La politica economica che non c'è

La BCE non poteva fare diversamente. Il suo mandato parla chiaro. Con l'inflazione che marcia al 4% in Europa, l'inflation target al 2% imponeva di intervenire sul costo del denaro. A poco valgono le considerazioni -peraltro corrette - che l'inflazione sia per larga parte importata e derivi dall'aumento "esogeno" del prezzo del petrolio, delle materie prime e delle derrate agricole. Alto è infatti il rischio che l'inflazione importata per questo canale inneschi, attraverso effetti di seconda battuta, una spirale inflazionistica interna all'economia europea.

Quindi bisogna giocare d'anticipo, frenare le aspettative sul rincorrersi dei prezzi, evitare che queste si riverberino sui salari facendo in modo che le contrattazioni salariali possano incorporare un tasso di inflazione atteso più basso di quello attuale. Occorre fare soprattutto tesoro degli errori commessi durante le crisi petrolifere degli anni '70 non assecondando la crisi con politiche monetarie troppo lasche.
Detto ciò mi è parso che la BCE abbia interpretato il suo ruolo di custode della stabilità dei prezzi in Europa senza convinzione e con un certo disagio che l'ha infine portata ad aumentare i tassi il meno possibile - con una correzione dello 0,25% - per di più annunciando questo intervento con largo anticipo e non prospettando alcun ulteriore ritocco, quasi a volerne attutire ulteriormente paventatissimi effetti recessivi. Un mezzo passetto insomma, timido, obbligato e fatto malvolentieri, che rischia di far inciampare la macchina del governo delle aspettative inflazionistiche con effetti incerti e anche potenzialmente destabilizzanti.
Nel determinare questa decisione hanno certamente pesato le pressioni dei governi di mezza Europa - Francia in testa seguita in modo del tutto anomalo su questo fronte dalla Germania - per una politica monetaria più accomodante che mantenesse lo status quo. Per quanto Lorenzo Bini Smaghi si sia autorevolmente espresso sulle pagine del Riformista per riaffermare valori e benefici dell'indipendenza della BCE, l'intervento sul tasso di sconto per le modalità con cui è stato attuato, mi è sembrato rispondere poco e male all'andamento dell'inflazione e della massa monetaria ed essere invece condizionato da altre priorità. Il contesto di forte decelerazione dei tassi di crescita nel continente europeo e l'assenza di politiche economiche - sia a livello nazionale sia a livello comunitario - in grado di contrastare questa brusca frenata, mi sembrano aver dato forza a tutte quelle istanze a favore di un malinteso ruolo di supplenza della politica monetaria della Banca Centrale. La BCE ha così assecondato, almeno nei fatti se non proprio nelle intenzioni, le richieste di una maggiore attenzione alla crescita, quale vera priorità dell'Europa.
Il problema è che di fronte all'attuale deriva inflazionistica, che da una parte erode il potere d'acquisto delle famiglie attraverso i rincari di carburanti e prodotti alimentari e dall'altra sgretola i margini di profitto delle imprese agendo sui costi di produzione, occorrerebbe un mix di politica economica fatto di stretta monetaria e di politica fiscale espansiva (agendo sulla de-tassazione non certo sull'aumento di spesa pubblica). Un mix di interventi in grado di evitare il rischio di un avvitamento incontrollato dei prezzi e al contempo capace di sostenere i redditi (soprattutto quelli medio bassi a maggiore propensione di consumo) senza determinare un aumento del costo del lavoro. In questo momento sembra prevalere invece in Europa un assetto di politica economica in cui si cerca di supplire alla latitanza di un disegno di politica fiscale attraverso un ammorbidimento della posizione di politica monetaria.
A proposito di politica fiscale che non c'è, l'Italia offre un caso di specie. Dieci anni di crescita del tutto insoddisfacente, di poco superiore allo zero e di quasi un punto percentuale inferiore alla media europea, per non dire di un 2008 che si prospetta come un annus horribilis, dovrebbero indurre a prendere chiari indirizzi di politica economica nel nostro Paese. Dovrebbero cioè comportare un certo attivismo, oculato s'intende, ma necessario a togliere il Paese dalle secche in cui si è cacciato. Eppure, il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF) presentato recentemente dal governo per il periodo 2009-2013 costituisce un testo tanto ambizioso nella sua dichiarata volontà di dare un respiro pluriennale alla politica economica quanto ininfluente nel suo effettivo contributo di stimolo alla crescita e al rafforzamento competitivo del Paese. Dando un rapida occhiata alle sue tabelle si riesce ad intravedere un po' di crescita - peraltro limitata ad un +1,5% - solo dal 2012 in avanti, per di più assumendo un tasso di inflazione programmata all'1,5% quando oggi stiamo al 3,8%. Una cristallina ammissione di impotenza, se non proprio di rinuncia, per un governo che amministra un Paese che è da 10 anni il fanalino di coda dell'Europa sul terreno della crescita. Tutta la politica di bilancio presentata nel DPEF appare nella sua sostanza volta al rispetto degli impegni presi con l'Europa sul pareggio di bilancio al 2011 mentre solo poche briciole sembrano destinate a politiche di rilancio strutturale della crescita, della competitività e del potere d'acquisto. Per non parlare della totale assenza di interventi volti a ridurre una delle principali zavorre al piede del nostro Paese, ovvero i livelli di pressione fiscale, che invece di diminuire come promesso in campagna elettorale, si mantengono sui livelli attuali (circa 43%) per tutto il periodo di previsione.

Tratto da Agenda Liberale  

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