Oh che bella guerra! Ma cosa costa e dove ci porta?

Sintesi dell'introduzione di Giorgio S. Frankel al seminario del 20 gennaio 2003

Oh che bella guerra! Negli Stati Uniti, gli ideologi del "partito" della guerra assicurano che sarà rapida, di successo e poco costosa, con grandi benefici per tutti: risolverà la questione del terrorismo, delle armi di distruzione di massa e la deteriorata situazione del Medio Oriente. Quasi una "guerra santa" che porterà l’economia di mercato ed un regime filo-occidentale in Iraq – e dunque, sempre a detta degli ideologi, prosperità e benessere in tutta l’area; in più, dopo la guerra il petrolio iracheno tornerà a scorrere in abbondanza facendone calare sensibilmente il prezzo e riducendo la dipendenza dell’Occidente dall’Arabia Saudita e dall’Opec.

 

Ma quanto costa? Una guerra non si dovrebbe valutare solo dal punto di vista economico. Nel caso il conflitto si allargasse, entrerebbero nel conto anche migliaia (se non milioni) di profughi, stati (come ad esempio il regno di Giordania) che potrebbero scomparire dalla cartina geografica e il rischio di uso di ordigni nucleari. Accanto ai costi diretti delle operazioni belliche occorre inoltre conteggiare i costi del dopoguerra: l’eventuale occupazione militare dell’Iraq e le operazioni di peacekeeping, la ricostruzione del paese, l’assistenza umanitaria ed altre voci cruciali, quali l’andamento dei prezzi petroliferi e l’effetto recessivo sull’economia che potrebbe verificarsi, perché la guerra potrebbe facilmente innescare una crisi petrolifera più o meno grave e prolungata (minori esportazioni irachene magari compensate solo pro tempore da Russia o Arabia Saudita, pozzi petroliferi e impianti distrutti, sabotati, magari incendiati come successe in Kuwait durante la ritirata delle truppe irachene…).
Esistono pochi studi preliminari in merito, e tutti di matrice americana (tra questi, un paio realizzati nell’ambito del Congresso e uno dall’economista William D. Nordhaus per l’American Academy of Arts and Sciences). Peraltro l’argomento è stato quasi totalmente ignorato nei dibattiti pubblici. A grandi linee, a seconda dello scenario più o meno favorevole sulla durata della guerra, viene proposta una "forcella" di costi che va dai 100 miliardi di dollari ai 2.000 miliardi – tenendo conto sia delle operazioni militari che dei costi del dopoguerra ripartiti nell’arco di dieci anni. Queste stime vanno certamente prese con cautela perché sono relative a semplici scenari di massima, necessariamente arbitrari; l’unico dato affidabile è una previsione minima di 50 miliardi di dollari per le sole operazioni militari in uno scenario di guerra rapida paragonabile a quelle del Golfo (1991) – che però costò l’equivalente di circa 80 miliardi di dollari odierni – del Kosovo (1998) e dell’Afghanistan (2001).

Per dare un ordine di grandezza, si tenga conto che il PIL dei Paesi Bassi si colloca tra i 100 e i 200 miliardi di dollari, quello italiano sui 1.200 miliardi; un anno di campagna contro l’Aids "pesa" 3,5 miliardi di dollari sul bilancio dell’ONU e il costo per spostamento e il dispiegamento delle truppe americane nelle zone di guerra è di circa 10 miliardi di dollari.
Chi paga il conto? Se i costi della guerra del Golfo del 1991, alla fine, vennero sostenuti in gran parte da Arabia Saudita e Kuwait, con Germania e Giappone, questa volta appare certo che l’onere graverà sul bilancio americano – e cioè sui contribuenti – poiché allo stato attuale delle cose nessun paese al mondo, salvo Gran Bretagna e Israele, è incondizionatamente favorevole alla guerra e intende prendervi parte al di fuori di una risoluzione Onu.

Per quanto riguarda i costi di ricostruzione e riabilitazione, si prenda l’esempio recente dell’Afghanistan: a fronte di 13 miliardi di dollari spesi dagli Usa per la guerra e di 25 miliardi di fabbisogno iniziale stimato per il dopoguerra, gli Stati Uniti si sono limitati a stanziare 10 milioni (milioni, non miliardi!) di dollari, lasciando il resto alla comunità internazionale.
Dove ci porta questa guerra? Difficile ipotizzare dove conduca lo scoppio di un conflitto, specialmente in un’area con degli equilibri così precari come il Medio Oriente; possiamo tuttavia
provare riflettere sul "perché" scatenarla. L’incombente crisi mediorientale, è, almeno in linea di principio e nel nuovo lessico post-11 settembre, un capitolo della "guerra globale al terrorismo", una caccia agli "stati canaglia" (rogues states) e a coloro che appoggiano il cosiddetto "asse del Male". In un anno e più di escalation anti-Iraq, le motivazioni proposte sono state varie e si sono alternate in continuazione, non solo, ma è stata messa in atto una propaganda e una manipolazione informativa più pressante di quella già avvenuta dieci anni fa per la guerra del Golfo, in cui è stata inserita anche una campagna anti-europea a causa della generale cautela mostrata nel Vecchio continente e delle prese di posizione (di Francia e Germania) contro lo scoppio della guerra. Le giustificazioni di un attacco a Saddam esistevano già prima dell’11 settembre (innumerevoli crimini commessi, dittatura corrotta e sanguinaria, possesso di armi di distruzione di massa) ma la guerra è diventata impellente solo nell’ultimo anno, anche quando i presunti legami tra Osama bin Laden e Saddam ed un suo ipotetico coinvolgimento negli attentati alle Torri non hanno potuto essere minimamente avvalorati.

Consideriamo invece che l’Iraq, l’Iran e l’Arabia Saudita forniscono circa il 20% della produzione mondiale di petrolio e che con gli altri paesi produttori-esportatori del Golfo controllano il 25-30% della produzione e detengono quasi il 70% delle riserve globali. L’Iraq, in particolare, ha più petrolio di quello che si trova nel Mare del Nord, nel Mar Caspio e in Siberia messi insieme – con rischi, costi estrattivi e di
trasporto notevolmente inferiori. Poiché parte del suo territorio è tuttora inesplorato, si ritiene che le sue riserve (che già attualmente con 110 miliardi di barili accertati collocano il paese al secondo posto dopo l’Arabia Saudita) potrebbero potenzialmente eguagliare quelle saudite.
La cruciale rilevanza petrolifera dell’Iraq e di tutta la regione circostante danno una visione probabilmente più realistica degli interessi che ci sono in gioco in questo momento, unita al fatto – al quale forse in Europa non è stato dato il giusto peso – che i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita (da decenni una sorta di protettorato americano strategico nell’area del Golfo) si sono apparentemente deteriorati in modo profondo. Una guerra avrebbe allora il doppio scopo di impadronirsi del controllo della risorsa energetica tuttora più ambita e preziosa per l’economia del mondo occidentale e nello stesso tempo di ridurre (se non di distruggere) il potere arabo per il prossimo decennio. Resta da vedere se, nella mente degli esperti e dei politici americani, sia ipotizzata una guerra per l’Iraq (per rovesciare il regime di Saddam Hussein) – che tuttavia non dà garanzie di essere un’operazione asettica senza allargamento del conflitto – oppure una guerra per il controllo strategico della regione di cui l’Iraq è solo il pretesto iniziale e che potrebbe essere innescata anche da altri eventi, ad esempio l’aggravarsi della crisi arabo-israeliana.

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