Attaccare l’Ucraina, conquistare la Crimea e ricattare l’Occidente con l’arma degli idrocarburi. In estrema sintesi, lo schema di azione della Russia, adottato in questi ultimi mesi, è molto semplice. Altrettanto appaiono obiettivo, spiegazioni psicologiche e ragioni politiche di queste mosse. Secondo una ciclicità che non è ancora calcolabile, Mosca mostra periodicamente i muscoli ai propri rivali. In Ucraina e nel Caucaso.

Le due aree di intervento sono sempre le stesse. Mosso da un insaziabile desiderio di fare giustizia della disgregata Unione sovietica, Putin digrigna i denti contro i satelliti perduti dell’impero. Alle volte questi, tremando, crollano psicologicamente. Come nel caso della Georgia nel 2008, che ha dovuto cedere sull’Ossezia del Sud e sull’Abkazia, in nemmeno dieci giorni di guerra. In altri casi la partita si fa più lunga del previsto.

I fatti di Kiev, della Crimea e di tutta l’Ucraina in questi mesi possono essere visti come il secondo o il terzo atto di un dramma iniziato già con la rivoluzione arancione dieci anni fa. Ed è difficile immaginare che al Cremlino si sia soddisfatti per come l’Ucraina – terra russa irredenta secondo alcuni – stia dando tanto filo da torcere alla grande madre. Insomma, Kiev avrebbe dovuto chinare il capo da tempo. Come fece Tiblisi appunto. Invece no. Non è questo il momento per disquisire sulle capacità strategico-militari dei russi. Se in oltre sei mesi di guerra non si è andati più in là Lugansk, Donetsk e altre città di confine, pur disponendo peraltro di un’armata ribelle operativa già in territorio ucraino, forse al Cremlino dovrebbero chiedersi se davvero l’orso russo sia capace di realizzare piani di invasione, invece che, come ai tempi di Napoleone e dell’Operazione Barbarossa, attendere che l’invasore arrivi per poi sbranarlo. Il problema per Mosca è che al mondo non c’è più nessuno tanto imprudente da tentare un’invasione del paese.

A parte questo, si diceva che la linea comportamentale russa è sempre la medesima. Perché sono gli obiettivi a essere sempre gli stessi. Dal 1991 in poi, qualsiasi leader russo – che poi sono stati tre: Yeltsin, Putin e Medvedev; o due se si considera il terzo come intermezzo del secondo – si era ripromesso di far tornare a far splendere la Santa Madre Russia. Ci sono riusciti? No. Quanto è stato fatto si è limitato a trasformare un regime totalitario in decadenza e disgregazione, l’Urss, in un ibrido tra autoritarismo e capitalismo1.

Al Cremlino, in particolare con Putin, si è radicata la convinzione che la Russia debba tornare a essere grande – ma soprattutto deve confrontarsi alla pari con veri giganti globali quali Cina e Stati Uniti – irrobustendosi unicamente su due fronti: il regime di polizia, per il controllo del consenso interno, e la produzione di idrocarburi, per il controllo del mercato internazionale. La strategia può avere un senso solo se non compaiono due eccezioni. Cioè che lo scacchiere internazionale in qualche maniera subisca delle trasformazioni e che sul mercato degli idrocarburi la Russia assuma davvero una posizione rilevante.

Questo significa che il paese indossi gli abiti del “petrostato”, la cui economia è impostata quasi esclusivamente sulla produzione di gas e petrolio – più il secondo che il primo – e che le rendite statali e della popolazione siano solidamente legate a questa. Più chiaramente: che gli idrocarburi si sostituiscano in parte o in tutto al sistema di tassazione nazionale, al punto che lo stesso Welfare sia originato dalle rendite petrolifere. In questo modo, un petrostato che si rispetti – Arabia Saudita e i vari emirati del Golfo – non soltanto non ha problemi di cassa, ma nemmeno di ordine interno. Il consenso è garantito da un’opinione pubblica benestante, mentre la ricchezza è assicurata dai pozzi che continuano a pompare olio e gas.

Al netto delle cifre di settore, che vedremo in un prossimo approfondimento, il fatto che la Russia sia un petrostato è tutto da dimostrare. Il tenore di vita del russo medio è ben lontano da quello degli arabi del Golfo. Il reddito pro capite è intorno ai 18mila dollari annui. Troppo pochi per poter parlare di ricchezza diffusa e generalizzata. Anzi, l’11% dei 140 milioni di cittadini russi vive sotto la soglia di povertà. Il paese poi è al dodicesimo posto nella classifica mondiale delle nazioni più colpite dall’Aids, uno ogni quattro cittadini è obeso, le spese per la sanità sono pari al 6,2% del pil (103esima posizione), quelle per l’educazione scendono al 4,1% (110cima su scala mondiale). Questo significa che Mosca destina tutto all’Armata russa. Senza però ottenerne un ragionevole tornaconto. Insomma, l’Eldorado è un’altra cosa.

E lo sono anche i petrostati, dove la popolazione locale vive ottimamente grazie anche a una manovalanza quasi tutta straniera. Gli operai nell’opulenza degli emirati sono spesso immigrati pakistani o filippini, trattati a una maniera semischiavistica. Oggi chi, se non per ragioni squisitamente personali, si trasferirebbe in Russia?

Facendo però finta che la Russia sia un petrostato sui generis e che Putin il suo emiro, merita tornare alle due eccezioni poco fa elencate: stabilità geopolitica, leadership di mercato. Condicio sine qua non, entrambe, perché la Russia torni grande solo grazie al regime di polizia – lasciamo perdere le questioni corruzione interna e mafia – e agli idrocarburi. Ebbene né a livello di politica internazionale né sul fronte degli idrocarburi la Russia può dichiararsi estranea alle crisi attualmente in corso.

Il paradosso è che è proprio Putin a sparigliare le carte e quindi a mettere in discussione uno status quo in cui potrebbe vivere senza problemi. La sua ansia revanscista, la condizione di nostalgico, la saudade per un’Unione sovietica che fu impediscono al Cremlino di essere il palazzo dell’emiro. Già questo fa crollare una colonna importante che è propria dei petrostati, ovvero la ieraticità del sovrano di fronte a qualsiasi cosa succeda nel mondo. Da quanto tempo infatti un sovrano saudita non prende una posizione (operativa) dinnanzi a una crisi internazionale? L’ultima volta c’è voluto Saddam Hussein che invadeva il Kuwait. Correva l’anno 1991. E lì Riyadh giocava praticamente in casa. Putin potrebbe prendere esempio dai cinesi, la cui imperturbabilità è proverbiale. E utile.

Mosca al contrario insiste a fare quello che chiamano il “Chicken game”, per gli appassionati italiani si tratta del “gioco del coniglio”. L’esempio più comprensibile si trova nella scena di Gioventù bruciata, in cui Jim e Buzz fanno una corsa automobilistica lanciando simultaneamente le auto verso un dirupo. Se entrambi sterzano prima di arrivarvi, faranno una magra figura con i pari; se uno sterza e l’altro continua per un tratto di strada maggiore, il primo farà la figura del coniglio, mentre il secondo guadagnerà il rispetto dei pari. Se entrambi continuano sulla strada, moriranno.

Al momento sia Putin sia Obama – facciamo finta che il presidente Usa rappresenti la politica occidentale nella sua interezza – sono ancora entrambi al volante delle proprie vetture. Ognuno nutre la consapevolezza di rischiare il tutto per tutto. Ma è ancora troppo presto per poter sterzare.

D’altra parte le conseguenze sono già tangibili. Almeno sul fronte russo. L’ex ministro delle finanze russo, Alexei Kudrin, ha calcolato una perdita di circa 200 miliardi di dollari, nei prossimi tre anni, per l’economia nazionale a seguito delle sanzioni su gas e petrolio. E non si tratta unicamente di produttività bloccata, ma anche di un sistema industriale poco in linea con le scelte del Cremlino e al quale sta cominciando a chiedere i risarcimenti. La Rosneft ha appena presentato un conto di 42 miliardi di dollari come costo delle sanzioni che ha subito. Questo è il secondo elemento di obiezione alle pretese di Putin che realizzare ambizioni fattibili sì, ma con i mezzi al momento usati. In realtà bisognerebbe chiedersi se gli obiettivi, geopolitici ed economici, siano quelli giusti. Ma è altrettanto legittimo chiedersi se la Russia potrà mai fare come i paesi del Golfo, ovvero escludersi da qualunque affaire per salvaguardare i gioielli di famiglia. Ammesso che di gioielli si tratti. (Continua -2)

1 Il modello, non solo made in Russia, è diventato oggetto di un recente dibattito: http://www.ilfoglio.it/articoli/v/119915/rubriche/la-democrazia-liberale-e-il-suo-nuovo-nemico-il-capitalismo-autoritario.htm