Sintesi della relazione di Giorgio S. Frankel al seminario tenutosi presso il Centro Einaudi il 17 settembre 2003
Settembre è un mese in cui ricorrono molte date importanti per il Medio Oriente, anche solo negli ultimi trent’anni: nel 1970 il cosiddetto Settembre Nero (con l’espulsione dei palestinesi dalla Giordania), il 17 settembre 1978 la firma del protocollo noto come Pace di Camp David, il 16 settembre 1982 la strage di Sabra e Chatila in Libano, il 13 settembre 1993 la stretta di mano tra Arafat e Rabin (la Pace di Oslo). Infine,
il 29 settembre 2000 l’inizio dell’Intifada e l’11 settembre 2001 la caduta delle Torri Gemelle.
In realtà, infatti, sono due i labirinti che si intersecano: da un lato Israele, i palestinesi e l’Intifada (guerra di cui in Occidente in parte ci si dimentica) e dall’altra il nodo della guerra e del dopoguerra in Iraq.
Il conflitto iracheno ha messo in luce alcuni punti deboli degli Stati Uniti: la pessima gestione politica, la mancanza di idee su come affrontare il dopoguerra, il forte limite – nonostante tutto – della potenza militare (la guerra è sempre meno «tecnologica» e sofisticata di quanto a tavolino possa apparire), il costo elevato del conflitto. È paradossale ricordare come, nella primavera scorsa, fosse stato stigmatizzato negli Stati Uniti chi ne aveva calcolato in 100 miliardi di dollari il costo – stima, ormai, ampiamente superata dai fatti.
Quanto ai reali motivi della guerra in Iraq, come la verità sugli attentati dell’11 settembre, in definitiva continuiamo a sapere poco o nulla: la mancanza di dati e fatti è stata sostituita dalla propaganda. Dal
coinvolgimento di Saddam nell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, alla minaccia rappresentata dagli arsenali colmi di armi di distruzione di massa, molte e diverse sono state le giustificazioni che hanno tenuto banco sulla stampa internazionale; smentite di volta in volta: devono essere considerate errori di valutazione dell’Intelligence oppure una serie di menzogne deliberate?
È difficile pensare che lo spionaggio abbia fallito in tutti questi casi. Piuttosto è l’interpretazione politica che può rivelarsi miope. Oppure si intende scientemente occultare dei dati. Per quanto si sa oggi della guerra in
Iraq, probabilmente è stata scatenata per intimidire altri paesi arabi, tentare l’eliminazione di alcuni regimi (ad esempio in Giordania) e contestualmente migliorare la posizione strategica di Israele. Se si presta fede alle dichiarazioni dei «falchi» americani, la guerra all’Iraq rappresenta addirittura la prima mossa della Quarta guerra mondiale.
Da notizie poco pubblicizzate si sa che nuove forze statunitensi sono arrivate in Africa, Indonesia, Filippine e forse in America del Sud e in alcune repubbliche islamiche. Inoltre, è nata una nuova alleanza strategica tra
Israele (dietro il quale stanno gli Stati Uniti) e l’India: ufficialmente contro il terrorismo, più probabilmente al fine di favorire il passaggio di tecnologia dai primi alla seconda. Né l’invio di truppe né il nuovo asse
indo-israeliano hanno fatto clamore, tuttavia entrambi gli episodi ricordano il modus operandi della Guerra fredda, che riprende a giocarsi nell’ombra, con l’ausilio di guerriglia, mercenari e colpi di stato.
L’Iraq si trasformerà in un secondo Vietnam per gli Stati Uniti? Gli scenari sono attualmente tutti plausibili: da una stabilizzazione a un disimpegno degli Stati Uniti che porterebbe a un ritiro delle truppe. Oppure il perdurare (strisciante) del conflitto e un suo spostamento, ad esempio verso la Siria o l’Iran.
Per il momento, la guerra e il dopoguerra in Iraq e i suoi problemi hanno di fatto schermato la guerra in Afghanistan – tutt’altro che conclusa – e le sorti di Bin Laden (e anche di Saddam Hussein). Ma dimenticare l’Iraq al momento è alquanto improbabile: sia per i costi che per il controverso consenso al quale la vicenda è legata.
Nel novembre 2004 si vota negli Stati Uniti e la campagna elettorale è già in atto; le sorti di Bush sono incerte, oltre che per la guerra, per l’andamento dell’economia americana. Tutto potrebbe succedere in questo periodo, da dissidi all’interno dell’Amministrazione, che obbligherebbero Bush a un «rimpasto»,
allo scoppio di qualche scandalo (ad esempio per le modalità con le quali ha portato il paese alla guerra in Iraq) che lo costringa a dimettersi.
Sempre a causa della campagna elettorale, è invece prevedibile nei prossimi mesi un minor impegno americano per la Road Map. Una domanda interessante a questo proposito potrebbe essere se è credibile pensare che in un prossimo futuro gli interessi di Israele e degli Stati Uniti saranno ancora coincidenti.
Se è noto che i palestinesi sono stati obbligati ad accettare il piano della Road Map (essenzialmente americano, pur in presenza di apporti di Unione Europea, Russia e Onu) anche per rompere l’isolamento internazionale nel quale erano venuti a trovarsi, non tutti sanno però che il governo israeliano non lo
ha mai accettato integralmente. Esso ne ha approvato solo le tre «tappe» previste (con alcune riserve che di fatto ne riducono di molto il valore) e non il preambolo generale; rifiutando in tal modo la filosofia alla base di questo piano di pace, e cioè la possibilità, al ricorrere di certe condizioni, di negoziare la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. C’è da chiedersi allora se la Road Map non serva agli israeliani solo per prendere tempo e assestare ancora un «colpo» alla leadership palestinese, anche se è
difficile che Israele decida di far uccidere o esiliare Arafat come titolavano di recente i giornali. Probabilmente Arafat ha più valore come prigioniero, sia perché rappresenta quotidianamente un’umiliazione per il popolo palestinese, sia perché la sua presenza limita comunque la possibilità di emergere di un
nuovo leader.
Dopo trentasette anni di occupazione dei territori, con dispendio enorme di energie e risorse, anche Israele ha dei gravi problemi: si stima attualmente che circa il 20 per cento degli israeliani viva sotto la soglia di povertà. In un recente articolo sul tramonto del sionismo, ci si domandava se il progetto su
cui era stato fondato lo Stato di Israele esista ancora... Analoga domanda si potrebbe rivolgere anche ai giovani palestinesi, nati e cresciuti sotto l’occupazione: vogliono sempre uno Stato a Gaza e in Cisgiordania?