La Ricerca è costruita così. Il vincolo intertemporale è il nucleo delle teorie che dicono perché i paesi ricchi finanziano quelli poveri . Esso è nella mente dei più. Da anni, invece, sono i paesi poveri, come quelli asiatici, che finanziano quelli ricchi, come gli Stati Uniti. E questo smentisce la teoria. Dunque o si cambia teoria, o si cambiano i fatti. Cambiamo teoria. La soluzione del mistero segue due passaggi.


Il primo mostra come i paesi sovrani possono avere degli incentivi sia alla morosità sia alle nazionalizzazioni, e questo rende difficile applicare il modello del vincolo intertemporale. Il risultato è un sistema finanziario mondiale che non facilita lo spostamento dei capitali dai paesi ricchi a quelli poveri; alla fine si ha uno sviluppo economico inferiore. Se, invece, i paesi poveri finanziassero il proprio sviluppo, avremmo forse trovato la soluzione. Questo avviene con gli avanzi commerciali dei paesi poveri che diventano crediti verso i paesi ricchi. I quali crediti debbono essere sequestrabili in caso di crisi “vera”. Il collaterale (= i crediti sequestrabili dei paesi poveri) sono la garanzia degli investimenti dei paesi ricchi nei paesi poveri. Il sistema funziona avendo al centro una superpotenza, come gli Stati Uniti.


Dopo tanti anni di onorato servizio questo sistema (in gergo Bretton Woods II) comincia a mostrare delle crepe, perchè i paesi poveri hanno ormai troppi dollari (e poca terra) e cominciano a comprare euro per diversificare. I testi usati sono due: J. Sachs, F. Larrain, Macroeconomia e politica economica. Il Mulino, cap. VI e XXII. D. Folkerts Landau, P. Graber, M. Dooley, The Two Crises of International Macroeconomics, Deutsche Bank. Il lavoro diventa anche di ricerca applicata. Viene affrontato il problema della diversificazione delle riserve cinesi, della crescita strutturale dei prezzi, e del cambio migliore per i paesi petroliferi.

 

 


Parte prima. La massimizzazione delle utilità intertemporali.
 
Abbiamo due famiglie A e B. La prima è ricca, ma con poche prospettive di aumentare la propria ricchezza, poniamo che essa sia composta da dei professionisti ormai anziani. La seconda, invece, è povera, poniamo che sia composta da dei professionisti giovani e brillanti, con elevate prospettive di aumentare la propria ricchezza. Il comportamento razionale dice che A fa credito a B. A allora vive al sotto dei propri mezzi, nel senso che non spende tutto il proprio reddito, in altre parole ha un risparmio positivo. B vive al di sopra del proprio reddito, ha un risparmio negativo, in altre parole si indebita con A. Se la crescita del reddito di B è eguale o superiore al tasso di interesse sui propri debiti, essa sarà sempre in grado di pagare A. Se il tasso di interesse sul prestito è eguale o superiore alla crescita del reddito di A, ad A conviene prestare. (Se è eguale diversifica il rischio). A rinuncia ai consumi, perché lucra un interesse. Quando un giorno B dovrà rendere il debito, dovrà consumare meno per pagarlo. A incasserà il denaro e consumerà di più. Il rapporto fra A e B è quello di aumentare i consumi di B nella prima fase e di A nella seconda. Il rapporto fra A e B, nella prima fase, è quello di dare a B il reddito quando ne ha più bisogno e di toglierlo ad A quando ne ha meno bisogno. Nella seconda, di togliere ad B una parte del reddito quando ormai non ne più ha bisogno e di premiare A per il minor consumo passato. Abbiamo la “massimizzazione delle utilità intertemporali”. Va notato che alla fine sia A che B sono più ricchi di quanto fossero al principio.

Bene, immaginiamo il paese A ed il paese B. Il risparmio di A, il paese ricco, defluisce in B, il paese povero. Il risparmio al livello di un paese è dato dalla differenza fra il reddito nazionale meno i consumi e meno gli investimenti, ossia, contabilmente, è eguale al saldo della bilancia commerciale, che, in questo caso, è positivo. Il paese A, poniamo un paese europeo, presta i propri denari a B, poniamo un paese africano, il quale grazie a questo credito potrà comprare delle macchine di movimento terra e pagare gli ingegneri per costruire una diga. Il paese europeo avrà un credito su cui lucra un interesse. Il paese africano, nella prima fase, ha dei consumi che sommati agli investimenti sono maggiori del reddito nazionale, ossia ha un saldo negativo della bilancia commerciale. Grazie alla diga esso potrà industrializzarsi. La sua crescita deve essere almeno eguale al tasso di interesse sul debito con gli europei. Un giorno esso potrà esportare dei beni verso il paese europeo. Il paese africano un giorno non potrà più consumare internamente tutti i beni prodotti per poter esportare. In futuro avrà quindi una bilancia commerciale positiva. Il paese europeo consumerà più di quanto produce. Esso pagherà i beni africani con i crediti che intanto ha cumulato. Gli africani estingueranno il debito coi beni prodotti. Anche qui abbiamo la “massimizzazione delle utilità intertemporali”. Va notato, di nuovo, che alla fine sia A che B sono più ricchi di quanto fossero al principio.

L’esempio spiega perché chi è intanto ricco (A ed il paese europeo) ha interesse a prestare denari a chi intanto è povero (B ed il paese africano). Alla fine il povero, grazie ai prestiti, sarà diventato più ricco, ed il ricco riceverà un reddito almeno eguale a quello che avrebbe avuto, se non avesse mai aiutato il povero. Questo è un gioco a “somma positiva”, ossia una interazione dove tutti guadagnano. Happy End.

Parte seconda. Complicazioni in presenza di stati sovrani.

Adesso complichiamo il ragionamento. A deve sapere che B non “scappa col malloppo”. Ma non può saperlo. Infatti A lascia i propri risparmi in banca. La quale banca presta i risparmi delle famiglie del tipo A alle famiglie del tipo B. Se le famiglie del tipo B in maggioranza sono oneste, basta aumentare di poco il tasso sui prestiti per coprire le perdite dovute ai morosi, che il meccanismo funziona. La banca intermedia i risparmi e quindi riduce il rischio di A, mentre aiuta i B a non avere dei tassi proibitivi a causa dei disonesti. La banca ha un qualche collaterale a garanzia dei prestiti ai B, come la possibilità di rivalersi sul loro reddito, sul loro patrimonio. Se, alla fine, tutte queste garanzie non funzionassero, il patrimonio della banca coprirebbe comunque le differenze. Le famiglie del tipo A sono protette. La protezione incentiva i risparmi.

Immaginiamo ora uno stato sovrano che “scappa col malloppo”. Esso un giorno si dichiara insolvente. Fosse un privato, andrebbe in tribunale ed i suoi beni verrebbero sequestrati. Ma è uno stato sovrano. Una prima possibilità consiste nel punirlo non comprando le sue merci, ma, in questo caso, i crediti sono perduti. La punizione, inoltre, funziona solo se tutti i paesi decidono di non comprare le sue merci, il che accade di rado. Questo oggi potrebbe essere il caso dell’Iran, che potrebbe, in caso di sanzioni statunitensi, venir aiutato dalla Cina e dalla Russia. Una seconda possibilità è quella di minacciare dei tassi proibitivi la volta successiva che il paese moroso chiedesse dei prestiti. Ma non è detto che funzioni. Con dei tassi proibitivi il paese, già insolvente, ridiverrebbe insolvente, ed anche in fretta, una seconda volta. Non vi sono vie di uscita. Una terza possibilità potrebbe allora essere quella di “mandare le cannoniere”. Sotto minaccia militare verrebbero varate delle politiche in grado di ripagare il debito. Questa opzione non più attuabile, da quando vi sono delle super potenze desiderose di rompere il fronte dei paesi poveri. Il caso della spedizione degli inglesi e dei francesi in Egitto nel 1956, dopo la nazionalizzazione del Canale, da notare non il ripudio del debito estero, mostra il punto. Sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica, desiderose di entrare in Medio Oriente, aiutarono la strategia di Nasser e gli europei si ritirarono.

Se uno stato sovrano può “scappare col malloppo”, allora il commercio internazionale si svilupperà poco. L’economia mondiale crescerà meno, perché i capitali a disposizione dei paesi poveri saranno molto modesti. Prima avevamo fatto l’esempio della diga. La diga era costruita dal paese povero, che comprava i macchinari e pagava gli ingegneri. Il paese povero era il proprietario della diga. Diverso è il caso se si tratta di impianti con tecnologie sofisticate da costruire, che sono di proprietà straniera, che il governo può nazionalizzare.

Il sistema finanziario mondiale ha a che fare quindi sia con i “morosi” potenziali sia con i “nazionalizzatori” potenziali.

Parte terza. Mutua Distruzione Assicurata.

Qui le anime belle soffriranno. Siamo arrivati alla Cina. Impianti sofisticati di proprietà straniera che restano in un paese che non si può minacciare tanto facilmente e tanto meno dove si possono mandare un giorno le cannoniere. Una equazione di difficile soluzione. Ma la storia, non singoli uomini geniali, è sempre fantasiosa, ed ha inventato la soluzione.

Dal 1991 al 2006 in Cina gli investimenti fissi diretti, ossia investimenti in capitale fisico fatti dai non cinesi, sono stati pari a 703 miliardi di dollari. Questo a valore di libro. Nel periodo questi investimenti sono cresciuti di valore. Accrescendo il valore del 10% l’anno, quelli fatti nel 1991 del 10% per 25 anni, quelli fatti nel 1992 del 10% per 24 anni, ecc, si arriva ad un valore di mercato di quasi 1.300 miliardi di dollari. Se i cinesi, un giorno, sequestrassero gli impianti, sarebbe un terremoto. Ma i cinesi hanno nello stesso periodo comprato titoli di stato ed obbligazioni statunitensi per un valore simile, al 2006 quasi 1.100 miliardi di dollari. Ecco il collaterale contro le nazionalizzazioni.

Tu mi nazionalizzi i miei impianti io ti sequestro i tuoi BOT ! Tu non fai niente, io non faccio niente. Se provi a rovinarmi, ti rovino. Senza questo sistema di Mutua Distruzione Assicurata, 1 trilione di dollari di impianti non sarebbero mai stati messi in funzione in un paese ex comunista ancora a partito unico, con un esercito robusto. La Cina non sarebbe mai decollata, avrebbe avuto una industria inefficiente. I cinesi hanno dovuto generare il collaterale (i titoli americani in loro possesso) che garantisce gli investimenti.

Chi decide il sequestro dei beni cinesi, in caso di crisi, sono gli Stati Uniti. I giapponesi (e tutti quanti gli altri che hanno investito in Cina) di fatto contano sugli Stati Uniti per la preservazione dei loro diritti di proprietà.

Il “International Emergency Economic Power Act” del 1977 (IEEPA, che sostituisce il “Trading with the Enemy Act del 1917), concede facoltà al Presidente degli Stati Uniti di congelare le attività estere sotto il controllo degli Stati Uniti, quando il Presidente vedesse un rischio alla sicurezza nazionale, alla politica estera, all’economia. Il rischio è definito come straordinario ed inusuale. In passato gli Stati Uniti hanno sequestrato i beni dei paesi nemici, durante la seconda guerra, piuttosto che dei cubani, dei rodesiani, ecc poi. Insomma è una facoltà che ha dei trascorsi.

In questo senso preciso il dollaro è la moneta di riserva mondiale, perché è la moneta che può difendere i diritti di proprietà, avendo dato mostra di saperlo fare. Inoltre è un paese non minacciabile militarmente. L’euro non ha alle spalle queste condizioni. Esso è come un franco svizzero in scala gigantesca. Il dollaro è una moneta dietro la quale si nasconde la difesa dei diritti di proprietà, con tanto di tribunali e flotta. Uno compra i dollari per alimentare la certezza del diritto, verrebbe da dire. I paesi in via di sviluppo per evitare lo scoglio della morosità e del sequestro hanno dovuto comprare attività in dollari, altrimenti non avrebbero mai ricevuto gli investimenti in questa scala. Hanno comprato i dollari perché era la condizione del loro sviluppo. Adesso ne hanno troppi, ma questa è un’altra storia.
 
Le crepe. Crepa 1. Il bilancio della banca centrale cinese.

Si parla sempre più frequentemente della rivalutazione della moneta cinese. Le ragioni a favore di un yuan forte sembrano molto sensate, per cui non si capisce che cosa freni i cinesi dall’agire. E’ infatti ovvio che, se abbiamo un’economia che esporta molto (la Cina) ed una che importa molto (gli Stati Uniti), la moneta della prima debba finire per rivalutarsi, per poter avere un equilibrio. Rivalutandosi la moneta dell’esportatore, questo finirà col vendere meno, deprezzandosi la moneta dell’importatore questo venderà di più. La Cina poi, grazie alla moneta forte, pagherà pure meno le materie prime sia energetiche sia alimentari, e quindi potrà fermare l’inflazione, che sta salendo, essa era del 2% a gennaio è del 6% oggi. Questo modo di vedere ha implicita un’idea tradizionale dell’economia, ed è forse per questo, le idee sedimentate persistono, che le cose paiono tanto ovvie. Secondo questo modo di vedere le economie sono largamente industriali, la proprietà è a base nazionale, e si producono dei beni che sono sostituibili. Le cose sono molto più complicate e questo contribuisce a spiegare la riluttanza cinese e lo scetticismo di molti occidentali. Manca nel ragionamento appena esposto nientemeno che la globalizzazione.

Vediamo come gira un ragionamento che provi ad includerla. I cinesi esportano dei beni manufatti di media e bassa tecnologia, costruiti in Cina soprattutto da imprese estere. Due terzi delle loro esportazioni non possono quindi venir definite “cinesi”. Il contributo cinese è quello di assemblare la tecnologia altrui, grazie alla manodopera poco costosa ed alla grande disciplina. Se, per fare un esempio, i cinesi esportano dei prodotti come le scarpe da ginnastica ed importano dagli Stati Uniti turbine, il cambio del yuan di per sé non può far molto, anche se si rivaluta, poniamo, del 20%. Le scarpe da ginnastica potrebbero infatti essere prodotte in altri paesi ancora più competitivi sui costi, poniamo il Vietnam, mentre i cinesi non importerebbero un maggior numero di turbine, soltanto perché il cambio forte le fa costare di meno. Se gli americani producessero ancora scarpe da ginnastica a costi competitivi ed i vietnamiti fossero ancora prigionieri della loro economia socialista, allora il meccanismo del cambio potrebbe funzionare. La Cina non venderebbe più le scarpe agli americani, che comprerebbero quelle fatte da loro stessi, mettiamo nel Michigan.

Le cose sono complicate sul fronte dell’economia reale, come lo sono su quello finanziario. In tutti questi anni i cinesi hanno esportato (incassato dollari) molto più di quanto abbiano importato (domandato dollari). La differenza sono i dollari in eccesso. Per evitare che questi dollari facessero salire il cambio del yuan, la banca centrale cinese li ha comprati dai cinesi, offrendo loro in cambio yuan. Più precisamente, per evitare che crescesse la massa di yuan in circolazione, ha venduto loro in cambio delle obbligazioni in yuan, che danno diritto ad un interesse. La banca centrale ha poi investito questi dollari, comprando una gran quantità di obbligazioni statunitensi. Dunque la banca centrale cinese ha debiti in yuan e crediti in dollari. Se il yuan si rivalutasse molto, la banca centrale, che con le cedole incassate dai titoli americani paga le obbligazioni vendute ai cinesi, si troverebbe in difficoltà. Le cedole in dollari varrebbero infatti meno in yuan, che è moneta che la impegna come debitore.

Se i cinesi smettono di sostenere il cambio e fanno salire il yuan, rischiano di perdere delle quote di mercato a favore di altri paesi emergenti, ma possono sempre consolarsi, pensando che hanno finalmente messo un freno all’inflazione. Essi hanno però emesso molte obbligazioni per drenare i dollari e debbono quindi pagare gli interessi. Se rivalutano, le cedole che incassano negli Stati Uniti varranno meno in yuan. Dovranno allora emettere altre obbligazioni per coprire la differenza. In questo modo però alzano gli oneri debitori nel futuro. In alternativa, possono creare moneta, ma allora sarebbero daccapo con l’inflazione.

Se, presi da sconforto, decidono di non far niente e continuano ad accumulare crediti in dollari e debiti in yuan, si troveranno domani nella stessa situazione di oggi. La vicenda si vede bene che è complessa e che non ci sono delle soluzioni facili. La rivalutazione del yuan sarebbe la soluzione se il mondo fosse ancora quello delle vecchie economie industriali dei paesi occidentali con i paesi socialisti completamente chiusi agli scambi. Non solo, se il mondo fosse ancora quello in cui i paesi ricchi sono i creditori. Oggi i paesi ricchi sono diventati i debitori. La globalizzazione ha cambiato tutto.
 
Le crepe. Crepa 2. La scarsità di terra

Il tasso d’inflazione è flesso molto negli ultimi decenni, passando, nei paesi industrializzati ed in quelli asiatici di nuova industrializzazione, da una media del 10% ad una del 2%. Anche in America Latina e nei paesi dell’Est Europa abbiamo avuto una forte discesa, da una media del 40% ad una del 10%. L’inflazione aveva quindi smesso di troneggiare nelle discussioni economiche e politiche. Rimaneva in vita solo la discussione a livello scientifico, che cercava di capire le ragioni di tanta flessione. Da qualche tempo, invece, è tornata sulle prime pagine. Il governatore della banca centrale cinese ne ha parlato, come se ne discute alla Banca Centrale Europea ed alla Federal Reserve. Torna nel dibattito economico e politico italiano.

Che cosa sta accadendo? L’inflazione si muove a seconda di come variano i prezzi delle sue componenti, ossia quella dei beni industriali, quella dei servizi, e quella delle materie prime agricole ed energetiche. I prezzi dei primi non crescono, i prezzi dei secondi crescono intorno al 3%, i prezzi delle terze sono, invece, da qualche anno, esplosi.

La rivoluzione tecnologica insieme alla caduta di quasi tutte le economie socialiste, restano in piedi solo la Corea del Nord e Cuba, sono la causa del mutamento della dinamica dei pezzi dei beni industriali. La prima è all’origine dello shock di produttività, la seconda è all’origine dello shock salariale. Con l’arrivo sul mercato del lavoro di oltre un miliardo di persone con salari bassi non si è potuto che avere un impatto molto favorevole sui costi di produzione. La combinazione di nuove tecnologie e di salari bassi ha, infatti, permesso una crescita enorme senza inflazione. Questa tesi non è difficile da provare, basta ricordare il prezzo di un lettore DVD di qualche tempo fa o di una maglietta e confrontarli con quelli di oggi. Volendo cercare delle prove meno semplici, si possono, come fa il Fondo Monetario Internazionale, disporre i settori a seconda dell’apertura agli scambi internazionali e a seconda della crescita dei prezzi. Si vede che dove si è registrata la massima compressione della dinamica dei prezzi si hanno i settori aperti agli scambi internazionali a bassa tecnologia, come il tessile, e quelli aperti agli scambi internazionali ma ad alta tecnologia, come le telecomunicazioni. Se un lettore DVD fatto in Cina costa molto poco e funziona bene, allora lo compro. Se il taglio dei capelli o una pizza con birra costano molto meno in Cina, non prendo certo l’aereo per andarci. Il settore dei servizi per sua natura non può essere globale ed ha di conseguenza una dinamica inflazionistica maggiore di quello dei beni industriali. L’inflazione di cui si parla oggi, quella che desta sorpresa, è quella che ha a che fare col prezzo delle materie prime energetiche ed agricole.

Sulle prime si sta consolidando il sospetto che sia in corso uno shock di offerta. Questo sospetto ruota intorno all’osservazione che l’offerta continua, nonostante i prezzi molto alti, ad essere abbastanza rigida. C’è, o si sospetta che ci sia, un qualche vincolo nella capacità di estrarre petrolio che impedisce all’offerta di adeguarsi alla maggior domanda. Grandi scoperte negli ultimi anni non se ne sono fatte, mentre molti dei maggiori campi petroliferi sembrano essere diventati molto meno ricchi. In breve, il prezzo del petrolio molto probabilmente resterà alto. Il mercato, come si evince dai contratti a termine, stima che debba stare nei prossimi anni intorno agli 85 dollari per barile.

Il prezzo delle materie prime agricole sale, mettendo in grossa difficoltà i paesi in cui la spesa alimentare è una parte cospicua della spesa famigliare, come avviene in Russia, Cina, Egitto, Giordania, Bangladesh, e Marocco. Ma inizia a salire anche nei paesi avanzati, come gli Stati Uniti e l’Italia, dove la spesa alimentare è una quota modesta della spesa delle famiglie. Si possono fare molte ipotesi sulla crescita dei prezzi delle materie prime alimentari, incluse quelle legate all’utilizzo di una parte dei terreni per produrre materie prime di origine agricola ma ad uso energetico. Delle ipotesi una sembra particolarmente intrigante, anche perché in questo caso la spiegazione è solo strutturale, ossia non legata a fenomeni contingenti. In sintesi, la scarsità di terra è particolarmente acuta nei paesi che registrano la crescita più veloce dei consumi. Per esempio, la terra arabile pro capite in Cina e India è, rispettivamente, il 18% ed il 26% di quella degli Stati Uniti. Il degrado ambientale, inoltre, sta ulteriormente riducendo la terra arabile a disposizione; l’erosione del suolo, che dipende dall’uso intensivo di fertilizzanti, è un fenomeno che sembra essere esteso a 2/3 dei terreni agricoli cinesi. Questo limita la produzione futura di beni agricoli. Dobbiamo fare i conti anche con la scarsità d’acqua. In Cina l’acqua a disposizione per abitante è pari al 25% della media mondiale. Inoltre, una parte cospicua, pari sembra al 44% dei fiumi cinesi, è inquinata. Infine, la domanda d’acqua cresce drammaticamente quando aumenta il consumo di carne, quindi quando aumentano gli allevamenti.

La globalizzazione ha abbattuto i prezzi dei beni industriali, e non ha sfiorato i prezzi dei servizi. Nello stesso tempo, la globalizzazione ha permesso una forte crescita del tenore di vita dei paesi emergenti. Il maggior benessere di questi paesi si scontra con la scarsità del fattore terra. Dietro l’inflazione di cui si è ripreso a parlare sembrano esserci questi fenomeni.

 Le crepe. Crepa 3. I paesi petroliferi ed il cambio del dollaro

Molti paesi asiatici mantengono fisso o semifisso il proprio cambio col dollaro (il “peg” industriale). Molti paesi petroliferi mantengono fisso o semifisso il proprio cambio col dollaro (il “peg” petrolifero). Negli ultimi tempi i paesi esportatori di petrolio, che fanno parte dell’OPEC, stanno dibattendo, se sganciare o meno, se in tutto o in parte, le proprie monete dal dollaro.

In media, col barile a 40 dollari, i paesi petroliferi sono in grado di importare tutto quello che consumano. Se, come sta accadendo, il barile arriva a 90 e passa dollari, questi paesi cominciano ad avere un surplus commerciale (ossia un valore delle esportazioni superiore al valore delle importazioni) molto consistente. Il prezzo corrente è ben superiore ai 90 dollari, la previsione del mercato, che si ricava osservando i contratti a termine, è, per i prossimi anni, intorno agli 85 dollari al barile. Col barile intorno ai 90 dollari i paesi petroliferi hanno due opzioni. A) possono importare di più, fino ad annullare il surplus. Possono, in alternativa, B) mantenere le importazioni costanti. Nel primo caso, i dollari con cui i paesi petroliferi incassano i proventi vengono ceduti per comprare merci. Nel secondo, i dollari vengono usati per comprare delle attività finanziarie. Nel primo caso i paesi petroliferi aumentano i propri consumi, mentre nel secondo accumulano una ricchezza finanziaria, sotto forma di azioni e di obbligazioni dei paesi importatori di petrolio.

Nel passato i paesi petroliferi prima di mettersi ad importare di più aspettavano. Volevano prima vedere se il prezzo del petrolio sarebbe rimasto elevato e stabile. Se, dopo essere salito molto, fosse pure sceso molto, il valore delle loro esportazioni sarebbe caduto e quindi la crescita delle importazioni non avrebbe più trovato la fonte di finanziamento (“corrente”, perché per dei periodi avrebbero potuto usare le riserve valutarie). Stavolta sembra che si siano convinti, come il mercato, che il prezzo del petrolio non scenderà, come è avvenuto nel passato, da un picco a poche decine di dollari in un tempo limitato.

I paesi petroliferi hanno oggi il problema molto pratico di valutare se il valore delle loro esportazioni, che è incassato in dollari, scenderà ancora per effetto della debolezza della moneta statunitense. Il reddito petrolifero in dollari non va messo in rapporto alla moneta dei paesi petroliferi. La loro moneta è ancorata al dollaro, e quindi è indifferente al cambio della moneta statunitense. Nel caso dell’Arabia Saudita il cambio è fissato a 3,75 riyal per un dollaro. Qualunque sia la quantità di dollari domandata o offerta, le banche saudite daranno 3,75 riyal per un dollaro. Il reddito in dollari dei paesi petroliferi va messo in rapporto a quante merci in euro possono comprare. Esso va anche messo in rapporto con quanto gli immigrati, che sono la quasi totalità dei lavoratori manuali dei paesi petroliferi, rimettono alle famiglie rimaste nel paese d’origine. Quanto saranno disposti a guadagnare nelle monete locali, che sono ancora legate al dollaro, se, supponiamo che gli immigrati siano tutti indiani, la rupia si rivaluta verso il dollaro?

Il problema è quindi legato al costo delle importazioni ed al costo del lavoro, sempre che il dollaro continui a deprezzarsi. Se decidessero di rivalutare verso il dollaro, per esempio fissassero un cambio 3 riyal per un dollaro, avrebbero più dollari per ogni ryial. Segue che, sempre che il cambio fra il dollaro e l’euro non variasse più, avrebbero più euro per ogni riyal. Venderebbero i ryial ad un cambio per loro più favorevole e quindi le importazioni in euro costerebbero meno e gli indiani manderebbero molte più rupie ai loro parenti.

Se è tutto così semplice, allora perché non rivalutano? Supponiamo che da qui in avanti il dollaro incominci a rivalutarsi verso l’euro. I paesi petroliferi, che hanno negli ultimi anni incassato i proventi petroliferi in una moneta che si deprezzava, rischierebbero di passare ad una moneta che comincia a deprezzarsi. Hanno perso prima e rischiano di perdere poi. Due volte pare troppo. Non è per nulla detto che il dollaro cominci subito ad apprezzarsi, potrebbe benissimo andare oltre i 1,5 per euro, per effetto della diversificazione, vera o presunta, delle riserve dei paesi emergenti, prima di fermarsi. Ma poi? Cambiare ora la moneta di riferimento sarebbe come fare una scommessa sulla debolezza perpetua della moneta statunitense. Di “perpetuo” in economia non si trova nulla. Infatti, se la caduta continuasse, diverrebbe alla lunga così attraente comperare azioni o immobili negli Stati Uniti che i capitali si rigirerebbero verso il dollaro.

I paesi petroliferi hanno fatto da molti decenni una scommessa, ancorandosi al dollaro. La scommessa era che il cambio del dollaro sarebbe rimasto stabile o che si sarebbe rivalutato verso le monete dei paesi dai quali quelli petroliferi importano beni e manodopera. Gli Stati Uniti dagli anni settanta, da quando il dollaro è stato reso indipendente dall’oro, non hanno mai detto che avrebbero seguito in maniera sistematica delle politiche di stabilità del cambio. L’ancoraggio al dollaro è quindi una scelta dei paesi petroliferi. Le loro riserve di petrolio sono valutate in dollari, i proventi petroliferi sono in dollari, le riserve delle banche centrali sono quasi tutte in dollari. Una parte della ricchezza finanziaria privata è in dollari. Infine, questi paesi sono sotto la protezione militare statunitense, come si è visto ai tempi della prima guerra irachena. Era, va detto, molto difficile prevedere che un giorno i paesi emergenti avrebbero avuto troppi dollari nelle loro riserve e che sarebbe nata un’alternativa alla moneta statunitense, come la moneta comune europea.

Una scelta secca a favore dell’euro sembra, per le ragioni dette prima, azzardata. Una scelta a metà, un cambio ancorato ad una combinazione di dollari ed euro potrebbe essere più semplice da spiegare. Il Kuwait e la Russia la seguono da tempo. Uno potrebbe anche sospettare una terza soluzione. Restare ancorati al dollaro, facendo diventare la minaccia del distacco dalla moneta statunitense una figura della retorica politica. Dichiarare, come fanno Ahmadinejad e Chavez, che non vogliono la moneta imperiale, e vedere come va a finire nel cambio fra il dollaro e l‘euro. I sauditi che hanno molte più riserve petrolifere e finanziarie, prudentemente, fanno i pompieri.