Vox americana / L'ingegneria del linguaggio come arma strategica dopo l'Undici settembre


Old Europe


Il 22 gennaio scorso, rispondendo alle domande dei giornalisti della stampa estera, il segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld ha usato per la prima volta il termine "Vecchia Europa" (Old Europe). L’intento era di far rilevare che il dissenso di Francia e Germania alla gestione americana della crisi dell’Iraq, allora ancora in corso, non era, a rigor di termini, il dissenso dell’Europa, ma solo il dissenso di una parte dell’Europa, quella che un tempo poteva dirsi esaurisse l’intero. Ma dopo l’entrata nella Nato di ex satelliti ed ex parti dell’Unione Sovietica, il baricentro della Nato si è spostato ineluttabilmente verso il Baltico e quindi, visto l’orientamento pro americano di quest’area, di nuovo verso l’Atlantico.L’eco suscitata dal termine "Vecchia Europa" nella stampa europea è stata di irritazione se non di sconcerto; pochi hanno colto il carattere tecnico della battuta di Rumsfeld. La Francia e la Germania non venivano definite vetuste, come molti commentatori hanno voluto capire: con questo termine Rumsfeld ha solo inteso far notare che, in organizzazioni che procedono per unanimità, il baricentro è tutto. Se qualcuno confonde l’orientamento francese e tedesco con l’orientamento "europeo" in seno alla Nato sbaglia, non avendo fatto i conti con l’allargamento dell’alleanza. Certo il tono spesso faceto dell’intervista attribuisce per empatia prammatica un carattere altrettanto faceto all’espressione usata. E infatti, la battuta gioca anche con un altro livello di significato su cui occorre soffermarsi. Nella cultura americana il termine "nuovo" non è un termine qualsiasi, ma è vicinissimo al cuore stesso dell’identità nazionale. Gli Stati Uniti si sono sempre visti come i paladini del "nuovo" che avanza, occupando un Nuovo Mondo, dando vita a un "nuovo modo" di governare. Tutto ciò che è "nuovo" ha da sempre appassionato la mente imprenditoriale e tecnologica del paese, ed Ezra Pound ha persino definito il modernismo artistico come quella cosa che risponde all’imperativo "make it new!". In effetti, in un simile contesto, definire chi dissente dalla politica estera americana come "vecchio" è destinarlo nel cestino dei rifiuti della storia.Irritandosi, molti commentatori europei hanno colto questo secondo aspetto, ma sottovalutato il primo. Rumsfeld ha ragione, sia per la Nato che per l’Unione Europea. L’entrata degli Stati baltici in entrambe le organizzazioni divide l’Europa su di un asse che, se non è proprio quello nuovo-vecchio, è certamente posizionato in modo da consegnare agli Stati Uniti una leva di comando per influire dall’esterno sul corso dello sviluppo politico europeo. Quando il contenzioso sulla ricomposizione del Consiglio di Sicurezza dlele Nazioni Unite giungerà in superficie, c’è da scommettere che la divisione tra "vecchia" e "nuova" Europa giocherà un ruolo tutt’altro che secondario, soprattutto se gli Stati Uniti premeranno per l’accorpamento di tutti i seggi europei in quello da assegnare all’Unione.C’è infine un altro aspetto del termine "Old Europe" che vala la pena rilevare. Se un tempo l’Europa occidentale era quel luogo per la cui libertà molti americani pensavano valesse anche la pena di morire su di una spiaggia normanna in un freddo mattino di giugno, oggi i nuovi flussi migratori dall’Europa dell’Est, uniti agli smottamenti demografici degli ultimi decenni, fanno sì che l’Europa occidentale appunto appaia agli occhi dei "nuovi americani" come "vecchia", legata a un orizzonte di affetti che non c’è più. Pochi europei sembrano essersene accorti del tutto, ma gli Stati Uniti sono sempre meno una ex colonia europea nel "Nuovo Mondo". Sono in sé un nuovo mondo, una nazione di nazioni in cui l’europeo bianco è solo una minoranza tra le minoranze. (Anthony Marasco • 12.5.2003).


Preemptive Strike


Parlando ai cadetti dell’accademia di West Point il 1° giugno del 2002, per la prima volta il presidente George W. Bush menzionò la possibilità di usare la forza per primi contro i nemici degli Stati Uniti.Il discorso ovviamente prendeva le mosse dalle nuove esigenze di difesa determinate dai fatti dell’Undici settembre 2001. In un passaggio chiave di quel discorso Bush sottolineò come "our security will require all Americans to be forward-looking and resolute, to be ready for preemptive action when necessary to defend our liberty and to defend our lives" [www.whitehouse.gov/news/releases/2002/06/20020601-3.html].Che cosa intendesse l’Amministrazione per "attacco preventivo" venne spiegato meglio il 17 settembre 2002, con la pubblicazione della nuova National Security Strategy of the United States of America (NSS). In quel documento si rendeva noto non solo che gli Stati Uniti erano disposti a colpire per primi i loro nemici, ma che se si fossero trovati nell’evenienza di agire da soli, lo avrebbero fatto senza esitazione. "While the United States will constantly strive to enlist the support of the international community, we will not hesitate to act alone, if necessary, to exercise our right of selfdefense by acting preemptively against such terrorists, to prevent them from doing harm against our people and our country".La disponibilità a colpire per primi, e a farlo anche da soli se necessario, compone ora il fulcro della cosiddetta "dottrina Bush" – anche se le solite fonti bene informate attribuiscono la stesura del documento sulla strategia nazionale a Condoleeza Rice. E infatti, è probabilmente alla Rice che si deve la finezza argomentativa che muove questo documento tutt’altro che rozzo. Vi si riconosce il fatto che il diritto internazionale vieterebbe un simile approccio all’azione militare, che può essere giustificata solo da un attacco diretto o dall’imminenza visibile di un attacco diretto. Ma si riconosce anche come la nuova situazione non consenta più di misurare l’evidenza palmare di simili manovre. "We must adapt the concept of imminent threat to the capabilities and objectives of today’s adversaries. Rogue states and terrorists do not seek to attack us using conventional means. They know such attacks would fail. Instead, they rely on acts of terror and, potentially, the use of weapons of mass destruction – weapons that can be easily concealed, delivered covertly, and used without warning" [www.whitehouse.gov/nsc/nss5.html].A seguire il ragionamento della nuova strategia sulla sicurezza nazionale americana, avrebbe dunque ragione chi oggi legge l’unilateralismo americano più come il risultato dell’Undici settembre che di una coerente politica di espansione imperiale. Non la conquista di nuovi territori da assoggettare alla propria egemonia spingerebbe alla guerra la nazione americana, bensì la necessità di togliere le armi dalle mani di chi, con tutta evidenza, ha intenzione di usarle contro di essa.Il ragionamento non fa una grinza a patto che si riesca a portare dinanzi al consesso internazionale le prove di una tale "evidenza," cosa tutt’altro che facile, come dimostra l’improbabile casus belli montato contro l’Iraq di Saddam Hussein. Infatti, alla fine gli avvocati dell’Amministrazione hanno dovuto citare tutti i pregressi mancati adempimenti alle risoluzioni delle Nazioni Unite come "prova" dell’immediato pericolo costituito dall’Iraq per gli Stati Uniti. Nulla di particolarmente tangibile – "no smoking gun" –, come si è dovuto ammettere.La "dottrina Bush" pare quindi posare su di una logica ineccepibile, che però è minata alla base: non pare esservi modo di avere, prima che accada, la "prova" di un imminente attacco terroristico. Si può solo agire preventivamente per fermarlo, ma a quel punto l’azione distrugge la validità e persino la necessità della prova. Questo fondamento labile della nuova dottrina sulla sicurezza nazionale americana apre dunque la porta all’arbitrio più che alla giustificazione, ponendo gli Stati Uniti di fronte a un dilemma: agire da soli preventivamente, sapendo che nessuno mai crederà alla validità delle prove consegnate a posteriori, o aspettare un nuovo attacco terroristico per poter legittimamente sferrare una risposta militare?Si tratta a tutti gli effetti di un falso dilemma, perché la risposta al terrorismo non deve necessariamente essere militare, a meno che non si sia deciso di deporre con le armi tutti i despoti del mondo, compresi i propri alleati nella regione a partire dall’Arabia Saudita – la nazione che più ha contribuito con uomini e mezzi agli attentati dell’Undici settembre. (Anthony Marasco • 24.3.2003).


Coalition of the Willing


La comparsa sulla scena mondiale dell’iperterrorismo catastrofico ha posto sotto severo stress i vincoli d’amicizia d’interesse che legavano i paesi del Patto Atlantico durante il periodo della guerra fredda. Durante l’azione militare in Afghanistan prima, e nella vicenda dell’Iraq poi, l’amministrazione di George W. Bush ha progressivamente incontrato inaspettate resistenze diplomatiche in paesi tradizionalmente "amici". La presa d’atto di queste resistenze ha portato l’amministrazione a formulare una nuova strategia capace di aggregare coalizioni ad hoc, le cosiddette coalitions of the willing. Queste coalizioni nascerebbero su questioni specifiche e su iniziativa americana. In altre parole, ogni nazione aderirebbe al progetto d’azione americano secondo la propria convenienza, ma non avrebbe voce in capitolo nel determinare collegialmente il carattere dell’azione. Come ebbe a dire il presidente Bush alla vigilia dell’allargamento a est della Nato, se Saddam Hussein non fosse disposto a procedere rapidamente a un disarmo, "the United States will lead a coalition of the willing to disarm him and at that point in time, all our nations will be able to choose whether or not they want to participate" (Praga, 20 novembre 2002).Adottare un simile metodo di riallineamento internazionale sarebbe di indubbio vantaggio per gli Stati Uniti: tutto il processo decisionale cadrebbe nelle mani dell’Amministrazione, non essendo vincolato da alleanze predeterminate. I limiti di tale metodo parrebbero essere due. A un primo livello, quello politico-diplomatico, la negoziazione di un consenso avverrebbe con fatica e allo scoperto, con evidenti pericoli d’imboscata in sedi multilaterali quali l’Onu. A un secondo livello, quello della riflessione storica, si affaccerebbe il pericolo di proseguire sotto mentite spoglie un aspetto parassita della politica del contenimento messa in atto durante la guerra fredda: l’idea che, pur di contenere un nemico strategico, quale certamente era l’Unione Sovietica, si potevano stringere alleanze tattiche con nazioni non-atlantiche dal dubbio profilo democratico – dal Vietnam al Cile di Pinochet, all’Arabia Saudita. Quindi, paradossalmente, per debellare potenziali complici del terrorismo come Saddam Hussein si rischia oggi di usare la stessa tattica usata per "contenere" l’Iran di Khomeini, ossia di chiudere un occhio sulla reale natura del regime di quello stesso Saddam Hussein che ora si vuole nemico dell’umanità. Va notato che quest’ultima evenienza non dovrebbe risultare del tutto sconosciuta all’amministrazione Bush, visto che documenti segreti recentemente resi di pubblico dominio indicano come a trattare di persona con Saddam Hussein nel 1983 fu l’attuale ministro della Difesa americano Donald Rumsfeld.

Main partner