La guerra per il Medio Oriente

Sintesi del seminario tenutosi presso il Centro Einaudi il 16 aprile 2003. Relazioni introduttive: Giorgio S. Frankel e Pier Giuseppe Monateri

Giorgio S. Frankel. Si è cominciato a parlare di attacco all’Iraq dopo le Torri Gemelle e l’arrivo di
buste all’antrace: poi, i legami con il terrorismo sono mancati e si è fatto leva sulle armi di distruzione di massa che Saddam avrebbe abilmente nascosto.

Con la difficoltà di produrre prove e (ad invasione avvenuta) ritrovamenti di tali armi, la motivazione successiva della guerra, per il grande pubblico, è stata la minaccia rappresentata da Saddam e il suo regime per gli stati confinanti. Solo a guerra iniziata si è sentita anche nominare, tra le giustificazioni del conflitto, la liberazione del popolo iracheno.

Dunque è possibile aspettarsi anche in futuro, per altri eventuali conflitti (contro Siria, Libia, Iran, magari Egitto e Arabia Saudita), che il casus belli venga creato e soprattutto modificato con ampia discrezionalità.

A Washington i neo-conservatori, cioè i cosiddetti "falchi" nell’ambito ma anche al di fuori dell’Amministrazione Bush, sostengono che si tratti di una guerra in una più vasta strategia per la ristrutturazione del Medio Oriente: l’inizio della Quarta Guerra Mondiale (Eliot A. Cohen e Norman
Podhoretz) – la Terza essendo stata la Guerra Fredda (James Woolsey). Anche espressioni come "politica imperiale illuminata" e "distruzione creativa" (Michael Ledeen), dopo le già note "Asse del Male" e
"Stati canaglia", fanno ormai parte del gergo. Il gruppo dei teorici che ispirano la dottrina sugli Stati canaglia è omogeneo, compatto, ristretto e ben collegato; esso domina la politica globale e la politica estera. Qui
sostengono la destra israeliana (i cosidetti likudnik) e il superamento della "pace di Oslo" per ristabilire i rapporti con i Palestinesi su basi di forza.

In uno scenario futuro l’attenzione si potrebbe spingere maggiormente verso la Siria, accusata di aver fornito materiale bellico all’Iraq e di finanziare terroristi sciiti e di Hamas. Una tensione in salita, ben orchestrata,
porterebbe facilmente Israele ad una qualche azione preventiva (ad esempio per distruggere i missili che la minacciano). In questo modo, sarebbe possibile rioccupare Gaza e la Cisgiordania e "sistemare" la questione palestinese con un trasferimento di massa verso la Giordania, dove a quel punto non sarebbe esclusa la caduta dell’attuale monarchia.

Sul finire di questa Quarta Guerra Mondiale cadrebbero perciò vari regimi mediorientali, tra cui anche l’Arabia Saudita, attualmente in una posizione controversa dal punto di vista americano. Israele risulterebbe la potenza locale dominante e il petrolio arabo finirebbe controllato dalle multinazionali.

Tuttavia, molto – o forse tutto – potrebbe non andare secondo questi piani americani. Gli Stati Uniti rischiano di trovarsi in rotta di collisione con buona parte del mondo: saprebbero gestire la situazione? Bisogna infatti
ammettere che la cultura politica dei "falchi" è piuttosto modesta, per non dire rozza. Inoltre, la coalizione Stati Uniti-Gran Bretagna è piuttosto fragile e a Washington è in corso una lotta tra Dipartimento di Stato
e Pentagono per accaparrarsi la gestione dell’Iraq e la sua ricostruzione.

Il quesito-chiave potrebbe essere se i neoconservatori riusciranno a mantenere il loro strapotere ideologico e politico. Qualche vago indizio fa pensare che l’offensiva contro i neoconservatori sia già iniziata, per esempio con la "caduta" di Richard Perle, elemento di spicco dei "falchi", costretto a dimettersi da consulente del Pentagono dopo che la stampa ha portato alla luce commistioni disinvolte tra i suoi incarichi pubblici e i suoi affari privati. Ma Perle è tutt’altro che fuori gioco, essendo comunque presente a vario titolo in quasi tutti i think-thank conservatori.

Pier Giuseppe Monateri.La nuova strategia americana prevede la ristrutturazione dell’ordine mondiale.
Il modello cosiddetto "classico" del diritto internazionale risale alla Pace di Westfalia ma è stato soprattutto un prodotto intellettuale del 1800: prevede gli stati sovrani come unici attori (nessun ruolo per cittadini o
enti internazionali) e il diritto di muovere guerra (jus ad bellum) come diritto principale dello stato (non solo come strumento sanzionatorio ma anche di autotutela). Inoltre, nell’ordinamento giuridico internazionale classico non esiste un’autorità superiore a quella dei singoli agenti (gli stati) – che sono legislatori delle norme e nello stesso tempo agenti dell’ordine e giudici delle proprie azioni – e manca una gerarchia delle fonti, per cui contratto e consuetudine sono equivalenti.

Rispetto allo schema classico di ricorso alla guerra per puri fini politici, prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu hanno cercato di incidere con diverse norme pattizie per la limitazione del diritto di muovere guerra.

Nella Carta Onu (art. 2.2 e art. 2.4) si richiede di astenersi dall’uso della forza nell’ambito delle relazioni internazionali, mentre all’art. 51 si invoca il diritto all’autodifesa (senza la necessità di preventiva
autorizzazione del Consiglio di Sicurezza e anche in caso di difesa di un alleato aggredito ingiustamente). Esiste, come si vede, una "tensione" fra questi due articoli, che è sempre stata sopita fino ai recenti avvenimenti a partire dall’11 settembre.

Una terza possibilità, che viene configurata nella Carta, consiste nella guerra autorizzata dal Consiglio di Sicurezza o addirittura dall’Assemblea Generale.
Su questi presupposti, è interessante chiedersi se l’intervento in Kosovo e quello in Iraq abbiano avuto simili caratteristiche.
L’intervento Nato in Kosovo non ha in realtà appigli giuridici nella Carta, in quanto non si trattò di autodifesa (neanche a favore di un alleato) né ci fu l’autorizzazione preventiva del Consiglio di Sicurezza. Venne inventata ad hoc come giustificazione la dottrina dell’interventismo umanitario. Si potrebbe affermare allora che in certi casi (ad esempio, lo sviluppo di armi di distruzione di massa, una politica interna che generi violenti flussi migratori, eccetera) l’uso della forza risulterebbe legittimato da un vasto consenso fra
stati, anche al di fuori dello stretto schema della Carta dell’Onu.
Con i fatti dell’11 settembre si è poi prepotentemente tornati a parlare del diritto di autodifesa preventiva, esteso anche al caso di attacco terroristico: tale principio era caduto in disuso dopo la Seconda Guerra Mondiale e il Processo di Norimberga. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, invece, si è ricominciato non solamente a considerare l’attacco armato come previsto dall’art. 51 della Carta Onu, ma a discutere della proporzionalità della risposta e della responsabilità degli stati che ospitano o proteggono organizzazioni terroristiche.

Per l’Onu i problemi sono molteplici, a partire dalla constatazione della scarsa efficacia di questo sistema di rapporti internazionali: basti pensare che due terzi degli stati membri hanno comunque combattuto una guerra, per un totale di 22 milioni di morti.

Un altro problema di fondo è la natura politica dell’Onu e del Consiglio di Sicurezza, che è un consiglio di stati nazionali, ciascuno con i propri interessi, e certamente non può essere definito un arbitro internazionale. Un recente esempio è fornito proprio dalle discussioni prima della guerra in Iraq.
Russia, Francia e Germania ostacolavano l’intervento militare ciascuno esclusivamente sulla base dei propri interessi: la Francia per la sua società petrolifera Elf Aquitaine, la Russia perché sosteneva l’Iraq attraverso
azioni spionistiche e la Germania per questioni finanziarie.
Il sistema Onu potrebbe continuare solo sulla base del presupposto che il Consiglio di Sicurezza è uno (e non il solo) depositario della giustizia internazionale. Si potrebbero perciò ipotizzare tre scenari futuri: una sorta di "condominio" de facto fra Stati Uniti con gli alleati e Onu, con un ampio mandato da parte dell’Onu affinché la sicurezza collettiva sia gestita da parte americana (forse questa attualmente potrebbe essere l’opzione principale); un sistema Onu al cui centro si collochi un’interpretazione espansiva dell’art. 51 (quindi un riavvicinamento al cosiddetto "modello classico") o infine un drammatico distacco tra l’Onu e l’azione
politica degli Stati Uniti.
Collasserà il sistema Onu? Ha senso pensare che gli Stati Uniti possano "uscire" dall’Onu? Potrebbe avere un seguito la proposta, ripresa da Casini, di attribuire ad Eurolandia il seggio della Francia nell’ambito del
Consiglio di Sicurezza?
Ricordando che la politica estera americana ha una sua continuità al di là dello schieramento al governo, si può concludere definendo come "guerre della globalizzazione" gli ultimi conflitti di cui abbiamo parlato, tesi ad eliminare le "sacche" di non-globalizzazione ancora esistenti, dal Kosovo, che ha aperto i Balcani, all’Iraq, dove era impensabile lasciare fuori dal mercato globale un bene prezioso come il greggio iracheno.

Possiamo perciò ipotizzare un futuro nel quale avremo a scadenze ravvicinate conflitti di questa natura, paragonabili a quelli scatenati per il controllo delle risorse naturali negli anni Cinquanta e Sessanta.

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