Israele tra elezioni e guerra

Sintesi del seminario tenutosi al Centro Einaudi il 25 febbraio 2003

Apertura di Giorgio S. Frankel.
Relatori: Younis Tawfik, Emilio Jona e Valerio Zanone.
Interventi programmati di Fuad Schibly e Franco Ottolenghi.

Giorgio S. Frankel. Tensione in aumento nell’area, crescente durezza della repressione militare, fallimento
di realistiche prospettive di pace, crescente radicalizzazione della politica estera e problemi di politica interna di Israele (instabilità, Intifada): l’incontro, pensato da tempo sulla base delle considerazioni elencate, è reso
ancora più attuale dalle elezioni tenutesi in Israele a fine gennaio e dalla guerra che si sta avvicinando in Medio Oriente. Ricordiamo che Israele ha una superficie e una popolazione paragonabili a quelle del Piemonte ma è annoverata tra le prime potenze al mondo in ambito militare anche non convenzionale, e
potrebbe diventare un partner militare e strategico per gli Stati Uniti.

Tra elezioni e guerra è un titolo sintetico, in quanto in realtà le guerre sono due: una nei confronti dell’Iraq e l’altra tra Israele e i palestinesi, che potrebbe allargarsi a Siria e Giordania nel tentativo di «liquidare»
definitivamente la questione palestinese. Ma come si pongono oggi i media nei confronti di queste tematiche? La stampa sembra più obiettiva e precisa rispetto ad anni fa, o perlomeno non è peggiore su questo argomento rispetto ad altri. Si può ipotizzare che la stampa italiana sia filo-israeliana? Diciamo
che certi termini hanno assunto una connotazione diversa; ad esempio un militante palestinese è un «terrorista», l’Intifada non è un ciclo ma una sorta di «eterna violenza» e i territori occupati sono diventati i territori «contesi». Del resto è risaputo che il controllo del linguaggio è un’arma strategica dei nostri tempi.

Un ultimo punto sul quale vorrei soffermarmi riguarda le elezioni di gennaio, con la clamorosa vittoria di Sharon, inspiegabile se si guarda ai risultati di due anni di suo governo: terribile incremento delle vittime della guerra, economia in rovina, aumento dell’isolamento internazionale (ad esclusione
dell’alleanza con gli Stati Uniti). Eppure l’elettorato ha premiato il Likud di Sharon (che ha raddoppiato il suo peso) e le formazioni nazionaliste e religiose/nazionaliste di destra, «distruggendo» la sinistra pacifista. E
pensare che Sharon, dai «falchi», è considerato il più «a sinistra» dello schieramento per le sue affermazioni sulla possibilità della creazione di uno stato palestinese.

Emilio Jona (Comitato di redazione di «Ha Keillah», bimestrale ebraico torinese). La rivista arriva anche in Israele, con circa 500 copie, per la comunità ebraica italiana che è di 5.000 persone. La nostra posizione è pacifista ed estremamente critica verso la destra israeliana e verso Sharon: la nostra visione era vincente all’epoca di Rabin e Peres a Oslo.

Il mio è un discorso personale, come ebreo della diaspora: purtroppo gli ebrei diasporici non riescono a influire sulla politica mediorientale, ma nello stesso tempo non hanno l’occhio dei «gentili». Ci sentiamo in bilico tra pochi amici e nuovi nemici: gli ebrei tornano nella loro solitudine. E non si può
negare che esista un odio che viene da lontano e va oltre Israele; così come è innegabile la presenza di una propaganda di tipo nazista nei paesi arabi (I protocolli dei Savi di Sion).

In Israele esiste violenza, è vero, ma mirata verso un terrorismo che si nasconde nelle pieghe della società e la società israeliana è sempre più debole e impaurita. Il torto e la ragione in questa guerra fra semiti non sono separabili, però ricordiamo il rifiuto dei palestinesi a Camp David nel ’48 e il fatto che Arafat non si è dissociato dalla politica del terrore. Si vorrebbe un miracolo, un nuovo eroe, una potenza esterna che ponga fine a questa situazione: purtroppo la situazione si è incancrenita sull’incomprensione.

Un’ultima annotazione: questa guerra è sempre al centro dell’attenzione, anche rispetto ad altri conflitti più cruenti ed estesi: perché? Forse perché c’è il petrolio vicino, forse perché è la culla del monoteismo… Israele non è un «dono» dell’Occidente, è nato nel tempo e ha gli stessi diritti dei palestinesi: molti israeliani vogliono fermamente due stati, uno per Israele e uno per i palestinesi.

Younis Tawfik (presidente centro culturale italo-arabo a Torino). È la prima volta che mi trovo a un confronto
di questo genere. Io ho visto il tentativo di falsificare la storia; la stampa araba è soggetta al regime e quindi a censura: poiché Israele è l’unica democrazia nell’area c’è stato effettivamente un tentativo di strumentalizzare la questione per supportare o giustificare azioni delle varie dittature. Nello stesso tempo, i palestinesi sono più soli adesso, perché tutto il mondo arabo è impegnato dalle vicende dell’Iraq; ma senza dubbio Saddam Hussein è il leader arabo che più ha arrecato danno ai palestinesi stessi.

Eppure la storia ci mostra che ci sono stati tempi in cui la convivenza pacifica è stata possibile: basti pensare all’Andalusia, in Spagna, dove arabi ed ebrei vivevano in pace fino a quando nel 1500 i cristiani scacciarono prima gli uni e poi gli altri (che trovarono rifugio in Marocco). Penso quindi che il futuro si costruisca anche in base al passato al quale vogliamo fare riferimento.

Direi che le difficoltà sono iniziate con la nascita dello stato di Israele: il problema è politico, perché si è creato uno stato dove già abitavano altri e un popolo è stato escluso dal territorio in cui viveva. Per altro, anche gli ebrei che risiedevano in Iraq, all’epoca, subirono pressioni e furono in pratica costretti a emigrare in Israele.
Oggi però l'esercito israeliano si comporta in modo discutibile, mettendo in atto, per l’accusa di terrorismo o favoreggiamento, rappresaglie senza processi. Si vuole per caso eliminare il popolo palestinese come Saddam ha fatto con i curdi? I kamikaze non sono tutti musulmani oltranzisti; ci sono anche laici: sono accomunati dal fatto di non aver più nulla da perdere e purtroppo esistono persone che inculcano loro i principi dell’ideologia del terrore e del sacrificio.

Vivere in pace significa dare la pace agli altri e solo la pace può ridare prosperità al Medio Oriente: si deve riuscire a collaborare senza calpestare i diritti degli altri. Purtroppo in questa vicenda gli Stati Uniti non hanno
voluto essere super partes e da parte dell’Occidente c'è stata una volontà di lasciare aperta la questione mediorientale, un’omissione di responsabilità.

Concludo dicendo che la vita umana vale di più del petrolio e di ogni altra cosa.

Main partner