Fabio Armao / Terroristi e mercenari ai tempi della globalizzazione. Vorrei
cominciare da alcune considerazioni generali sul nuovo ordine
internazionale e sui nuovi attori che si occupano della privatizzazione
della violenza: terroristi e mercenari.
Quando si può dire che
sia nato il nuovo sistema internazionale? Le interpretazioni su questo
punto sono discordanti, indicando alcuni il 1989 e l’implosione
dell’Unione Sovietica, altri l’11 settembre 2001. Quest’ultima data ha
segnato l’inizio della cosiddetta guerra globale al terrorismo, la
quale sarebbe per molti studiosi una "guerra costituente". Io parto
invece dall’ipotesi di fondo che questa interpretazione non sia valida
e che si debba invece considerare il 1989 come l’avvio di un
cambiamento profondo che ha causato il crollo dell’intero sistema
bipolare (quindi gli attori sconfitti sono stati due: sia gli Stati
Uniti che l’Unione Sovietica). In quest’ottica, l’11 settembre 2001 è
semplicemente una conseguenza delle regole imposte dal nuovo ordine
internazionale, nel quale l’unico vero vincitore è il sistema
capitalistico: la stessa sconfitta dell’Unione Sovietica è stata
causata più dalla corsa agli armamenti propria della guerra fredda che
da uno scontro militare.
Il sistema capitalistico ha condotto a
una sempre maggiore privatizzazione della politica, la quale ha a sua
volta provocato una privatizzazione della guerra: se, infatti, la
politica si riduce al mercato, lo fa anche la violenza e ciò porta
anche in tale settore a una proliferazione di "marchi" privati.
Gli attori che privatizzano la violenza sono i nuovi mercenari (ossia
le compagnie militari private) e i terroristi. Pur essendo una tesi
discutibile, si può infatti sostenere che, anche nel caso del
terrorismo, ci si trovi di fronte a veri e propri network privati, che
derivano la propria forza dalla capacità di presentarsi come difensori
delle masse diseredate, emulando meccanismi economici subdoli come le
piramidali: convincono al sacrificio oggi promettendo un beneficio
futuro. Questo sviluppo verso forme privatizzate di violenza non è un
ritorno a forme già conosciute in passato poiché, se è vero che i
mercenari esistono da sempre, durante il medioevo la struttura del
sistema internazionale si basava più sulla politica che sul mercato. Il
mercato della violenza odierno è caratterizzato, come tutti i mercati,
da un incontro di domanda e offerta: domanda di protezione, offerta di
minaccia. Ne deriva che più un ambiente è insicuro, più si moltiplicano
le offerte di sicurezza; ma essendo l’esercizio stesso della violenza
una minaccia alla sicurezza, i medesimi attori si trovano a produrre sia protezione sia violenza, in un circolo che si autoalimenta.
Il mercato della violenza richiede attori professionisti, che non
abbiano inibizioni a uccidere e che siano ben addestrati. Molti di
questi attori provengono dagli eserciti nazionali: nel caso dell’ex
Unione Sovietica, successivamente alla crisi politica si è avuta una
grande disoccupazione nel settore militare, per cui gli ufficiali senza
più lavoro hanno spesso optato per le compagnie militari private (private military companies,
PMC); negli Stati Uniti, lo Stato paga l’addestramento di militari che,
dopo quattro o cinque anni di servizio nell’esercito, si offrono sul
mercato privato, dove guadagnano molto di più (basti pensare, ad
esempio, che un berretto verde guadagna 50.000 dollari annui se lavora
per lo Stato e ben 1.000 dollari al giorno se lavora per una compagnia
militare privata).
Nel mercato di cui parlo la violenza non è
dunque mai fine a se stessa, è soltanto uno strumento per produrre
profitti, il che permette l’instaurarsi di una relazione triadica in
cui si inserisce la figura del committente, che oramai non è più solo
lo Stato (il quale, ci tornerò fra poco, abbandona il monopolio
legittimo della forza fisica), ma anche, ad esempio, le multinazionali.
Le PMC riescono infatti a lavorare per più committenti grazie
all’immagine pubblica "pulita" che cercano di dare di se stesse: si
tratta di vere e proprie imprese che lavorano il più delle volte
tramite meccanismi di subappalto a "ditte" locali, il che porta spesso
a una perdita di controllo della "forza lavoro" impiegata. Il
terrorismo, invece, agisce in franchising rispetto alla grande
firma di Al Qaeda, la quale sigla gli attentati dei gruppi locali che,
a loro volta, usano in tal modo un marchio conosciuto, dando
l’impressione di far parte di una rete potentissima e ramificata.
Come dicevo prima, anche gli Stati si rivolgono alle PMC per abbattere
i costi degli apparati militari, cominciando a praticare l’outsourcing
nel settore della logistica per poi passare a operazioni più delicate.
In tal modo, lo Stato perde il controllo delle forze armate, anche in
termini di linee di comando: Rumsfeld ha adottato questo sistema in
Iraq, coi risultati che conosciamo, per la semplice ragione che le
spese per l’impiego delle PMC non rientrano nel bilancio corrente,
facendo apparire in tal modo la guerra molto meno costosa di quanto sia
in realtà.
In generale, il professionismo nel mercato della
violenza non lascia spazio alle passioni e alle ideologie (anche i
terroristi sono freddi e calcolatori). La privatizzazione della
violenza coinvolge in modo crescente la società civile (cioè l’ambito
tipico del mercato): ciò porta a cercare dei bersagli civili, colti
nella loro realtà quotidiana, per cui in questo tipo di azione non c’è
nulla di politico. Ciononostante, il totale delle vittime potrebbe
diventare, nel lungo periodo, maggiore che nelle guerre tradizionali.
Luca Rastello / Volontari e cooperanti sui nuovi teatri di guerra. Mi
collego al discorso di Armao sulla mancanza di passione dei
professionisti della violenza per affermare che passione c’è invece,
intuitivamente, nell’azione di pace. Un’analisi del mondo della pace
(il quale viene etichettato in vari modi, che io userò tutti
indistintamente) porta tuttavia ad alcune contraddizioni rispetto a
quest’ipotesi di partenza.
La specializzazione militare è un
dato acquisito, basti citare Mini che parla di "proiezione di potenza",
considerando la guerra come un modo per spostare la potenza da una
parte all’altra del pianeta. In questo contesto, Mini afferma che la
funzione di combattimento va sempre più privatizzandosi, assumendo una
professionalità maggiore. La pianificazione di un intervento bellico
comprende oggi elementi civili ma anche il rapporto con la società
civile: occorre cioè tener conto degli attori civili come attori terzi
locali e globali, in veste di organizzazioni pacifiste, sociali,
organizzazioni politiche e sociali internazionali, che hanno una
capacità di intervento pratico nelle situazioni di crisi. Il settore
SIMIC (cooperazione civile e militare) riguarda non solo la
ricostruzione del settore civile di un paese distrutto, ma anche
l’organizzazione pratica della ricostruzione di scuole, ospedali,
strutture insomma, in collaborazione con attori locali e globali. I
reparti SIMIC oggi diventano sempre più indipendenti dalla NATO e ciò
dipende anche dalla creazione del consenso in loco. Le guerre oggi si
presentano come interventi di ristabilimento di un ordine perduto, per
cui occorre la presenza di partner civili organizzati sui territori di
crisi come elemento funzionale alle operazioni militari (basti pensare
alle ONG e ONLUS italiane che intervengono in situazioni di conflitto).
Nella società civile è in corso un processo riorganizzativo sul modello
del mercato capitalista, volto ad acquisire una capacità di
autosostentamento data dall’incontro di domanda e offerta di socialità.
Si è affermata quindi, negli anni Novanta, l’utopia dell’impresa
sociale strutturata sul modello aziendale: a tal proposito Giulio
Marconi ha parlato di "utopia del bel fare". Negli anni Novanta, due
fenomeni hanno influenzato il volontariato in Italia:
1) la guerra nei Balcani, un territorio vicinissimo a noi. Le associazioni italiane si sono confrontate per la prima volta con realtà raggiungibili anche senza le strutture proprie delle grandi ONG: è nata la tendenza a intervenire;
2) le associazioni sono state investite di responsabilità importanti da parte della politica nazionale: si è voluto scaricare sul terzo settore la riforma del welfare, essendo quest’ultimo coinvolto anche nella riforma del mercato del lavoro. Il terzo settore forniva un’immagine forte di volontari che muoiono per la pace; questo "marchio" è diventato un’insegna in grado di attrarre finanziamenti e consenso politico ed è stato utilizzato come portabandiera per un’imbarazzante riforma del welfare.
In tale contesto, il terzo settore si ritrova oggi investito di troppa importanza e rivela sei contraddizioni interne:
1) l’organizzazione del lavoro;
2) la democrazia interna, in quanto non ci sono regole che la garantiscano;
3) il ruolo del carisma (ad esempio, una ONG come Emergency attrae più finanziamenti rispetto ad altre il cui leader sia meno conosciuto), di cui è stata fatta una critica in politica ma non per le ONG;
4) l’ambiguità sulle finalità, data dalla struttura che è quella tipica delle imprese e dalla dipendenza dai finanziamenti, il che rischia di far perdere di vista la socialità dell’azione;
5) la confusione ideologica dovuta alla discrepanza tra le finalità soggettive degli operatori, di tipo pacifista e anticapitalista, e le finalità oggettive, che si basano invece sul liberalismo;
6) la contiguità con l’azione militare: spesso e volentieri le ONG si trovano a realizzare gli obiettivi militari che vorrebbero contrastare. In Kosovo, ad esempio, agiscono 4.000 ONG accreditate, su un territorio grande quanto la provincia di Cuneo. Questo perché il movimento per la pace, che si oppose alla guerra in Kosovo considerandola come colonialista occidentale, è diventato successivamente un insieme di operatori economici su quello stesso territorio. Infatti, l’economia del Kosovo è oggi condizionata dal modello importato dalle ONG e dai militari, cioè da scelte fatte altrove: infine, il protettorato è stato realizzato!
Oggi si possono individuare due tipi di ONG, quelle che agiscono in situazioni di crisi, come Emergency, e quelle che si occupano invece di cooperazione allo sviluppo, come Un ponte per. Nelle situazioni di conflitto, esse diventano indistinguibili dai militari e considerate, alla stregua di questi, una forza di occupazione. Per questa ragione oggi molte ONG vogliono restare fuori dalle situazioni di guerra; sul punto si è aperto un ampio dibattito.