Una piccola ansia, dovuta allo sciopero dei dipendenti del Parlamento Europeo proprio in contemporanea con il voto degli eurodeputati, ha percorso gli uffici dei grandi fautori dell’allargamento, Romano Prodi in testa. Una bella "precettazione" all’italiana ha risolto il problema, consentendo a una larghissima maggioranza di deputati di dire sì all’allargamento, un sì che non tollererà marce indietro dell’ultima ora: troppo ampio e troppo diffuso.
Non illudiamoci, comunque, l’allargamento continua a destare perplessità e inquietudini: i giusti reclami nei confronti delle alte gerarchie europee che sembrano non essere state capaci di spiegare l’allargamento ai cittadini colgono nel segno. Ne abbiamo avuto una chiara dimostrazione in occasione del primo referendum irlandese, quando i "folletti" si sbagliarono e votarono contro quel Trattato di Nizza che iniziava a stabilirne i parametri. Il punto dolente è che nessuno, per ora, ha ben chiaro quale sarà l’impatto di un allargamento di questa portata sulle ancora fragili istituzioni comunitarie. I precedenti allargamenti erano stati di dimensioni ben più ridotte e, soprattutto, l’Europa allora era molto diversa. Si trattava di un’Europa essenzialmente economica, proiettata alla ricerca di intese perlopiù intergovernative, verso la costruzione di un mercato unico che avrebbe trovato il suo pivot nella realizzazione dell’Unione monetaria. Le priorità della politica europea sono oggi ben altre: siamo alla vigilia della scrittura di una Costituzione, il caos diplomatico scatenato dalla missione anglo-americana in Iraq ha dimostrato in maniera più che deflagrante l’esigenza di dotare l’Unione di una politica estera unica (non "comune" come ora, dato che, come si vede, di comune ha solo il nome…). Senza dire delle profonde mutazioni che i Trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza hanno portato nel funzionamento delle istituzioni, dove il Parlamento Europeo ha iniziato a muovere i suoi primi passi da vero legislatore comunitario.
Non c’è da criticare l’allargamento in termini di ontologia della democrazia sovranazionale, c’è piuttosto da preoccuparsi per lo stato delle nostre istituzioni, sulla cui solidità resta più di un’ombra. Non possiamo aspettarci né pretendere, da parte dei nostri futuri concittadini, un patriottismo europeo che talvolta manca anche a noi "paesi fondatori". Saranno le nostre istituzioni, se non adeguatamente rafforzate e rese autenticamente democratiche, in grado di sostenere efficacemente l’impatto di un centinaio di milioni di nuovi cittadini europei che vedono oggi l’Europa come un grande salvadanaio a cui attingere (e non per avidità etnica, ma perché così da anni è stata presentata l’Europa in quei paesi)? Abbiamo già assistito all’entusiasmo con cui alcuni di questi paesi hanno sostenuto la brigata anglo-americana in terra mediorientale (i polacchi ci sono andati davvero!); forse essi non riescono a capire per quale ragione gran parte del resto d’Europa questa guerra proprio non l’avrebbe fatta. Perché agitarsi tanto per dotare l’Unione di una sua politica estera e di un proprio dispositivo militare? C’è già la NATO… Questa, tra le altre, è l’obiezione che viene dall’Est alle proposte che la Convenzione europea sta valutando in merito all’assenza di una voce europea nel contesto internazionale. E non solo dall’Est. In una recente conversazione con alcuni dirigenti di un’importante industria svedese (paese che ha fatto il suo ingresso in Europa nel 1995) ci si è trovati a parlare del progetto Galileo, da molti considerato la vera dichiarazione di indipendenza europea nei confronti degli Stati Uniti. "Perché spendere miliardi di euro per dotare l’Europa di qualcosa che esiste già, il GPS, che funziona benissimo ed è gratis?". Concepire l’Unione Europea come soggetto autonomo e indipendente dal grande ombrello pan-americano si rivela quindi un obiettivo più che una realtà acquisita. Cerchiamo quindi di non essere ipocriti, trattando ungheresi, maltesi, estoni e ciprioti da "primini" poco avvezzi alle "cose dei grandi", di chi da 50 anni maneggia trattati, direttive e regolamenti senza essere ancora riuscito, però, a dare all’Europa una fisionomia e un’identità che la rendano un vero soggetto politico dentro e fuori i suoi, nuovi, confini.