Indici di consumo e guerra al terrorismo: la democrazia americana a un bivio
Il mancato ritrovamento di armi di distruzione di massa in Iraq pare dare nuova forza alle argomentazioni di chi, all’aprirsi della crisi, riteneva che si dovesse dare più tempo agli ispettori delle Nazioni Unite. Aveva dunque ragione il variegato fronte del no?
Se i termini del discorso fossero quelli del mancato disarmo di Saddam Hussein dopo la fine della Prima Guerra del Golfo, dovremmo dire di sì. Ma risulta ben evidente oggi come la Seconda Guerra del Golfo non
fu intrapresa da americani e inglesi per imporre il rispetto delle risoluzioni dell’Onu. E pare anche non si possa dire nemmeno che si sia trattato di un conflitto per il petrolio, visti i costi esorbitanti della ricostruzione del sistema. Come non si può dire che si sia trattato di un intervento coloniale,
vista la fretta con cui gli occupanti se ne ritornerebbero volentieri a casa. Per capire di che conflitto si è trattato potrebbe quindi valer la pena seguire per un tratto quanto implica l’Amministrazione americana quando afferma che la guerra fu dichiarata con l’intento di muovere un altro passo in avanti nella Guerra al Terrore. Secondo questa prospettiva, la caduta di Saddam Hussein avrebbe avuto il doppio beneficio di sottrarre un appoggio finanziario e logistico alle cellule del terrorismo islamista e di fare dell’Iraq post-bellico la vetrina di un altro Medio Oriente possibile. In aggiunta, la guerra unilaterale americana offriva anche un terzo vantaggio implicito, ossia lo scardinamento del sistema delle relazioni internazionali costruito con lo scopo di contenere l’espansione comunista promossa dall’Unione Sovietica. Questo sistema ora provocava solo inutili frizioni e ritardi nell’esecuzione dei piani strategici messi a punto dall’Amministrazione americana per sconfiggere il terrore catastrofico islamista svelatosi al mondo l’11 settembre 2001.
Per capire il comportamento dell’Amministrazione americana nei due anni trascorsi dall’11 settembre occorre dunque mettere in evidenza i tratti distintivi della Guerra al Terrore.
Se da un lato la strategia d’attacco consiste nel negare pace al network terroristico islamista, la strategia di difesa è quella di proteggere il suolo americano da ogni ulteriore attacco catastrofico. Va data comunque la dovuta attenzione al fatto che a essere difeso, di per sé, non è tanto il territorio
americano, quanto un indice macroeconomico, quello della consumer confidence che misura la propensione ai consumi degli americani. Dovesse questo indice precipitare a seguito di un nuovo attacco catastrofico, a cadere non sarebbero solo uomini e donne innocenti, ma l’intera economia occidentale. Pochi lo ricordano, ma viviamo su di un baratro. Da quando il valore di scambio delle
monete non è più legato a finzioni rassicuranti quali quelle dello standard aureo, l’intero edificio dell’economia internazionale poggia sulla fiducia concessa a una moneta e quella fiducia è per gran parte legata alla fiducia di chi la usa per i propri consumi. Se chi consuma non si sentisse più certo di poter spendere con la stessa facilità in futuro e iniziasse a prepararsi per il peggio, il peggio subito arriverebbe nelle mille forme che una crisi economica senza precedenti è suscettibile di assumere. È per questo che viviamo su di un baratro, e chi ha voluto distruggere il simbolo stesso del commercio mondiale (il World Trade Center) oltre a quello del più potente apparato bellico del
mondo (il Pentagono) lo sa bene.
Dobbiamo quindi concludere che dall’11 settembre 2001 in poi il destino degli Stati Uniti e dei loro
variabili alleati è quello di proteggere gli indici della sicurezza ai consumi della locomotiva economica occidentale, ossia, allo stato dei fatti, degli Stati Uniti? A non voler essere ipocriti, tutto parrebbe propendere in questo senso, con un corollario ancor più triste: se a dover essere difeso dagli attacchi terroristici è un indice di fiducia, nulla impedirà a chi governa di mentire
pur di mantenere alto quell’indice. Dire la verità, ad esempio riconoscendo che siamo ancora a un passo dal baratro, non gioverebbe a nessuno. Dunque potrebbe pure passare per una buona idea quella di non disturbare la spensieratezza di chi si accinge ad aprire il portafogli. E qui sta il problema dei problemi a due anni dall’11 settembre 2001. Per difenderci (difendendo gli
indici della propensione al consumo), i governi americano e inglese, seguiti in questo da molti altri governi occidentali e non, hanno effettivamente iniziato a diffondere notizie apparentemente rassicuranti sullo stato della Guerra al Terrore ma del tutto inverificabili. Qui il caso dell’entrata in guerra con l’Iraq è solo l’esempio più vistoso. È dalla sua anomala elezione che il
"New York Times" lamenta la propensione alla "non-verità" di George W. Bush. Di recente, un panel di scienziati americani ha persino accusato l’Amministrazione di usare l’annuncio delle nuove scoperte scientifiche in modo improprio e manipolatorio. È questa la crisi nella crisi che stiamo vivendo. Dato che nessuno vuole parlare apertamente di quale sia la situazione attuale per paura di compromettere un indice irrazionale come quello della disponibilità al consumo, non possiamo più credere a niente. Non sappiamo se siamo effettivamente più vicini o più lontani dal baratro. Molti
di noi non sanno neppure che vi sia un baratro. Solo pochi sanno come stanno le cose, ma non possono o non ritengono di dover parlare. La propensione alla menzogna è dunque divenuta un atto di responsabilità politica.
A due anni dall’inizio della Guerra al Terrore sarebbe forse venuto il momento di discutere schiettamente e in pubblico sullo stato delle ostilità. Solo così si potrebbe valutare se il gioco vale la candela. Molti dei problemi di trasparenza in cui si sono trovati gli Stati Uniti e i loro alleati, infatti, hanno origine proprio dalla natura di guerra che si è voluto attribuire alla lotta al terrorismo. Un esempio valga per tutti. La dichiarazione di belligeranza del Congresso concede poteri straordinari al Presidente in quanto comandante in capo delle forze armate. Questi poteri hanno consentito a George W. Bush di porre sotto la sua diretta giurisdizione tutti i prigionieri non catturati in divisa durante le operazioni belliche in Afghanistan e altrove. Detenendo questi prigionieri nel possedimento extraterritoriale di Guantánamo, il Presidente ha neutralizzato ogni altra
ulteriore giurisdizione su questi prigionieri, che verranno ora giudicati in segreto da corti militari inappellabili sotto la diretta tutela offerta dalla presidenza. Il risultato è che nel paese che insieme alla Gran Bretagna ha fatto dell’habeas corpus un feticcio di libertà, l’habeas corpus è stato sospeso per un numero imprecisato di cittadini stranieri. Su precedenti altrettanto labili, un numero ancora imprecisato di cittadini americani sono stati arrestati con l’accusa di essere "combattenti nemici",
un’accusa gravissima che prima di oggi era stata applicata a pochi individui catturati nel corso di una azione di sabotaggio nazista portata avanti da cittadini americani e sventata nel 1943. Tutte queste zone di diritto anomalo del diritto create dall’attuale Amministrazione, e che vanno via via
estendendosi ad altri campi, come la sorveglianza degli aeroporti e delle comunicazioni elettroniche, potrebbero essere riportate alla normalità sospendendo i poteri straordinari a cui la presidenza ha avuto accesso per volere del Congresso.
Dichiarando conclusa la Guerra al Terrore, gli indici di fiducia al consumo potrebbero comunque essere difesi senza intaccare le libertà personali dei cittadini consumatori, riportando
peraltro la lotta al terrorismo nel suo alveo naturale. Dovrebbe essere evidente a tutti ormai come gli strumenti bellici mal si attaglino al compito di disarmare una rete di cellule terroristiche, che infatti svaniscono nel nulla per ricomparire indenni poco dopo (vedi Osama bin Laden e Saddam Hussein). Gli eserciti erano strumenti adeguati alla difesa e alla conquista di territori e ben poco possono di fronte a un nemico delocalizzato e invisibile. L’Iraq ha mostrato che collegare direttamente una rete terroristica a uno stato sovrano per poterlo attaccare preventivamente non funziona. Senza la prova di un attacco già avvenuto, nessuno si convincerà mai della legittimità dell’intervento preventivo. Il che non equivale a dire che la liberazione dell’Iraq da un dittatore sanguinario non vada salutata con soddisfazione. Ma se l’unica cosa che si può dire in difesa di un attacco preventivo è che, nella migliore delle ipotesi, si tratta di un intervento umanitario, tanto vale tornare alla teoria dell’ingerenza umanitaria e lasciare che del terrorismo si occupino gli specialisti della materia. Tra l’altro, se di eserciti come quello americano ve n’è uno solo al mondo, di organismi antiterroristici di primo livello ve ne sono molti. Forse però è proprio questo il problema. Avendo mobilitato l’apparato bellico più letale che la storia umana ricordi, la fragile democrazia americana