È sufficiente una giornata lavorativa su Skype per dire che lo smart working si è finalmente affermato sul mercato del lavoro italiano? Volendo lanciare una provocazione, si possono guardare gli effetti positivi del morbo che infuria. Con il coronavirus si è superato un tabù culturale. Non potendo andare in ufficio, si lavora da casa. Lo smart working è una pratica più che diffusa nei mercati altamente tecnologici.

 

In Italia invece si è affermata solo minimamente: in settori precisi, per specifiche professioni e in certe aree del Paese. Si è spesso giustificata questa arretratezza con l’impostazione mentale – culturale appunto – dei datori di lavoro, quanto anche del personale delle imprese. Gerarchie rigide e gesti rutinari portano a fare del capo-ufficio (chiamarlo manager sarebbe troppo moderno) una specie di sergente che passa in rassegna la sua compagnia ad ogni alza bandiera, per poi tenerla a regime mentre la osserva esercitarsi nello scavare inutili trincee, che andranno ricolmate a fine giornata. La truppa, da parte sua, altro non fa che eseguire. Senza tanti perché. Anzi, con un palese piacere di sentirsi indirizzata da un padre-comandante-padrone, che la tiene sì a schiena curva, ma che al tempo stesso la solleva da qualsiasi responsabilità. Da questo quadro da tempi moderni di Chaplin è difficile uscire. Nell’emergenza son bravi tutti a ingegnarsi. Ma la comfort zone che dà i ritmi alla giornata lavorativa è un fluido impossibile da scalfire.

Lo smart working sta funzionando tra Lombardia e Veneto, ovvero in quella sacca di alta produttività dell’impresa italiana dove la rivoluzione digitale sta viaggiando a pieno regime. Attenzione quindi a esagerare con l’ottimismo, pensando che questo successo possa esplodere nel resto del paese.

Certo, se il morbo continuerà a nutrire la psicosi, l’emergenza assumerà i panni della normalità. Tutti resteremo a casa e il mondo del lavoro sarà costretto a radicali e repentini cambiamenti.

Ma è facile supporre una flessione della malattia. Fino a un suo annullamento. In questo caso la vita quotidiana tornerebbe alla normalità. E allora quell’adrenalina data dall’emergenza e dal senso del nuovo si esaurirebbe in brevissimo tempo. Ciascuno tornerebbe alle proprie abitudini: sveglia alle 7,30, autobus alle 8, in ufficio alle 8,30. E via così. Non basta una call su Skype per annullare questo schema che, tra una cosa e l’altra, è vecchio ormai di un secolo. Dall’oggi al domani, al sergente mancherebbe la truppa, tanto quanto il soldato si sentirebbe sprovvisto di ordini da eseguire. Per entrambi gli attori, trovandosi d’improvviso a casa, in pantofole e parlando unicamente col gatto, o peggio da soli, dovrebbe essere introdotta una costosa indennità di solitudine.

Volendo però uscire da queste interpretazioni di spiccia psicologia comportamentale, vanno inquadrate peculiarità del mercato del lavoro italiano in cui lo smart working trova davvero poco spazio di manovra.

L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa. È un sistema produttivo in cui il lavoro manuale è ancora molto diffuso. Prodotti BtoC, macchinari indirizzati alla produzione di oggetti di ogni sorta, tecnologie abilitanti. L’industria italiana è strutturata con regole organizzative, linee produttive, ma soprattutto contratti di categoria che non si possono modificare dall’oggi al domani. Non è un caso che lo smart working funzioni a Milano: città dei servizi, dove è ormai raro imbattersi in una fabbrica, uno stabilimento, un capannone. Bene, questi luoghi fisici appartengono al passato soltanto all’apparenza. E per fortuna, si dovrebbe dire. Perché costituiscono l’ossatura dell’economia reale italiana. Basta percorrere l’autostrada da Milano a Verona, oppure da Bologna ad Ancona, per capire come questo mondo sia ancora così importante nella quotidianità lavorativa del paese.

Ebbene, non è lo smart working che metterà in discussione il modo di fare impresa in Italia. Come si può pensare di lasciar a casa maestranze e operai, quando si hanno ordinativi da portare a termine e scadenze da rispettare? Quando la domanda dall’estero è in crescita, perché il prodotto piace, com’è possibile spegnere luci e macchinari, rinviando tutto a data da destinarsi?

C’è chi sostiene che automazione e robotizzazione potrebbero davvero porre fine a questa grande storia economica. Ma questo è un altro tema. La digitalizzazione delle linee produttive, nell’ottica più estremistica – peraltro neanche così tanto realista – lascerebbe a casa il personale non per farlo lavorare comodamente dal divano, ma per liberarsene del tutto.

Ma anche in questo caso ci sono dei limiti strutturali. Il tessuto imprenditoriale italiano, fatto soprattutto da aziende che occupano meno di quattro dipendenti ciascuna, non permette la realizzazione di scenari ultratecnologici nel breve periodo. Il nanismo d’impresa è un cane che si morde la coda: vorrei crescere, ma non ho risorse da investire in personale qualificato e tecnologia avanzata per possano permettermi di farlo. Le infrastrutture digitali sono a loro volta arretrate. Perso il treno della rivoluzione tecnologica degli anni Novanta, ora si arranca e difficilmente si potrà godere in maniera esaustiva del 5G. Questo è importante, perché senza banda ultra-larga capillare e rapida, con un tempo di reazione prossimo allo zero, non si può né pensare di digitalizzare la fabbrica, né pretendere uno smart working efficiente dal proprio personale.

Che poi, ammesso e non concesso di riuscire a superare l’ostacolo tecnologico, subentrano variabili quali fiducia, immediata disponibilità, tempistiche. Lavorando da casa, quanto è possibile allontanarsi dalla propria postazione? Chi controlla che, nel frattempo, non si stia facendo altro? Come si ovvia alla mancata immediatezza di dialogo che si ha invece vivendo a contatto fisico con il proprio collega nello stesso ufficio? E ancora, non si può certo immaginare che tutto sia fatto su Skype o altre piattaforme aperte. Cybersecurity, data analysis, software implementati a misura delle esigenze di ogni singola professione. Tutto questo rappresenta un vuoto, procedurale, contrattuale e normativo che, nell’emergenza del coronavirus, è più che accettabile. Nella normalità invece, se nessuno – legislatore e parti sociali – se ne prende cura, si rischia di scadere velocemente nel caos.

Infine, se tutto questo potesse essere cancellato con un colpo di spugna, altre ripercussioni sarebbero da affrontare. Quali settori risentirebbero dello smart working in maniera virtuosa, e quali ne pagherebbero le spese? Con le persone che non escono di casa per andare in ufficio (o in fabbrica), il traffico sarebbe meno congestionato e i mezzi pubblici più veloci e vuoti. Questo è un bene. Sia sul piano ambientale quanto dell’efficienza del servizio pubblico. D’altra parte, bar e tavole calde pagherebbero lo scotto dei mancati introiti dalle pause pranzo. Aumenterebbero invece i servizi di food delivery, comparto altrettanto poco disciplinato. Crollerebbero le vendite dell’abbigliamento formale. Invece che giacche, cravatte e tacchi a spillo, si opterebbe sempre più per scelte confortevoli (maglioni e jeans), fino ad arrivare a tute e pigiami. Sono solo alcuni esempi per dire che non basta “poco più di un’influenza” per rivoltare un paese come un calzino.

I tempi sono lunghi, sì. Secondo, il Desi 2019, l’Indice europeo di digitalizzazione dell’economia e della società, l’Italia è 24esima (sui 28 paesi membri dell’Ue prima della Brexit) nel suo percorso di piena digitalizzazione. Tre italiani su dieci non utilizzano internet abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base. Smart working e fabbriche automatizzate fanno ancora parte di un’immaginazione distopica.