Vox americana / L'ingegneria del linguaggio come arma strategica dopo l'Undici settembre

di Anthony Marasco

 

Dopo i fatti dell’Undici settembre 2001, l’amministrazione di George W. Bush si è trovata nella necessità di dover comunicare alla nazione e al mondo una serie di nozioni astratte determinate dal bisogno urgente di mettere in cantiere politiche anti-terroristiche concrete ed efficaci. Ed ecco apparire nell’uso corrente termini assai poco comuni quali "guerra al terrore", "azione preventiva", "alleanze a geometria variabile", eccetera. Siamo entrati in una nuova era – queste parole paiono dirci –, dobbiamo iniziare a pensare in modo diverso. Ma è così?

Quanto segue è una schedatura critica di questi nuovi termini al loro apparire. Lo scopo che si prefigge è di confrontare le nuove parole con le vecchie per verificare se per caso dietro ai nuovi termini non vi sia il progetto di vendere come nuove idee politiche altrimenti già viste e della cui efficacia fa fede la storia.   

Footprint


Incontrando i giornalisti il 27 aprile scorso, il generale Tommy Franks parlò di footprint per riferirsi alla presenza militare americana nel mondo. "Since the regime in Iraq is gone", affermò Franks, "there will likely be a rearrangement of the footprint" (International Herald Tribune, 28 aprile 2003, 1). Con il mutare della situazione, dunque, muterebbe il footprint, ossia la traccia sul terreno lasciata dall'intero dispiegamento militare americano nel mondo. A questo riassetto globale contribuirebbero tra l'altro il ridispiegamento a est delle truppe di stanza in Germania, il riassetto del contingente dispiegato in Arabia Saudita e l'arretramento delle truppe schierate ai confini della Corea del Nord. In questo contesto geopolitico in mutazione, l'uso della metafora del footprint ("traccia sul terreno", ma letteralmente "impronta del piede") pare aprire almeno tre prospettive di un certo interesse.

La prima mette in rilievo questioni che potremmo definire di "aderenza", la seconda pone domande di "visibilità" e la terza colora tutto di echi assai poco rassicuranti: siamo forse davvero finiti "sotto il tallone" di una nuova potenza imperiale da cui non vi è più scampo?

Aderenza. In quanto impronta, il footprint militare americano è composto da un insieme di placche di aderenza, ossia: il dispiegamento militare americano nel mondo si compone di un certo numero di elementi che associati formano l'intero. In questo senso, "to rearrange the footprint" significa modificare la relazione interna tra le placche a formare una nuova e migliore aderenza al terreno. Queste modifiche sono dettate dunque dalla necessità di aderire meglio a quello che viene chiamato l’"arco di crisi". Ad esempio, stanziare oggi soldati a ridosso della frontiera tra la Corea del Sud e quella del Nord – quando la Corea del Nord possiede ordigni atomici di teatro – equivale a fornire al nemico quelli che sono a tutti gli effetti degli ostaggi. Così come è inutile mantenere truppe d'arresto in Germania ora che l'Unione Sovietica si è dissolta come potenza ostile. La nuova situazione geopolitica impone dunque delle modifiche al dispiegamento generale dell'apparato militare americano nel suo insieme.n Visibilità. Insieme alle ovvie necessità di aderenza all'"arco di crisi", il riassetto dell'impronta manifesta anche problemi di visibilità. Qui la metafora dell'impronta funziona su due livelli. Il primo è ben esemplificato dal caso dell'Arabia Saudita. Non è sfuggito come la presenza militare americana in quel paese dopo la prima Guerra del Golfo sia stata uno dei motivi della radicalizzazione del network fondamentalista guidato da Osama bin Laden. In un paese dove per legge le donne non possono guidare autoveicoli, la sola vista di una soldatessa americana crea imbarazzo. Dunque, per non innescare inutili frizioni, in certi paesi è bene che delle forze militari americane si vedano solo le impronte di transito lasciate sul terreno. Le basi avanzate devono occupare come sempre posizioni strategiche, ma devono rimanere il più possibile invisibili, ossia non devono diventare quelle città nelle città a cui eravamo abituati durante la Guerra Fredda. Queste nuove basi saranno dispiegate in zone a bassa frizione politica, e saranno soprattutto staging grounds, punti di assembramento.

E qui veniamo al secondo livello di significati che paiono emergere dai richiami alla visibilità evocati dalla metafora del footprint. Nel nuovo dispiegamento di basi avanzate, le truppe e i loro supporti tattici arriverebbero rapidamente dagli Stati Uniti ricevendo in loco solo il supporto logistico richiesto dalla situazione. Nei piani di ammodernamento della Marina vi sono persino navi di nuova concezione che unendosi formerebbero vere e proprie basi galleggianti capaci di sostituire a tutti gli effetti le basi di terra. L'esplosione molecolare dell'apparato bellico americano nel mondo sarebbe comunque resa efficiente da un insieme coerente di nuovi programmi informatici capaci di formare in tempo reale una immagine integrata di tutti i fronti di guerra. La riconfigurazione dell'impronta bellica americana nel mondo pare dunque assomigliare sempre di più al carattere distintivo dell'età informatica globale, ossia allo stato di network. Il nuovo apparato bellico americano è per questo sempre più simile a un sistema di sistemi delocalizzato che può riconfigurarsi in breve tempo e a seconda del compito da intraprendere. Invisibile come l’impronta di un corpo dematerializzato, questo fantasmagorico apparato bellico tende a scomparire per divenire più letale, essendo capace di vedere senza essere visto e di intervenire in ogni momento e in ogni luogo. In questo senso, l'apparato americano assomiglia sempre di più a quella divinità marziale onnisciente e onnipotente interrogata da Paul Virilio dopo la prima Guerra del Golfo. "A crucial question arises at this precise instant in history", scrisse Virilio nel 1991. "Can one democratize ubiquity, instantaneity, omniscience and omnipresence, which are precisely the privileges of the divine, or in other words, of autocracy?" (L'Ecran du désert, trad. inglese Desert Screen, Londra, Continuum, 2002, 134).

Se l'apparato bellico degli Stati Uniti ha dunque raggiunto uno stato di bellicosa autocrazia, non avranno allora ragione i critici più feroci dell'attuale fase di sviluppo capitalistico, che vedono nel dispiegamento di una tecnostruttura planetaria l'espandersi di un nuovo tipo di Impero?. Alla domanda se gli Stati Uniti siano divenuti una potenza imperiale ha più volte risposto il presidente George W. Bush, come è successo ancor di recente il 5 giugno scorso. In Qatar per una visita al centro di comando avanzato CENTCOM, il presidente Bush ha dichiarato: "Under Tommy's leadership, CENTCOM forces have shown the true might of America, the strenght of our country. You've also shown the humanity and decency of your country, as well. You see, this country, our country does not seek the expansion of territory. We're not interested in more territory. Our goal is to enlarge the realm of liberty. [Applause.] We believe that liberty is God's gift to every individual on the face of the earth. [Applause.] We believe people have the right to think and speak and worship in freedom. That's what we believe in America. And that's what you showed the world. [Applause]" [http://www.whitehouse.gov/news/releases/2003/06/20030605-1.html]

Nel rispondere implicitamente alla domanda se gli Stati Uniti siano divenuti un impero, il discorso del presidente Bush correttamente ritorna alla pregiudiziale anti-imperiale posta dalla tradizione democratica americana all'espansione territoriale degli Stati Uniti. Seguendo un ragionamento di Thomas Jefferson, vari strumenti di legge (tra cui la Northwest Ordinance del 1787) vietarono alla nazione americana di colonizzare i territori che confinavano con le ex tredici colonie inglesi. Gli Stati Uniti non avrebbero infatti esteso il loro dominio su altri territori, come era successo quando la Gran Bretagna aveva occupato le terre americane. Gli Stati Uniti avrebbero invece esteso quello che Jefferson chiamò l’Empire for Liberty, offrendo ai nuovi territori del "west" la possibilità di divenire Stati dell'Unione a tutti gli effetti. Una volta che un territorio avesse raggiunto un numero congruo di abitanti, poteva iniziare a configurarsi come Stato indipendente in vista di una successiva richiesta di annessione agli Stati Uniti.Il sistema usato per espandersi nel "west" è da sempre ritenuto uno dei momenti di gloria della democrazia americana, che si estese fino al Pacifico senza formare colonie. È ancora a questo meccanismo d'estensione che si rifà il presidente Bush quando parla della volontà americana di espandere non già il territorio bensì solo il "realm (ossia, the empire) of liberty". Tuttavia, nel suo riallacciarsi all'Empire for Liberty di Thomas Jefferson il discorso di Bush incorre in un lapsus. (Si osservi che la locuzione jeffersoniana Empire for Liberty, da potenziale impero per la libertà, è poi divenuta concreta nei successivi cantori della nazione americana – empire of liberty, impero della libertà). Non mi riferisco qui al fatto che per creare nuovi Stati nel "west" fu negato il diritto sovrano a quelle terre a un insieme di tribù aborigene, il che diede luogo a una diaspora che molti oggi ritengono un genocidio. E neppure mi riferisco al fatto che l'annessione del Texas, la guerra col Messico e, successivamente, la guerra contro la Spagna, assunsero toni ed effetti che difficilmente si potrebbero dire non espansionistici in senso imperiale. Bush pare incorrere in un lapsus quando considera l'Iraq un "territorio" su cui si estenderà un nuovo "ambito della libertà" (realm of liberty) che lo renderà uno "Stato" sovrano. La frase aveva un suo senso nel "west", su cui si sarebbe estesa la valenza della Carta costituzionale americana. Ma in Iraq? Come lo stesso discorso di Bush sottolinea, l'Iraq libero non entrerà mai a far parte della federazione americana.Che cosa succede a un territorio sconfitto in guerra su cui si stende l'"ambito della libertà" portato dagli americani? La risposta più ovvia che verrebbe in mente è: ciò che è accaduto in Italia, Germania e Giappone, ossia i paesi che diedero vita alle forze dell'Asse nazi-fascista. Che cosa accadrà ora ai paesi del cosiddetto Asse del male una volta conquistati? Sembra sia ancora troppo presto per dare una risposta adeguata a questa domanda. Ma non dimentichiamoci che proprio nella conquista del "west" si svilupparono in America le reti ferroviarie la cui gestione diede vita al moderno assetto delle corporations multinazionali. Senza espandersi in modo imperiale all'ovest, l'America vi estese comunque un sistema di comunicazione e di organizzazione del lavoro che molti ancor oggi confondono con "la libertà americana" tout court. Vi è però poco di libero e liberale in una tecnostruttura su cui non tramonta mai il sole, soprattutto se a governare quella tecnostruttura sono gli interessi di ciò che il presidente Dwight D. Eisenhower chiamò "il complesso militar-industriale". A questo riguardo vengono in mente le parole d'ammonimento pronunciate dallo stesso Eisenhower nel 1961: "In the councils of government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex. The potential for the disastrous rise of misplaced power exists and will persist. We must never let the weight of this ambition endanger our liberties or democratic process. We should take nothing for granted. Only an alert and knowledgeable citizenry can compel the proper meaning of the huge industrial and military machinery of defense with our peaceful methods and goals, so that security and liberty may prosper together"[http://www.coursesa.matrix.msu.edu/~hst360/documents/industry.html].
(Anthony Marasco • 26.6.2003).

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