Privatizzazione della guerra, privatizzazione della pace

Sintesi del seminario tenutosi presso il Centro Einaudi l'11 ottobre 2004. Relazioni introduttive: Fabio Armao e Luca Rastello

Fabio Armao / Terroristi e mercenari ai tempi della globalizzazione. Vorrei cominciare da alcune considerazioni generali sul nuovo ordine internazionale e sui nuovi attori che si occupano della privatizzazione della violenza: terroristi e mercenari.

Quando si può dire che sia nato il nuovo sistema internazionale? Le interpretazioni su questo punto sono discordanti, indicando alcuni il 1989 e l’implosione dell’Unione Sovietica, altri l’11 settembre 2001. Quest’ultima data ha segnato l’inizio della cosiddetta guerra globale al terrorismo, la quale sarebbe per molti studiosi una "guerra costituente". Io parto invece dall’ipotesi di fondo che questa interpretazione non sia valida e che si debba invece considerare il 1989 come l’avvio di un cambiamento profondo che ha causato il crollo dell’intero sistema bipolare (quindi gli attori sconfitti sono stati due: sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica). In quest’ottica, l’11 settembre 2001 è semplicemente una conseguenza delle regole imposte dal nuovo ordine internazionale, nel quale l’unico vero vincitore è il sistema capitalistico: la stessa sconfitta dell’Unione Sovietica è stata causata più dalla corsa agli armamenti propria della guerra fredda che da uno scontro militare.

Il sistema capitalistico ha condotto a una sempre maggiore privatizzazione della politica, la quale ha a sua volta provocato una privatizzazione della guerra: se, infatti, la politica si riduce al mercato, lo fa anche la violenza e ciò porta anche in tale settore a una proliferazione di "marchi" privati.

Gli attori che privatizzano la violenza sono i nuovi mercenari (ossia le compagnie militari private) e i terroristi. Pur essendo una tesi discutibile, si può infatti sostenere che, anche nel caso del terrorismo, ci si trovi di fronte a veri e propri network privati, che derivano la propria forza dalla capacità di presentarsi come difensori delle masse diseredate, emulando meccanismi economici subdoli come le piramidali: convincono al sacrificio oggi promettendo un beneficio futuro. Questo sviluppo verso forme privatizzate di violenza non è un ritorno a forme già conosciute in passato poiché, se è vero che i mercenari esistono da sempre, durante il medioevo la struttura del sistema internazionale si basava più sulla politica che sul mercato. Il mercato della violenza odierno è caratterizzato, come tutti i mercati, da un incontro di domanda e offerta: domanda di protezione, offerta di minaccia. Ne deriva che più un ambiente è insicuro, più si moltiplicano le offerte di sicurezza; ma essendo l’esercizio stesso della violenza una minaccia alla sicurezza, i medesimi attori si trovano a produrre sia protezione sia violenza, in un circolo che si autoalimenta.

Il mercato della violenza richiede attori professionisti, che non abbiano inibizioni a uccidere e che siano ben addestrati. Molti di questi attori provengono dagli eserciti nazionali: nel caso dell’ex Unione Sovietica, successivamente alla crisi politica si è avuta una grande disoccupazione nel settore militare, per cui gli ufficiali senza più lavoro hanno spesso optato per le compagnie militari private (private military companies, PMC); negli Stati Uniti, lo Stato paga l’addestramento di militari che, dopo quattro o cinque anni di servizio nell’esercito, si offrono sul mercato privato, dove guadagnano molto di più (basti pensare, ad esempio, che un berretto verde guadagna 50.000 dollari annui se lavora per lo Stato e ben 1.000 dollari al giorno se lavora per una compagnia militare privata).

Nel mercato di cui parlo la violenza non è dunque mai fine a se stessa, è soltanto uno strumento per produrre profitti, il che permette l’instaurarsi di una relazione triadica in cui si inserisce la figura del committente, che oramai non è più solo lo Stato (il quale, ci tornerò fra poco, abbandona il monopolio legittimo della forza fisica), ma anche, ad esempio, le multinazionali. Le PMC riescono infatti a lavorare per più committenti grazie all’immagine pubblica "pulita" che cercano di dare di se stesse: si tratta di vere e proprie imprese che lavorano il più delle volte tramite meccanismi di subappalto a "ditte" locali, il che porta spesso a una perdita di controllo della "forza lavoro" impiegata. Il terrorismo, invece, agisce in franchising rispetto alla grande firma di Al Qaeda, la quale sigla gli attentati dei gruppi locali che, a loro volta, usano in tal modo un marchio conosciuto, dando l’impressione di far parte di una rete potentissima e ramificata.

Come dicevo prima, anche gli Stati si rivolgono alle PMC per abbattere i costi degli apparati militari, cominciando a praticare l’outsourcing nel settore della logistica per poi passare a operazioni più delicate. In tal modo, lo Stato perde il controllo delle forze armate, anche in termini di linee di comando: Rumsfeld ha adottato questo sistema in Iraq, coi risultati che conosciamo, per la semplice ragione che le spese per l’impiego delle PMC non rientrano nel bilancio corrente, facendo apparire in tal modo la guerra molto meno costosa di quanto sia in realtà.

In generale, il professionismo nel mercato della violenza non lascia spazio alle passioni e alle ideologie (anche i terroristi sono freddi e calcolatori). La privatizzazione della violenza coinvolge in modo crescente la società civile (cioè l’ambito tipico del mercato): ciò porta a cercare dei bersagli civili, colti nella loro realtà quotidiana, per cui in questo tipo di azione non c’è nulla di politico. Ciononostante, il totale delle vittime potrebbe diventare, nel lungo periodo, maggiore che nelle guerre tradizionali.


Luca Rastello / Volontari e cooperanti sui nuovi teatri di guerra. Mi collego al discorso di Armao sulla mancanza di passione dei professionisti della violenza per affermare che passione c’è invece, intuitivamente, nell’azione di pace. Un’analisi del mondo della pace (il quale viene etichettato in vari modi, che io userò tutti indistintamente) porta tuttavia ad alcune contraddizioni rispetto a quest’ipotesi di partenza.

La specializzazione militare è un dato acquisito, basti citare Mini che parla di "proiezione di potenza", considerando la guerra come un modo per spostare la potenza da una parte all’altra del pianeta. In questo contesto, Mini afferma che la funzione di combattimento va sempre più privatizzandosi, assumendo una professionalità maggiore. La pianificazione di un intervento bellico comprende oggi elementi civili ma anche il rapporto con la società civile: occorre cioè tener conto degli attori civili come attori terzi locali e globali, in veste di organizzazioni pacifiste, sociali, organizzazioni politiche e sociali internazionali, che hanno una capacità di intervento pratico nelle situazioni di crisi. Il settore SIMIC (cooperazione civile e militare) riguarda non solo la ricostruzione del settore civile di un paese distrutto, ma anche l’organizzazione pratica della ricostruzione di scuole, ospedali, strutture insomma, in collaborazione con attori locali e globali. I reparti SIMIC oggi diventano sempre più indipendenti dalla NATO e ciò dipende anche dalla creazione del consenso in loco. Le guerre oggi si presentano come interventi di ristabilimento di un ordine perduto, per cui occorre la presenza di partner civili organizzati sui territori di crisi come elemento funzionale alle operazioni militari (basti pensare alle ONG e ONLUS italiane che intervengono in situazioni di conflitto). Nella società civile è in corso un processo riorganizzativo sul modello del mercato capitalista, volto ad acquisire una capacità di autosostentamento data dall’incontro di domanda e offerta di socialità. Si è affermata quindi, negli anni Novanta, l’utopia dell’impresa sociale strutturata sul modello aziendale: a tal proposito Giulio Marconi ha parlato di "utopia del bel fare". Negli anni Novanta, due fenomeni hanno influenzato il volontariato in Italia:


1) la guerra nei Balcani, un territorio vicinissimo a noi. Le associazioni italiane si sono confrontate per la prima volta con realtà raggiungibili anche senza le strutture proprie delle grandi ONG: è nata la tendenza a intervenire;

2) le associazioni sono state investite di responsabilità importanti da parte della politica nazionale: si è voluto scaricare sul terzo settore la riforma del welfare, essendo quest’ultimo coinvolto anche nella riforma del mercato del lavoro. Il terzo settore forniva un’immagine forte di volontari che muoiono per la pace; questo "marchio" è diventato un’insegna in grado di attrarre finanziamenti e consenso politico ed è stato utilizzato come portabandiera per un’imbarazzante riforma del welfare.

In tale contesto, il terzo settore si ritrova oggi investito di troppa importanza e rivela sei contraddizioni interne:


1) l’organizzazione del lavoro;

2) la democrazia interna, in quanto non ci sono regole che la garantiscano;

3) il ruolo del carisma (ad esempio, una ONG come Emergency attrae più finanziamenti rispetto ad altre il cui leader sia meno conosciuto), di cui è stata fatta una critica in politica ma non per le ONG;

4) l’ambiguità sulle finalità, data dalla struttura che è quella tipica delle imprese e dalla dipendenza dai finanziamenti, il che rischia di far perdere di vista la socialità dell’azione;

5) la confusione ideologica dovuta alla discrepanza tra le finalità soggettive degli operatori, di tipo pacifista e anticapitalista, e le finalità oggettive, che si basano invece sul liberalismo;

6) la contiguità con l’azione militare: spesso e volentieri le ONG si trovano a realizzare gli obiettivi militari che vorrebbero contrastare. In Kosovo, ad esempio, agiscono 4.000 ONG accreditate, su un territorio grande quanto la provincia di Cuneo. Questo perché il movimento per la pace, che si oppose alla guerra in Kosovo considerandola come colonialista occidentale, è diventato successivamente un insieme di operatori economici su quello stesso territorio. Infatti, l’economia del Kosovo è oggi condizionata dal modello importato dalle ONG e dai militari, cioè da scelte fatte altrove: infine, il protettorato è stato realizzato!

Oggi si possono individuare due tipi di ONG, quelle che agiscono in situazioni di crisi, come Emergency, e quelle che si occupano invece di cooperazione allo sviluppo, come Un ponte per. Nelle situazioni di conflitto, esse diventano indistinguibili dai militari e considerate, alla stregua di questi, una forza di occupazione. Per questa ragione oggi molte ONG vogliono restare fuori dalle situazioni di guerra; sul punto si è aperto un ampio dibattito.

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