Valerio Zanone (Presidente Fondazione Einaudi di Roma). Oggi purtroppo assistiamo all’evanescenza di
quasi dieci anni di negoziati, rapporti e agreements successivi al trattato di Oslo.
Nel 2000 fallisce il negoziato di Clinton; cade Barak e si ha l’ascesa di Sharon, che è il problema principale nella pacificazione che non riesce: mi chiedo se questa percezione sia chiara all’interno dell’elettorato che ha lo ha votato…
Un recente sondaggio di «Le monde diplomatique» condotto fra israeliani, in buona parte elettori del Likud, dava due terzi del campione favorevoli sia a riconoscere ai palestinesi il diritto a uno stato, sia a portare avanti il negoziato, anche con Arafat.
Ma se questi sono i risultati, e questa è veramente l’opinione in Israele, perché ha stravinto Sharon? I risultati elettorali sono stati senza dubbio falsati dalla paura, che in tal modo però alimenta se stessa e influisce con la sua memoria storica (che senso ha, proprio in Israele, parlare di dividere due popoli con reticolati e muri?).
Per altro, come è stato osservato, la situazione economica attuale in Israele è pessima: disoccupazione e inflazione in crescita, turismo in caduta verticale, bilancio statale compresso per il vertiginoso aumento delle spese militari e «fuga» di cervelli. È paradossale in questi frangenti che un primo ministro uscente venga riconfermato.
Sempre a proposito di elezioni, ricordiamo, come è già stato richiamato in un altro intervento, che Israele è l’unico paese democratico dell’area, in cui si vota e in cui votano anche gli arabi. Attualmente però si verifica una certa evanescenza dei partiti storici di Israele e anche il Likud, che si professa un partito laico, deve fare i conti oggi con i partiti religiosi per formare il governo.
Ma chi deve o dovrebbe agire per risolvere la questione? Ritengo sia un compito dell’Unione Europea e dell’Onu – due istituzioni verso le quali Israele ha tuttavia mostrato sempre un certo scetticismo.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, questi sono passati dal multilateralismo all’uniteralismo, che in altri termini è il nuovo imperialismo americano. Il nuovo corso della politica estera americana era in realtà già stato scritto quattro o cinque anni fa, quindi ben prima dell’attacco alle Torri Gemelle: in questa ottica, l’Unione Europea è destinata a perdere peso e sparire attraverso un processo di «diluizione» dovuto al suo allargamento (processo che quindi è visto di buon occhio dagli Stati Uniti), mentre per l’Onu si vuole un futuro che lo releghi ad assemblea consultiva.
Fuad Schibly (Fondatore e presidente Unione araba di Torino). Sono un arabo israeliano: in Israele la democrazia esiste, come è stato detto, ma esiste solo per gli ebrei israeliani.
La prima discriminazione è a livello di documenti d’identità: i numeri di serie sono diversi, per una più rapida identificazione, ed è indicata la religione di appartenenza. Le sovvenzioni a scuole o università sono di molto
inferiori per i palestinesi israeliani e anche i Comuni non godono dell’erogazione di fondi paritetici: così succede che molti piccoli villaggi palestinesi (come il mio di origine) non sono neanche segnati sulle cartine
geografiche. Gli assegni familiari sono più bassi e l’accesso al lavoro o alle università è limitato.
In Israele è privilegiato chi ha prestato il servizio militare: purtroppo gli arabi israeliani non possono accedere all’esercito, ma neanche compiere in alternativa il servizio civile.
Per quanto riguarda il voto, è vero che in Israele gli arabi (che rappresentano circa il 20 per cento della popolazione) godono del diritto di voto. Esistono 3 o 4 liste, ma gli arabi possono solamente essere eletti parlamentari e non ambire a cariche pubbliche di rilievo. Le liste sono 3 o 4 ma purtroppo l’affluenza alle urne è bassa.
Franco Ottolenghi (ex direttore di Rinascita). Vorrei fare alcune considerazioni. Intanto, che l’isolamento
internazionale dello Stato di Israele non è compensato dal rapporto con gli Stati Uniti e che Sharon ha iniziativa militare ma assolutamente non politica. Senza un processo di pace, la regione mediorientale resta frantumata, nel terrore, in crisi. Con un programma di pacificazione avviato si può invece pensare a uno sviluppo e a una cooperazione della regione, anche avendo Israele come paese capofila.
Perché allora questa grave crisi del processo di pace? I motivi sono diversi. Intanto, l’assassinio di Isaac Rabin. Poi il rifiuto di Arafat, inizialmente parso segno di un suo rafforzamento, alle trattative con Barak; invece alla fine è stato chiaro che Arafat è intrappolato nelle mani delle frange estremiste.
L’attuale crisi irachena: prima ancora di chiedersi se è legittima, vale la pena di considerare se sarebbe efficace (o meno) come premessa per una redistribuzione del potere in Medio Oriente... Infine, l’insufficienza del paradigma transatlantico, che ha regnato dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi.
In questa situazione, alcuni quesiti sono da risolvere. Tocca all’Europa l’onere della prova? Sarà questo il tramonto dell’Occidente? La Guerra del Golfo ha bloccato la prima Intifada; può adesso la guerra in Iraq fermare la seconda Intifada?
Concludo affermando che Israele deve riprendere l’iniziativa politica e avere un ricambio della classe dirigente. Nello stesso tempo Israele non può essere lasciato solo; i paesi europei hanno il dovere di sorreggerlo in questa fase. E i palestinesi hanno diritto a una patria.