Il mondo è cambiato, ma non abbastanza

Sintesi dell'intervento di Anna Caffarena al seminario del 23 settembre 2002: «11 settembre, un anno dopo»

 

L’11 settembre ha cambiato il mondo, ma non abbastanza. Questo il titolo dell’articolo che apre l’Economist del 7 settembre 2002, nel quale si svolge il seguente ragionamento: nel bilancio dell’ultimo anno, la maggior parte degli aspetti positivi risiedono in ciò che temevamo potesse accadere e che non è capitato. L’America non ha imboccato la via dell’isolazionismo, la globalizzazione non ha subito una sostanziale battuta d’arresto, l’intervento americano in Afghanistan non ha prodotto una sollevazione popolare nei paesi islamici. Ciò che invece non è cambiato, a un anno di distanza dall’attacco, è che il terrorismo non è vinto e potrebbe tornare a colpire.
Per modificare questo stato di cose, l’Economist affida implicitamente (e fiduciosamente) agli USA tre compiti ben precisi: affrontare in maniera definitiva i problemi costituiti dall’Iraq e dal conflitto israelo-palestinese oltre a promuovere il cambiamento nei paesi arabi, perché regimi non democratici e corrotti sono terreno fertile per il reclutamento delle organizzazioni terroristiche.
Esistono tuttavia i presupposti affinché i problemi indicati (e molti altri che sono sul tappeto) vengano affrontati in modo adeguato? Parrebbe proprio di no, e ciò essenzialmente perché l’11 settembre ha cambiato il mondo, ma non abbastanza. Non abbastanza cioè da costringere gli Stati Uniti ad adeguare le
proprie politiche al contesto internazionale attuale, svelato e in parte trasformato dall’attacco alle Torri.
Nel periodo 89-2001 il sistema internazionale non ha assunto una fisionomia precisa: gli Stati Uniti da una parte apparivano disorientati dal venir meno del ruolo storico di antagonisti dell’Unione Sovietica e dall’altra, liberati dal gravosissimo compito di tener testa al nemico nella corsa agli armamenti, privilegiavano la dimensione interna. Pur chiaramente potenza preponderante, esitavano ad assumere la leadership di un nuovo sistema unipolare. Protetti da una posizione geografica quasi insulare, ritenevano di non avere nulla da temere direttamente dagli sconvolgimenti che in questo periodo hanno provocato quasi cento guerre civili un po’ ovunque sul pianeta.
L’11 settembre, avendo radicalmente cambiato la condizione statunitense (abbattendo l’idea della loro invulnerabilità insieme alle Torri), ha offerto agli Stati Uniti nuove motivazioni per occuparsi del mondo insieme ad una nuova determinazione. Il primo effetto immediato è stato l’intervento in Afghanistan, condotto con un amplissimo sostegno della comunità internazionale quale azione per stanare gli appartenenti ad Al Qaeda e metter fine al fragile governo dei talebani loro complici e sostenitori.
Una strategia razionale in un’ottica di medio periodo avrebbe dovuto, tuttavia, prevedere e affiancare un progetto (con adeguato sostegno finanziario) per far uscire l’Afghanistan da quella condizione di failed state che si è convenuto essere ideale come ricettacolo dei mali del mondo. In realtà, come è stato da più parti sottolineato, gli Stati Uniti sono sempre più attrezzati per fare la guerra, ma sempre meno preparati e fors’anche interessati a lavorare per costruire la pace nei vari contesti di crisi.
L’intervento armato in Afghanistan, oltre ad aver indotto alla fuga molti dei ricercati, facendone perdere di fatto le tracce, è stato seguito dall’esplicita teorizzazione del non interesse americano per il processo di institution building – il quale solo può scongiurare il ripetersi della vicenda che il paese ha già sperimentato dopo la fine della dominazione sovietica. Il risultato attuale è il controllo limitato del territorio da parte del governo, la mancanza di aiuti funzionali alla ricostruzione (salvo interventi "tampone" per le emergenze sanitarie/alimentari), ampio spazio di manovra politico-militare per i signori della guerra. Quest’ottica di breve
periodo priva di gran parte del suo significato l’intervento in Afghanistan e alimenta le preoccupazioni, soprattutto europee, rispetto ad un analogo intervento in Iraq che rischia di rivelarsi destabilizzante e basta.
L’intervento in Afghanistan ha inoltre indotto gli USA ad allacciare nuovi rapporti o rafforzarne di vecchi con regimi di fatto non democratici in paesi come lo stesso Pakistan e altri dell’Asia Centrale, specialmente Uzbekistan e Kirghizistan. Questo crea reazioni profondamente negative nei ceti medi istruiti
di questi paesi, più sensibili al discorso democratico e sui quali si dovrebbe necessariamente puntare come alleati, se la strategia americana fosse davvero far leva sulla democratizzazione per garantire la pace (come sostiene Kissinger), mentre pare che gli Stati Uniti riservino per sé la democrazia, accettando
invece di appoggiarsi a regimi non democratici purché garantiscano fedeltà alla causa.
L’atteggiamento disinvolto dell’America è la logica conseguenza del principio, mai rivendicato con altrettanta forza in anni recenti, della prevalenza dell’interesse nazionale rispetto all’attenzione per la
dimensione multilaterale della politica internazionale. Anche il mal celato disinteresse per la soluzione del conflitto israelo-palestinese è un segno di miopia politica: non vengono incentivate quelle trasformazioni che costituiscono un prerequisito per tagliare alla radice le ragioni dello scontento che alimentano reazioni estreme, dal fondamentalismo politico all’adesione al terrorismo.
In sostanza in gioco c’è oggi la riconfigurazione di quell’ordine internazionale che dopo l’89 era rimasto indeterminato: che ruolo assumerà l’America? E gli altri attori? A quale ruolo saranno relegati o quale saranno indotti ad assumere?
Il mondo è cambiato, dunque, ma non abbastanza: non abbastanza da rendere assolutamente manifesto, anche agli occhi dell’amministrazione Bush, "il paradosso del potere americano" messo così bene in rilievo da Joseph S. Nye Jr. nel suo lavoro recentissimamente tradotto in italiano. Gli Stati Uniti
da soli non possono affrontare nessun problema davvero significativo, ma finora il potere d’attrazione che hanno saputo esercitare si è rivelato preziosissimo: senza imposizioni hanno indotto larga parte della comunità internazionale a volere proprio ciò che interessava loro. Un ritorno all’esercizio unilaterale e arrogante del potere mette in pericolo proprio questo aspetto, una piega che costringerà sempre più, in futuro, gli Stati Uniti a ricorrere a strategie coercitive, maggiormente costose e difficili da
realizzare.

Main partner