Sintesi dell'intervento di Giorgio S. Frankel al seminario del 23 settembre 2002: «11 settembre, un anno dopo» L’attenzione del mondo è oggi focalizzata sulla "crisi irachena", o, più precisamente, sulla reiterata volontà americana di attaccare l’Iraq e il quesito chiave è se questa guerra sia inevitabile
oppure può essere scongiurata.
La guerra all’Iraq sembra oggi quasi inevitabile: Saddam ben difficilmente cederà alle richieste degli USA.
In primo luogo, dopo aver accettato le ispezioni ONU in passato, Saddam ha preferito restare sotto assedio, far subire al paese le sanzioni economiche e i periodici bombardamenti anglo-americani piuttosto che
rinunciare del tutto alle sue armi o ai programmi in corso per dotarsene. Finché possiede armi per distruzioni di massa o il mondo crede le abbia, esse sono un possibile deterrente contro un’invasione dell’Iraq. Il suo benestare al ritorno incondizionato degli ispettori ONU è, quasi certamente, un tentativo di
guadagnare tempo prezioso nella speranza che l’offensiva americana perda colpi e si arresti. In linea di principio potrebbe anche farcela, avendo tempo davanti e concedendo qualcosa agli ispettori: potrebbe anche ottenere in cambio una parziale revisione delle sanzioni – con l’aiuto di Francia, Cina e Russia.
In secondo luogo, ben difficilmente Saddam - al potere da 30 anni e passato indenne tra guerra con l’Iran (1980-88), guerra del Golfo (1990-1991), rivolte di curdi e sciiti, veri o presunti complotti – verrà rovesciato da un colpo di stato o da un’insurrezione popolare senza bisogno di una guerra.
In terzo luogo, Bush si è spinto troppo avanti nella sua retorica di guerra. Rinunciare ora lasciando Saddam al potere sarebbe una vera catastrofe per la politica estera americana: l’amministrazione Bush perderebbe
credibilità a livello globale e i sentimenti anti-americani nei paesi arabi e islamici si sentirebbero vendicati e incoraggiati dalla "vittoria" di Saddam sugli Stati Uniti e, in definitiva, sull’ideologia occidentale.
La lunga escalation politica anti-Iraq condotta dagli USA dopo l’11 Settembre non ha tuttavia riscosso alcun successo politico. Cosa spinge dunque Bush a focalizzarsi sempre più sull’opzione della guerra, anche a
costo di mettersi in urto con gli europei, i russi e gli arabi? Di giustificazioni ne esistono - Saddam è un criminale pericoloso, un oppressore che cerca di dotarsi di armi nucleari, e via dicendo - ma queste erano valide anche prima dell’11 Settembre: gli americani, infatti, dopo la guerra del Golfo si sono sempre accontentati di "tenere Saddam chiuso nella sua gabbia" (Madeleine Albright). Solamente dopo gli attentati terroristici alle Torri la guerra è diventata impellente, anche se il presunto legame tra Saddam Hussein e Osama bin Laden (politicamente inverosimile essendo Saddam un ‘estremista laico’) non è stato mai provato e questa teoria è venuta progressivamente meno.
Se la decisione americana è ormai irreversibile, e dunque la guerra inevitabile, come si può ipotizzare che verrà condotta?
L’Arabia Saudita e il Kuwait non sembrano disposti a permettere che l’attacco all’Iraq parta dal loro territorio se non nell’ipotesi di una risoluzione ONU che appoggi la guerra. Se dunque le operazioni terrestri non possono essere appoggiate da sud, altrettanto problematica dal punto di vista politico e militare sarebbe un’invasione da nord, cioè dalla Turchia.
Resta l’opzione di attaccare l’Iraq da ovest, cioè dalla Giordania. Dal punto di vista logistico e militare risulterebbe la soluzione migliore. Vorrà il giovane monarca giordano assumersi questo ruolo? La
Giordania potrebbe anche essere costretta a fare da base per lo sbarco terrestre: ad esempio, in seguito ad un attacco sferrato da Israele (che aprirebbe agli USA un corridoio che va dal porto di Haifa al confine tra
Giordania e Iraq); oppure per l’arrivo di forze anglo-americani, che potrebbero entrare nel paese con il pretesto di proteggerlo da eventuali minacce irachene.
Le implicazioni per il Medio Oriente dell’eventuale guerra all’Iraq posso essere viste da due ottiche diametralmente opposte. Il primo approccio considera l’attacco all’Iraq il nucleo strategico dell’operazione e il rischio di destabilizzazione del Medio Oriente che ne potrebbe seguire solo un possibile effetto del conflitto iracheno, non necessariamente voluto a priori.
Situazioni attualmente critiche nell’area sono ad esempio innanzitutto la recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, con lo smantellamento dell’Autonomia palestinese, la probabile rioccupazione dei
territori e il ‘trasferimento’ forzato della popolazione palestinese verso la Giordania; ma anche la situazione in Giordania - riuscirà la monarchia a resistere ai contraccolpi interni della guerra e sostenere contestualmente l’impatto del conflitto israelo-palestinese? – e in Arabia Saudita: che
problemi sorgeranno dalla successione a re Fahd, anche considerando la mutata situazione economica e sociale interna? Infine altre crisi potrebbero aprirsi in Pakistan o in Egitto.
Per la seconda ipotesi, invece, la guerra all’Iraq è solo un elemento - non necessariamente il più importante -, un dispositivo di accensione di una ‘grande strategia’ che contempla fin dall’inizio un più vasto conflitto per il controllo del Medio Oriente. In questo caso si avrebbe una guerra più o meno generale dei paesi arabi e/o islamici che verrebbe condotta dagli USA e da Israele con il supporto della Gran Bretagna e, forse,
della Turchia, forse insieme a qualche paese arabo minore (avente un ruolo passivo) che potrebbe anche essere cancellato dalla cartina geografica nel corso del conflitto (es. Bahrein, Qatar, EAU e ipoteticamente anche Giordania). Gli scopi strategici di questo grande conflitto si potrebbero sintetizzare come
segue:
• occasione per annientare, sia sul piano militare ed ideologico che politico ed economico, il ‘potere arabo e islamico’ cresciuto negli ultimi 30 anni;
• per gli USA, possibilità di arrivare ad un più vasto controllo del petrolio del Golfo dall’Iraq all’Arabia Saudita, equivalente a più del 50% delle riserve mondiali: da una parte l’Amministrazione Bush è intrisa di ‘cultura petrolifera’ e dall’altra la Russia, con la quale sono stati stretti degli accordi di partnership petrolifera, non è un’alternativa sufficiente all’Arabia Saudita. Inoltre gli USA rafforzerebbero la loro presenza nel Caucaso e in Asia Centrale (aree in cui sono già penetrati grazie alla guerra in Afganistan);
• per Israele, rappresenterebbe la fine della ‘minaccia’ araba e soprattutto della questione palestinese, con la definitiva occupazione e poi annessione di Gaza e della Cisgiordania e l’espulsione dei palestinesi in Giordania.
La speranza è naturalmente che il conflitto non si inneschi: ma, come scenario tecnico, quello della ‘grande guerra mediorientale’ sembra, purtroppo, abbastanza realistico.
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