espansionista. Attenzione gli Stati Uniti rivaleggerebbero con l’Iran anche se la Repubblica Islamica non fosse mai esistita. La grammatica imperiale – studiata per primo da Tucidide - impone alla superpotenza di impedire l’ascesa di un egemone regionale che detti la propria agenda in un consistente spicchio di globo. In una regione di Paesi senza Stato oppure di proprietà private di clan regnanti – con le eccezioni di Turchia e Israele – l’Iran è convinto di possedere la profondità demografica, culturale, storica, istituzionale, e morale per plasmare i destini dei territori già nell’orbita degli imperi persiani. Una risposta non banale al quesito sul perché gli Stati Uniti preferiscano i sauditi (un Paese clanico) agli iraniani (un'antica civiltà) è questa. Un Paese petrolifero – dove è facile centralizzare i proventi della materia prima - può essere aggressivo o conservatore, ossia può usare come non usare i proventi dell'energia fossile per espandersi politicamente all'interno (attuando una rivoluzione), e/o all'esterno (esportando una rivoluzione). Da questo punto punto di vista l'Iran è rivoluzionario sia all'interno sia all'esterno.

Flash tratto da: https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/4986-sotto-l-ombrellone-la-crisi-in-turchia.html