Sintesi della relazione di Anna Caffarena (Università di Teramo e LPG) al seminario organizzato dal Laboratorio di Politica Globale (LPG)
Un aspetto importante da sottolineare è che l’ampiezza dell’insoddisfazione che ha seguito il summit dipende dalle aspettative disattese, che sono notevoli e alimentate dal percorso che ha condotto a questo appuntamento. Tale percorso può essere suddiviso in due tappe: la nomina (nell’autunno del 2003) di un High Level Panel on Threats, Challenges and Change, che ha prodotto un primo documento rielaborato dal segretariato generale che, nel marzo 2005, ha a sua volta offerto alla comunità internazionale In Larger Freedom. Il corposo rapporto del panel, intitolato A More Secure World: Our Shared Responsibility, contiene ben 101 raccomandazioni e presenta due caratteristiche principali:
1. adotta una concezione allargata delle minacce alla sicurezza, da cui fa discendere una crescente esigenza di prevenzione e dunque di governance dei problemi;
2. insiste sull’efficacia dell’azione multilaterale (entro le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite) per far fronte alle nuove minacce anche attraverso l’impiego della forza, rifiutando l’orientamento unilateralista che invece propende per un’interpretazione estensiva della legittima difesa (principio previsto all’art. 51).
In Larger Freedom rielabora le raccomandazioni e offre un progetto complessivo di riforma dell’organizzazione. Molti si sono chiesti se non fosse un errore, da parte del Segretario Generale, ingenerare l’aspettativa che una riforma complessiva fosse accessibile, pur sapendo che un accordo sarebbe stato molto difficile da raggiungere sulla maggior parte delle questioni indicate. In questa scelta si può vedere più un azzardo che un errore, in quanto ha prodotto effetti positivi importanti. Ha reso l’ONU protagonista della propria riforma, facendole rivestire un ruolo importante come attore della scena internazionale, oltre che come arena e strumento della comunità internazionale. Ciò riflette la centralità del multilateralismo, ma al contempo la ribadisce e rafforza, contrastando le interpretazioni che vorrebbero il tramonto di questa istituzione. In secondo luogo, è stata così definita un’agenda della riforma, un progetto complessivo e coerente rispetto al quale gli avanzamenti verranno misurati, adesso come in futuro: un vero e proprio punto di riferimento capace di dare visibilità a traguardi difficili da raggiungere. Le proposte contenute nel documento, seppure non recepite nell’immediato, diventano infatti importanti per la pubblicità che ricevono ed entrano a far parte del discorso politico internazionale (ingenerando aspettative nell’opinione pubblica): pensiamo a casi come la questione dello 0,7 per cento del PIL destinato ad aiuti pubblici allo sviluppo e il principio della responsibility to protect. Non bisogna quindi sottovalutare il valore politico del processo che ha condotto al summit. Passando all’appuntamento vero e proprio, vediamo quali sono stati i punti all'ordine del giorno: lo sviluppo, la disciplina dell'uso collettivo della forza e dell’autodifesa preventiva, la definizione del terrorismo allo scopo di concludere una convenzione generale, la responsibility to protect, il peacebuilding, la nonproliferazione e il disarmo, la tutela dei diritti umani, la riforma del Consiglio di Sicurezza e la riforma amministrativa dell’organizzazione. Non si è trovato un accordo su:
1. la disciplina dell’uso collettivo della forza e l’autodifesa preventiva;
2. la definizione di terrorismo in funzione della conclusione di una convenzione generale. Lo High Level Panel aveva proposto quella di «azione violenta indirizzata contro civili a fine politico», ma non è stata accettata da tutti gli stati membri;
3. la nonproliferazione e il disarmo;
4. la riforma del Consiglio di Sicurezza;
5. la riforma amministrativa dell’organizzazione.
È stato invece raggiunto un accordo su:
1. sviluppo: sono stati ribaditi i Millennium Development Goals e i membri si sono reimpegnati ad arrivare a destinare, come previsto dal Monterrey Consensus, lo 0,7 per cento del proprio PIL in aiuti pubblici allo sviluppo entro il 2015;
2. responsibility to protect: si tratta del dovere di intervento umanitario che si declina in due modi: da un lato, l’attenzione degli stati nei confronti dei propri cittadini, dall’altro gli stati terzi si dichiarano disposti ad agire (prepared to take action) nel caso in cui vi sia una violazione dei diritti umani;
3. peacebuilding: è stata istituita una Commissione che dovrebbe diventare operativa entro la fine del 2005, anche se ancora non è stato chiarito se questa debba operare sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea Generale. La Commissione sarà comunque integrata dal Fondo per la Democrazia e risulta necessaria perché i fatti dimostrano che oggi la metà dei paesi che escono da un conflitto vi ricadono entro cinque anni e l’implementazione degli accordi di pace, spesso rimasti su carta, salverebbe milioni di persone (nel caso del Ruanda e dell’Angola, si parla di tre milioni di vittime in meno);
4. tutela dei diritti umani: la proposta è quella di sostituire l’attuale Commissione per i diritti umani — screditata dalla presenza, al suo interno, di rappresentanti di stati che violano quegli stessi diritti — con un Consiglio costituito unicamente dai paesi che li rispettano. Egitto, Pakistan, Cina e Russia (quattro alleati degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo) si sono però dichiarati contrari a che questo organo diventi permanente.
Nel bilancio generale del summit, che resta comunque negativo, pesa molto il mancato accordo sulla riforma del Consiglio di Sicurezza, tra tutti gli organi delle Nazioni Unite quello più centrale ma anche il più datato (basti pensare al potere di veto che, ancora oggi, resta nelle mani dei cinque membri permanenti, cioè i vincitori della Seconda guerra mondiale) e indebolito dalla sua scarsa rappresentatività. L’ultima riforma del CdS risale al 1963 (ed è entrata in vigore nel 1965) e ha determinato il passaggio da 11 stati membri a 15 (sono, cioè, stati aggiunti altri quattro membri non permanenti), a fronte di un incremento della membership dell’organizzazione di 61 unità (da 51 a 112): la ratio originaria era dunque 1/5, mentre oggi supera 1/12! La percezione di una bassa rappresentatività del CdS incide sulla legittimità di un organo che deve prendere decisioni in una situazione sempre più delicata quanto a impiego della forza (in azioni preventive, intrusive e contro stati in conflitti asimmetrici). Se si vuole evitare che venga data un’interpretazione troppo estensiva dell’art. 51 è necessario un CdS più efficiente e la cui autorevolezza sia universalmente riconosciuta. Le alternative di riforma sono tre: il cosiddetto quick fix (proposto dagli Stati Uniti, che vorrebbero concedere un solo seggio permanente al Giappone, peraltro non interessato al potere di veto), che incontra l’opposizione della Cina; il G4 + Africa, che prevederebbe un incremento dei seggi a 24 unità totali (quattro sarebbero assegnati a India, Brasile, Germania, Giappone, due a stati africani, più tre seggi non permanenti), che si scontra con l’opposizione di potenze regionali come il Pakistan e il Messico e con gli stati che già fanno parte del CdS; la proposta Uniting for Consensus, promossa dall’Italia, che prevede l’aggiunta di otto membri semipermanenti e uno non permanente (quest’ultima pare essere, a oggi, l’unica opzione praticabile).
Il risultato finale del summit, contenuto nell’Outcome Document, è dunque modestissimo. Questo fallimento è dato dal fatto che 191 stati, portatori di interessi diversi, non sono riusciti a trovare un comune denominatore. Eppure il multilateralismo, trasposizione sul piano internazionale di una versione elementare di democrazia procedurale, non può che diventare sempre più importante, questo per due ragioni:
1. la democrazia si sta affermando come modello sul piano interno, non avendo più alternative considerate accettabili; come sostenere che una comunità di stati costituita da un numero sempre maggiore di democrazie possa accettare una modalità di conduzione delle relazioni internazionali non ispirata ai valori democratici?
2. l’obiettivo delle politiche estere dei paesi più forti è, oggi, la democratizzazione. La ragione di tale scelta è che le democrazie praticano una politica estera multilateralista, ma questa è possibile unicamente nel quadro di un complessivo multilateralismo che, inoltre, è l’unico modello in grado di legittimare interventi sempre più intrusivi.
Come affrontare una situazione tanto complessa? Una delle proposte è quella di creare una «Alleanza delle democrazie», che potrebbe essere istituita all’interno delle Nazioni Unite (su 191 membri, 118 sono democrazie elettorali e 88 sono paesi liberi, secondo Freedom House) o in un’organizzazione parallela. Nel primo caso sappiamo bene che, purtroppo, l’adesione ai principi democratici non fa premio sugli interessi; nel secondo, la nuova organizzazione godrebbe di una libertà d’azione estremamente limitata, poiché non potrebbe esimere i membri dall’assolvimento degli obblighi previsti dalla Carta ONU. D’altra parte, nessuno degli stati membri vuole disfarsi delle Nazioni Unite, neanche gli Stati Uniti: basti pensare all’ipotesi di deferimento al Consiglio di Sicurezza dell’Iran per la questione della proliferazione nucleare caldeggiata proprio dagli USA. L’universalità conserva il proprio valore e la strategia dell’inclusione sembra essere ancora quella dominante.
Naturalmente, non tutti pensano che valga la pena continuare ad affannarsi attorno all’ONU: per Joshua Muravchik, ad esempio, il punto non è riformare l’organizzazione, quanto piuttosto liberalizzarla, così che possa trasformarsi in un’istituzione analoga al libero mercato. Questa deregolamentazione della politica internazionale non è certo un concetto nuovo: si chiama anarchia, e sappiamo quali conseguenze nefaste comporti. Certamente, il controvertice organizzato da Clinton (Clinton Global Initiative) negli stessi giorni del summit la dice lunga sull’insoddisfazione che comporta, anche per i politici, agire non dentro l’ONU ma nella logica della vecchia politica interstatale – chiamiamola pure la classica politica di potenza. Il vertice delle Nazioni Unite replicava un po’ quelle scene viste nei film in costume in cui gli aristocratici celebrano i loro riti mentre fuori infuria la rivoluzione. Per concludere, chiediamoci a che cosa serva oggi uno strumento come l’ONU, che la comunità internazionale è incapace di rendere più efficiente. Possiamo continuare a considerarlo un palcoscenico per «act out differences», come ha detto il Segretario Annan? È ragionevole continuare a trattarlo come una realtà artificiale che sostituisce il mondo reale di cui la politica internazionale farebbe bene ad occuparsi? Forse sarebbe il caso di riprendere il modello delle vecchie conferenze permanenti dalle quali le organizzazioni internazionali sono nate, quando gli stati si ritrovavano per risolvere problemi pratici. I quali, come abbiamo detto, oggi non mancano.