Israele e le sue sfide sociali: oggi e domani

Note dal seminario del 21 febbraio 2002 tenuto da Sergio Della Pergola

Sergio Della Pergola, 60 anni, nato in Italia, dal 1966 risiede in Israele. Specialista di fama internazionale, si occupa di demografia delle comunità ebraiche, argomento sul quale ha pubblicato numerosi libri, monografie, papers e tenuto lezioni e conferenze in oltre 40 università e centri di ricerca in tutto il mondo. Per gli insigni risultati dei suoi studi gli è stato attribuito nel 1999 il Marshall Sklare Award dall’Association for the Social Scientific Study of Jewry.
La popolazione ebraica a fine XIX secolo era di circa 10 milioni di persone. A fine anni trenta saliva a 16 milioni; scesa ad 11 dopo la seconda guerra mondiale, cresce per circa vent'anni e poi si stabilizza attualmente sui 13 milioni, con un tasso di crescita prossimo allo zero. Considerando anche soltanto la storia di questi ultimi cento anni, il popolo ebraico ha sperimentato grosse migrazioni in seguito a momenti di forte cambiamento o destabilizzazione. Ne ricordiamo tre particolarmente significativi, in cui il flusso migratorio ha toccato i valori massimi, nonostante all’origine ci fossero motivazioni storiche e socio-politiche ben diverse:
all’inizio del XX secolo, con la fine dei regimi assolutistici europei e la grande crescita della società americana. Questa fase si interrompe con la prima guerra mondiale e l’introduzione di limitazioni all’immigrazione negli Stati Uniti;
dopo la seconda guerra mondiale, con la nascita dello stato di Israele;
all’inizio degli anni novanta, con la fine dell’Unione Sovietica: in questo periodo quasi un milione di persone migra in gran parte verso Israele, e le numerose comunità esistenti storicamente in Europa orientale perdono quasi due terzi dei loro componenti.
Israele è passato da circa mezzo milione di abitanti all’inizio della sua storia ai 6,5 milioni odierni, di cui circa 5 milioni sono rappresentati da popolazione ebraica: la "spinta" all’immigrazione verso Israele è infatti sia di natura socio-economica che ideale. Di entità analoga (tra i 5 e i 6 milioni) è la dimensione della comunità ebraica americana. Solo negli ultimi quarant'anni si è venuta a creare questa "selezione" geografica, con due "poli" principali e il resto della popolazione ebraica disperso in varie parti del mondo più sviluppato economicamente (es. in Francia e Canada). Nel mondo la comunità ebraica è in diminuzione, sia per un problema di invecchiamento (comune ai paesi più avanzati) che di erosione di identità.
In Israele si è avuto un successivo e massiccio arrivo di popolazione ebraica appartenente a gruppi diversi: oltre agli europei (molti dell’Est), gli africani (soprattutto dal Marocco e poi da Egitto e Tunisia) e gli asiatici (da Iraq, Yemen, Siria e Libano e negli ultimi dieci anni dalle repubbliche caucasiche). Queste migrazioni hanno comportato un grosso sforzo di adattamento delle politiche sociali e di programmazione del paese, anche perché il flusso migratorio in uscita da Israele non supera il 7-9% annuo: questo dato naturalmente sconta il fatto che molti non potrebbero tornare nel paese dal quale sono emigrati.
Le differenze continuano a esserci, ma alcuni indicatori segnalano dei cambiamenti: ad esempio l’indice di nuzialità infra gruppi (passato dal 10 a 50%) mostra un avvicinamento. Il tasso di fecondità femminile, dalle notevoli differenze iniziali tra i gruppi europeo (bassa fecondità) e afroasiatico (alta), già a partire dagli anni ottanta è meno dissimile; se si osserva il numero di figli di genitori a loro volta già nati in Israele, si nota che il tasso è assolutamente sovrapponibile. Anche gli indicatori scolastici indicano che qualcosa si sta muovendo, soprattutto nella diminuzione del ritardo dei giovani appartenenti alla comunità afroasiatica a raggiungere un titolo di studio (maturità o laurea).
Per quanto riguarda il reddito pro capite, entrambi i gruppi hanno nel corso dei decenni avuto dei miglioramenti, più marcati tuttavia per le classi sociali abbienti: un gap che ha allargato la forbice tra i redditi. Le categorie più svantaggiate restano gli arabi musulmani e gli ebrei ultraortodossi (normalmente con famiglie molto numerose), sui quali è tuttavia difficile incidere con politiche sociali in quanto la numerosità della famiglia è dettata da esigenze religiose, culturali e simboliche.
Attualmente la situazione è complicata dal conflitto in corso e dalla conseguente recessione economica, in cui la disoccupazione è risalita al 10% (secondo peggior dato dalla nascita di Israele). La percentuale è ancora più grave tenendo conto che molti disoccupati sono persone di recente immigrazione, e di conseguenza senza risparmi o altre risorse per far fronte ad una temporanea mancanza di lavoro. Inoltre anche in Israele si vive oggi il fenomeno dell’immigrazione clandestina: si parla di 200-300.000 lavoratori "pendolari" di cui almeno la metà illegali. Questi formano delle comunità abbastanza pittoresche (nigeriani, turchi, rumeni, cinesi…), scarsamente intenzionate ad integrarsi, che si sono inserite nelle fasce di lavori più umili dove manca la manodopera o è insufficiente per il venir meno, con il conflitto, dei lavoratori palestinesi.
Politicamente esiste anche un problema legato all’attuale sistema elettorale, che concede due preferenze distinte – una per il primo ministro e una per il parlamento. In questo modo si è favorita la nascita di numerose liste, con programmi più limitati e la conseguente parcellizzazione dei voti che rende più difficile il governare. Proprio per ridurre il numero dei partiti "etnici" (solo di estrazione russa esistono adesso tre liste) si sta discutendo di tornare a una sola preferenza di lista, ma bisognerà vedere se sarà fattibile per le elezioni del 2003 o se la riforma sarà rimandata alle elezioni ancora successive.

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