Quindi bisogna giocare d'anticipo, frenare le aspettative sul
rincorrersi dei prezzi, evitare che queste si riverberino sui salari
facendo in modo che le contrattazioni salariali possano incorporare un
tasso di inflazione atteso più basso di quello attuale. Occorre fare
soprattutto tesoro degli errori commessi durante le crisi petrolifere
degli anni '70 non assecondando la crisi con politiche monetarie troppo
lasche.
Detto ciò mi è parso che la BCE abbia interpretato il suo ruolo di
custode della stabilità dei prezzi in Europa senza convinzione e con un
certo disagio che l'ha infine portata ad aumentare i tassi il meno
possibile - con una correzione dello 0,25% - per di più annunciando
questo intervento con largo anticipo e non prospettando alcun ulteriore
ritocco, quasi a volerne attutire ulteriormente paventatissimi effetti
recessivi. Un mezzo passetto insomma, timido, obbligato e fatto
malvolentieri, che rischia di far inciampare la macchina del governo
delle aspettative inflazionistiche con effetti incerti e anche
potenzialmente destabilizzanti.
Nel determinare questa decisione hanno certamente pesato le pressioni
dei governi di mezza Europa - Francia in testa seguita in modo del
tutto anomalo su questo fronte dalla Germania - per una politica
monetaria più accomodante che mantenesse lo status quo. Per quanto
Lorenzo Bini Smaghi si sia autorevolmente espresso sulle pagine del
Riformista per riaffermare valori e benefici dell'indipendenza della
BCE, l'intervento sul tasso di sconto per le modalità con cui è stato
attuato, mi è sembrato rispondere poco e male all'andamento
dell'inflazione e della massa monetaria ed essere invece condizionato
da altre priorità. Il contesto di forte decelerazione dei tassi di
crescita nel continente europeo e l'assenza di politiche economiche -
sia a livello nazionale sia a livello comunitario - in grado di
contrastare questa brusca frenata, mi sembrano aver dato forza a tutte
quelle istanze a favore di un malinteso ruolo di supplenza della
politica monetaria della Banca Centrale. La BCE ha così assecondato,
almeno nei fatti se non proprio nelle intenzioni, le richieste di una
maggiore attenzione alla crescita, quale vera priorità dell'Europa.
Il problema è che di fronte all'attuale deriva inflazionistica, che da
una parte erode il potere d'acquisto delle famiglie attraverso i
rincari di carburanti e prodotti alimentari e dall'altra sgretola i
margini di profitto delle imprese agendo sui costi di produzione,
occorrerebbe un mix di politica economica fatto di stretta monetaria e
di politica fiscale espansiva (agendo sulla de-tassazione non certo
sull'aumento di spesa pubblica). Un mix di interventi in grado di
evitare il rischio di un avvitamento incontrollato dei prezzi e al
contempo capace di sostenere i redditi (soprattutto quelli medio bassi
a maggiore propensione di consumo) senza determinare un aumento del
costo del lavoro. In questo momento sembra prevalere invece in Europa
un assetto di politica economica in cui si cerca di supplire alla
latitanza di un disegno di politica fiscale attraverso un
ammorbidimento della posizione di politica monetaria.
A proposito di politica fiscale che non c'è, l'Italia offre un caso di
specie. Dieci anni di crescita del tutto insoddisfacente, di poco
superiore allo zero e di quasi un punto percentuale inferiore alla
media europea, per non dire di un 2008 che si prospetta come un annus
horribilis, dovrebbero indurre a prendere chiari indirizzi di politica
economica nel nostro Paese. Dovrebbero cioè comportare un certo
attivismo, oculato s'intende, ma necessario a togliere il Paese dalle
secche in cui si è cacciato. Eppure, il Documento di Programmazione
Economica e Finanziaria (DPEF) presentato recentemente dal governo per
il periodo 2009-2013 costituisce un testo tanto ambizioso nella sua
dichiarata volontà di dare un respiro pluriennale alla politica
economica quanto ininfluente nel suo effettivo contributo di stimolo
alla crescita e al rafforzamento competitivo del Paese. Dando un rapida
occhiata alle sue tabelle si riesce ad intravedere un po' di crescita -
peraltro limitata ad un +1,5% - solo dal 2012 in avanti, per di più
assumendo un tasso di inflazione programmata all'1,5% quando oggi
stiamo al 3,8%. Una cristallina ammissione di impotenza, se non proprio
di rinuncia, per un governo che amministra un Paese che è da 10 anni il
fanalino di coda dell'Europa sul terreno della crescita. Tutta la
politica di bilancio presentata nel DPEF appare nella sua sostanza
volta al rispetto degli impegni presi con l'Europa sul pareggio di
bilancio al 2011 mentre solo poche briciole sembrano destinate a
politiche di rilancio strutturale della crescita, della competitività e
del potere d'acquisto. Per non parlare della totale assenza di
interventi volti a ridurre una delle principali zavorre al piede del
nostro Paese, ovvero i livelli di pressione fiscale, che invece di
diminuire come promesso in campagna elettorale, si mantengono sui
livelli attuali (circa 43%) per tutto il periodo di previsione.
Tratto da Agenda Liberale