Ai nostalgici della Lira e della spesa pubblica in forte deficit si sono ultimamente aggiunti anche – dal governo, dall’opposizione, e dai sindacati - quelli dell'IRI. C'è una coerenza nella nostalgia che alcuni provano per la Lira, la Spesa, e l'IRI. Le tre erano, infatti, il “pacchetto” caratteristico della Prima Repubblica. Nella prima parte trovate una descrizione della “sovranità”. Nella seconda il racconto della scelta da parte delle forze del governo di mutare il succitato “pacchetto”. Nella terza trovate il racconto della scelta di mutare il “pacchetto” anche da parte delle opposizioni.

Alla nostalgia per il tempo che fu sfugge il passaggio successivo. Se le cose - con la Lira, la spesa pubblica in forte deficit, e l’IRI - fossero andate davvero bene, perché fu deciso di cambiare? La decisione di frenare la spesa pubblica finanziata anche con l'emissione di moneta fu presa agli inizi degli anni Ottanta, la decisione di abbracciare la moneta unica fu presa a metà degli anni Novanta, così come, ancora negli anni Novanta, fu smantellata l'IRI.

Qual era la logica di questa decisione? L'Italia aveva una spesa pubblica fuori controllo, così come delle relazioni industriali “oliate” dalle molte svalutazioni. Non avendo il sistema politico italiano la forza per frenare la spesa e normalizzare le relazioni industriali, si pensò che la soluzione fosse quella di creare un vincolo esterno che agisse nella direzione voluta. Fu così deciso di cedere parte della sovranità per uscire dall'angolo in cui si era finiti. La cessione di sovranità verso l'estero era quindi lo strumento per riacquistare sovranità verso l'interno.

1 — Il mondo della sovranità nazionale

In passato, le infrastrutture - telefonia, acciaio, autostrade, voli arei, finanziamenti a breve e a lungo termine - erano offerte dallo Stato attraverso l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Era il lascito dirigista del Ventennio, o, se si preferisce, della svolta statalista ai tempi della grande crisi degli anni Trenta. Lo stato offriva i “beni base”, ossia quelli che servivano per produrre i “beni finali”.

I Pisani aprivano gli alberghi e le pizzerie per i turisti, che arrivavano con Alitalia o con Autostrade a fotografare la Torre. Altri dirigevano le imprese che usavano l'acciaio dall'Italsider. Altri si finanziavano presso l'IMI. Infine, tutti potevano telefonare grazie alla SIP (in origine Società Idroelettrica Piemontese e qui si apre il capitolo della nazionalizzazione dell'energia elettrica, che ha dato luogo a all'ENEL, il gigante energetico parente dell'altro, l'ENI, nato nel Dopoguerra). Fuori dal campo delle infrastrutture, perché l'IRI si era allargata, i ristoratori pisani potevano pure comprare i pomodori dalla SME ed offrire i cioccolatini e i panettoni sempre della SME (in origine Società Meridionale Elettrica, di nuovo, come il caso della SIP, abbiamo una vicenda legata alla nascita dell'ENEL). Per non dire di Mediobanca, controllata dalle Banche di Interesse Nazionale (BIN), a loro volta controllate dall'IRI da prima della Seconda Guerra, ma autonoma. Il mercato primario – quello dove le imprese si approvvigionano di obbligazioni ed azioni – passava quasi tutto attraverso Mediobanca, che, in questo modo, governava il sistema privato. Mediobanca collocava i titoli presso il pubblico attraverso gli sportelli delle BIN.

Questo era il mondo della “sovranità”. Un mondo molto statalizzato. In questo mondo fu costruito negli anni Sessanta e Settanta lo stato sociale - ossia la sanità, la scuola e le pensioni – con le entrate che erano – a differenza degli altri Paesi che hanno costruito nello stesso periodo lo stato sociale - inferiori alle uscite. Da qui trae origine il gran debito pubblico dell'Italia.

2 — la cessione di sovranità nazionale: le forze al governo

Il debito pubblico italiano fin agli anni Ottanta era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi, negli anni Novanta, il debito pubblico è passato nelle mani delle famiglie. Era di nuovo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti elevati, queste lo sottoscrivevano.

Si aveva così un meccanismo di consenso semplice. La politica governava il deficit e il debito prima attraverso le “sue” banche e poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito sul debito italiano. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. Il Principe non faticava per ricevere il consenso degli elettori, perché il debito crescente si sarebbe poi scaricato sui “non nati”, che notoriamente non votano. (Si può dire la stessa cosa del sistema pensionistico che allora elargiva dei redditi superiori ai versamenti).

Arriva con gli anni Novanta il momento del “mercato” nella doppia direzione degli Italiani che possono investire all'estero, e dell'estero che può investire in Italia. I giudizi di merito si possono finalmente formare: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto - per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco? Il Principe deve ora e a differenza di prima convincere una platea piuttosto vasta che il suo debito è sotto scrivibile. Cambia così la natura del rapporto: nel primo caso il Principe non doveva convincere nessuno intorno alla tenuta del debito, nel secondo, invece, deve farlo.

Chi desidera il ritorno della spesa pubblica in deficit è infastidito dal controllo che l'industria finanziaria esercita attraverso il differenziale di rendimento fra i BTP e i Bund (il famigerato spread) sulle politiche economiche, ed è anche infastidito dall'influenza di Bruxelles sui vincoli di deficit e debito. E accusa i “poteri forti” di essere nemico dell'Italia. Fu però deciso dal potere politico italiano e non dai poteri forti la cessione di sovranità.

Perché mai? Questo il ragionamento. L'Italia ha una base industriale, ma essa è penalizzata dagli alti tassi di interesse. Il livello di questi ultimi dipende dall'inflazione corrente e dall'incertezza intorno a suo corso futuro. L'incertezza richiede un premio (per il rischio) sopra il tasso di inflazione corrente. Il denaro alla fine costa molto più che in altri Paesi e penalizza l'industria italiana, ma anche le famiglie se accendono i mutui, e il Tesoro in sede di pagamento degli interessi. Vincolando il cambio, l'inflazione non può che scendere, e vincolando il bilancio pubblico al solo finanziamento con obbligazioni (ossia senza emissione di moneta), l'inflazione non può che scendere. Se l'inflazione si comprime, i tassi (reali) d'interesse si comprimono, perché scompare il premio per il rischio, l'industria italiana non sarà più penalizzata rispetto ai concorrenti esteri.

3 — la Sinistra diventa “migliorista”

Al ragionamento manca un pezzo tutto fuorché secondario. La decisione di apertura ai mercati e di adozione dell'euro avevano un risvolto politico, perché il meccanismo dell'aggiustamento dei conti e del consenso che si otteneva con le svalutazioni era ora reso impossibile.

I salari in Italia crescevano più della produttività. In diversi momenti nel corso del tempo - ossia man mano che crescevano differenziali di inflazione - le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. C'era una terza opzione. La svalutazione della lira era la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano (seppur temporaneamente) appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”.

All’epoca - negli anni Settanta e Ottanta - la forza prevalente a Sinistra era il Partito Comunista, che raccoglieva un terzo dei volti ed era legato al sindacato maggiore, la CGIL. Pur essendo all’opposizione aveva una notevole influenza sulla governabilità. Si avevano nelle forze prevalenti della Sinistra due scuole i pensiero. Quella del “compatibilismo” e quella del “conflittualismo”.

La prima vedeva la distribuzione del prodotto sociale come il frutto dell’agire degli operatori che apportano ciascuno il proprio fattore (il lavoro, il capitale, la terra). Gli operatori sono sottoposti a dei vincoli di efficienza nell’uso elle risorse e di bilancio nell’uso del debito. Il conflitto sulla distribuzione del reddito è una deviazione dall’equilibrio che potrebbe caratterizzare il buon andamento dell’economia.

Un esempio concreto del mutamento di direzione che la prima scuola di pensiero chiedeva alla Sinistra maggioritaria dell’epoca. Abbiamo il dibattito sulla indicizzazione dei salari all’inflazione (la “scala mobile”). La quale spingeva al rialzo al salario reale, perché gli imprenditori non potevano scaricare sui prezzi tutto l’aumento salariale. Ciò rendeva meno competitive le merci italiane. Si sarebbe così avuto un peggioramento della bilancia commerciale. La minore competitività del sistema avrebbe, infine, portato ad un peggioramento dei livelli occupazionali, soprattutto nelle fasce di lavoro non impiegate nelle imprese protette.

La seconda scuola contesta l’assunto del contributo dei fattori, tutti posti sullo stesso piano e volti a ricercare l’equilibrio secondo la produttività marginale, perché ritiene che la distribuzione del reddito dipenda dal “conflitto di classe”. Come conseguenza si aveva che il livello dei salario non poteva essere unico (come frutto dell’equilibrio fra domanda e offerta dei fattori di produzione) bensì multiplo, dipendendo quest’ultimo dai “rapporti dii forza”.

Abbiamo il famigerato “salario come variabile indipendente”. Quest'ultima è un'espressione degli anni Settanta che evoca l'idea che ci sia una variabile che si autodetermina, disponendo all'equilibrio tutte le altre. Si sostiene che quando non si ha un “surplus” da spartire, il salario è indipendente, perché si deve avere un tenore di vita minimo - un tenore di “sussistenza”. Quando, al contrario, si ha un “surplus” da spartire, ecco che il salario può fluttuare, così come i profitti. Il salario non è più indipendente per ragioni di sussistenza, ma indipendente in quanto figlio dei rapporti di forza.

Una digressione. Quando una società (come quella primitiva) è al livello di sussistenza, è difficile che possano sorgere delle forti ineguaglianze, perché, in questo caso, una parte della popolazione morirebbe di fame. Morendo di fame una parte della popolazione, si avrebbero meno guerrieri a disposizione, e quindi la società con un'ineguaglianza marcata sarebbe fagocitata dai nemici che distribuiscono meglio la poca ricchezza. La sopravvivenza “politica” si ha quindi dividendo in misura circa eguale il poco reddito a disposizione. Dal che si arguisce che l'ineguaglianza sorge e può durare quando si va oltre il reddito di sussistenza, ossia quando si ha un surplus di una qualche consistenza da distribuire. In questo caso, una parte della popolazione – quella povera - comunque sopravvive, mentre una parte – quella ricca - vive molto meglio.

Alla fine nella Sinistra ex comunista e nel sindacato si impose con gli anni Novanta la prima scuola di pensiero. E quindi con gli anni Novanta abbiamo avuto anche l’appoggio della Sinistra maggioritaria all’ingresso nell’Euro-area e al controllo della spesa in deficit.