Le presidenziali americane del 2 novembre 2004

a cura di Anthony Marasco

Quale visione del mondo ha prevalso nel corso delle presidenziali americane del 2004? Da marzo abbiamo seguito il tema del ruolo americano nel mondo così come si è sviluppato nel contesto di queste elezioni. Con l'obiettivo di fornire una informazione puntuale sui temi e sui termini di un dibattito infuocato

MOBILITAZIONE DEL VOTO E «VALORI MORALI». Anche in Italia si discute se per vincere delle elezioni sia più importante combattere al centro o ai fianchi. Chi crede che le elezioni si vincano al centro punta a persuadere gli elettori moderati, mentre chi ritiene che per vincere basti mobilitare lo zoccolo duro di un partito investe tutto nel tentativo di galvanizzare il proprio elettorato. Quest'anno i democratici, attraverso iniziative come MoveOn.org, che hanno fatto di tutto per far registrare al voto la base, hanno speso la gran parte delle loro forze convinti della bontà della seconda ipotesi. E hanno perso. Chi ha vinto, invece, lo ha fatto cercando di persuadere l'elettorato moderato. Per poterlo fare, Bush ha dovuto organizzare non tanto e non solo una mobilitazione di base, ma anche e soprattutto un discorso di comunicazione politica. Kerry, al contrario, è parso debole nell'elaborare un messaggio coerente e, ad ammissione dei più, non ha saputo condensare la sua visione politica in tema facilmente comunicabile. È qui, a mio avviso, che si incunea la spinosa questione dei «valori morali». Secondo alcuni analisti, Bush avrebbe vinto per via di una grossa mobilitazione degli apparati evangelici. In altre parole, vogliono dire che Bush ha messo in atto una mobilitazione della sua base radicale e ha vinto. In parte, ciò è senz'altro vero. Ma le statistiche più recenti non hanno registrato un aumento dei votanti fondamentalisti, evangelici o di altra denominazione. Molto più importante è la constatazione che per vincere Bush ha pensato di confezionare un discorso politico ad ampio spettro, e che nel prepararlo ha incluso temi che i liberal risolvono in modo diametralmente opposto, come la questione – altamente polarizzante – dei matrimoni gay. In altre parole, Bush non ha solo cercato di mobilitare le punte più estreme della sua base, ha anche saputo portare al centro i loro valori. Quei valori, infatti, sono condivisi dalla maggioranza dei cittadini americani che si recano alle urne. È per questo che chi in Italia vuole galvanizzare la base di centro-destra iniettando forti dosi di conservatorismo sociale di origine religiosa rischia il «flop» se prima non si accerta che quei valori siano largamente condivisi da tutto il potenziale spettro di voto del proprio elettorato (8 novembre 2004).

HA VINTO GEORGE W. BUSH. Nulla di quello che accade durante una tornata elettorale è semplice, tranne il risultato. E in questo caso il risultato è inequivocabile: ha vinto George W. Bush. Ora in Italia c'è chi dice che Bush ha vinto mobilitando «il paese profondo» e chi ritiene invece che a vincere come sempre sia stata la falsa coscienza generata nei più deboli dall'egemonia dei più forti. A ognuno la sua visione della storia. A me pare che Bush abbia vinto perché, a prescindere dalla demografia elettorale, è riuscito a convincere il paese che l'America è in guerra – e in guerra il presidente non si cambia. Tutto qui. La tattica di John Kerry di convincere gli americani che sotto la sua guida la Guerra al Terrore sarebbe stata condotta meglio non è bastata, e questo soprattutto perché il suo "record" metteva in dubbio il fatto che lui fosse davvero convinto che il paese fosse in guerra. E nel dubbio quegli americani moderati che avrebbero potuto votare per lui non lo hanno votato. Tanto per dire che le elezioni, secondo alcuni, non si vincono al centro. Entrambi gli schieramenti in campo sono riusciti a mobilitare al voto le proprie basi. Ma a vincere è stato il candidato che meglio ha saputo attrarre anche il centro (4 novembre 2004).

IL VOTO. Oggi più che mai l’opinione pubblica americana pare divisa su chi debba divenire il prossimo presidente americano. Più ci avviciniamo al centro esatto dello spettro politico, più si allontana la possibilità di sapere subito e con certezza chi avrà vinto le elezioni del 2 novembre. Si spera che lo strumento di misura del voto pubblico questa volta possa reggere la sfida posta da un elettorato attivo diviso esattamente a metà (2 novembre 2004).

DOPO I DIBATTITI, LE URNE. La campagna elettorale di queste presidenziali americane è giunta al termine. Gli analisti si sono sbizzarriti nel valutare chi abbia vinto i tre dibattiti e chi si trovi oggi in testa alla gara. Per quel che è dato sapere alla vigilia del voto, i due candidati principali si trovano testa a testa, tanto che non è possibile indicare oggi chi sia realmente in vantaggio. Si vedrà.
Ciò che mi preme registrare qui sono sostanzialmente due cose.
Innanzitutto, si è visto che la maggioranza degli americani ritiene di essere in guerra con un nemico invisibile quanto insidioso. Ciò lo si evince dal fatto che entrambi i candidati hanno posto al centro delle loro piattaforme elettorali la Guerra al Terrore. In altre parole, John Kerry non ha proposto agli elettori una visione alternativa a quella elaborata negli scorsi quattro anni da George W. Bush. Ha solo spiegato di poterla gestire meglio.
In seconda istanza, va notato che quando Kerry dice di poter gestire meglio una politica elaborata da Bush non risulta credibile. Ovvero, tutti sanno – o credono di sapere – che una volta eletto Kerry metterà mano all’intera politica estera americana. Solo allora si saprà ciò che Kerry davvero pensa della Guerra al Terrore. Questo ha da un lato un risvolto positivo, nel senso che è una verità innegabile che nessun presidente può davvero dire come si comporterà in futuro, perché sarà poi il futuro a dettare le condizioni per ogni azione (si pensi all’isolazionismo promesso dal candidato Bush e a ciò che è poi seguito). Ma dall’altro lato denota anche un sempre maggiore distacco tra l’articolazione esplicita di un programma elettorale e l’imbonimento necessario per raggiungere il potere.
Nel primo dibattito, come in quelli che sono seguiti, Bush è riuscito più convincente sulla carta perché le sue risposte si inserivano meglio nel programma da lui sottoposto agli elettori. Eppure tutti hanno voluto assegnare una vittoria – di misura – a Kerry, ch’è apparso più «presidenziale», ossia più sicuro di sé. Ciò che diceva, però, mal si adattava al suo programma politico. Kerry, in altre parole, lasciava intendere che vi è davvero una discrepanza tra il suo programma esplicito e quello implicito, molto più radicale. Tanto che non è un segreto per nessuno che chi vota Kerry lo fa nella speranza di aver colto il messaggio implicito della sua campagna: oggi diciamo tutto ciò che può convincere gli indecisi a votare per me, ma una volta eletto smantellerò pezzo per pezzo tutto l’edificio della Guerra al Terrore eretto da Bush.
La tattica di aderire al minimo comune denominatore che unisce la maggioranza dei cittadini americani nell’appoggio alla Guerra al Terrore per denunciare l’inettitudine di Bush nell’implementarla è dunque sospetta fin dall’inizio di un certo cinismo strategico. Basta guardare al «record» di Kerry per capire che il senatore del Massachusetts è più vicino alle posizioni di George Soros – «il terrorismo è un crimine contro l’umanità e va combattuto con gli strumenti di polizia» – che a quelle di Bush – «il terrorismo ci ha dichiarato guerra e noi non possiamo che rispondere con i mezzi militari».
Alla vigilia del voto, per la stragrande maggioranza degli elettori, la scelta è dunque tra un presidente che dice di voler continuare a fare ciò che ha fatto e un contendente che da un lato dice di poterlo fare meglio e dall’altro lascia intuire che farà tutt’altro.
Votare per Kerry in questo frangente è perciò un gioco d’azzardo per molti democratici. Cosa accadrebbe se Kerry una volta eletto si comportasse davvero come Bush, anzi meglio (ossia peggio)?
Tuttavia, votare per Bush è votare per chi non si è voluto assumere la responsabilità di Abu Graib né in prima persona né chiedendo le dimissioni di Donald Rumsfeld. Può un repubblicano davvero ignorare che nelle prigioni di Saddam Hussein l’esercito del proprio paese ha disonorato la bandiera macchiandosi di tutto ciò che il popolo americano aborre?
A parere di chi scrive, quella che si è appena chiusa non è stata una buona campagna elettorale. Non è stata nemmeno una campagna elettorale mediocre. Non c’è stata alcuna campagna elettorale perché la strategia elettorale ha di fatto sospeso il dibattito politico, che verrà dopo: quando non si potrà più votare.
Non era questo che volevano i padri fondatori, e non era questo che si aspettava il mondo. Basta vedere con quale foga molti giornali europei hanno voluto attribuire a Kerry posizioni che Kerry non ha mai espresso in modo esplicito. Forse in cuor suo le pensa. E forse una volta eletto Kerry ci mostrerà il suo vero volto. Nel frattempo dobbiamo archiviare una campagna elettorale che non ha aggiunto o tolto nulla alla questione di fondo dell’attuale situazione mondiale, che si riduce a questo: siamo davvero in guerra contro un nemico invisibile che ci vuole annientare? O non ha l’amministrazione Bush scelto di combattere militarmente una «Guerra al Terrore» per perseguire i suoi fini di potenza?
Per gli americani, poi, il dilemma è più stringente. Si possono difendere i valori sanciti dalla Dichiarazione di Indipendenza limitando le libertà garantite dalla Costituzione? O prima viene la sopravvivenza e poi le libertà?
Ma allora, di nuovo: sono i terroristi dei nemici così formidabili da richiedere un sacrificio così grande al popolo americano?
A questa domanda Kerry ha dato una pallida risposta quando si è augurato che in futuro i terroristi torneranno a essere un semplice fastidio, non un nemico contro cui definirsi. L’affermazione si è subito attirata gli strali di Bush, che ha avuto gioco facile nel colpire la retorica – davvero poco fortunata – con cui il suo contendente ha cercato di esprimere il concetto che al terrorismo non si può mai metter fine del tutto.
Vedremo ora se la spunterà una visione del mondo che postula una guerra senza fine al terrorismo o una mezza promessa di venire a più miti consigli (30 ottobre 2004).

FINE ANTICIPATA DI UNA LUNA DI MIELE. Alle fantasticherie sulla luna di miele con l'Europa che seguirebbe l'elezione di John Kerry alla presidenza americana ha risposto nei giorni scorsi il ministro degli Esteri francese Michel Barnier con la proposta di trasferire la conferenza internazionale che il presidente Bush vorrebbe indire sull'Iraq da un paese del Medio Oriente all'Onu e di inserire nell'ordine del giorno il ritiro immediato delle truppe americane. Esattamente la prospettiva che Kerry non può accettare, se non alle sue condizioni, ossia che al ritiro di divisioni americane entrino in Iraq divisioni europee e di paesi terzi. Nel suo discorso alla New York University, Kerry aveva infatti parlato sì di un ritiro di truppe americane entro il 2005, ma non certo alle condizioni di resa sognate dal Quai d'Orsay. Come, ad esempio, l'inserimento di gruppi «resistenti» tra gli interlocutori ammessi alla conferenza sul futuro dell'Iraq. Neanche con tutti i distinguo del mondo potrà mai un candidato alla presidenza americana accettare la sensatezza di una simile proposta (28 settembre 2004).

GLI ALLEATI EUROPEI E IL POPOLO IRACHENO. La Francia di Jacques Chiraq, in consesso con la Germania di Gerhard Schroeder e la Spagna di José Luis Rodriguez Zapatero, di fatto bloccano l'invio di truppe Nato in Iraq. Nel frattempo, sia il Segretario di Stato americano Colin Powell che il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld lasciano intendere che le truppe americane non escludono l’eventualità di poter lasciare il paese anche prima di una sua pacificazione totale. Né la prospettiva franco-tedesca, né quella della presidenza Bush paiono interessarsi molto del futuro del popolo iracheno. Se per i primi la cosa non pare sorprendente (dopotutto Saddam Hussein non era un problema incombente, ma solo il legittimo dittatore di uno Stato sovrano), per l'Amministrazione Bush la questione della libertà in Iraq non dovrebbe essere un problema di secondo piano. A sentire gli architetti dell'intervento, su tutti il Presidente in persona, all'arrivo delle truppe americane gli iracheni sarebbero subito corsi a formare una società civile in vista di elezioni democratiche. Il fatto che ciò non sia avvenuto, e che forse il mancato aiuto economico promesso dagli Stati Uniti non abbia esercitato un influsso positivo, pare non turbare il sonno di chi oggi vorrebbe ritirare le truppe il più presto possibile (27 settembre 2004).

NEW YORK, NEW YORK. Confrontando il discorso del presidente Bush alle Nazioni Unite e la conferenza di politica estera tenuta alcuni giorni prima da John Kerry alla New York University, si noterà che l'orizzonte comune tra di essi è la Guerra al Terrore. Bush sostiene che la guerra in Iraq è una campagna della guerra globale al terrorismo internazionale. Kerry è del parere contrario: in Iraq si sarebbe perso del tempo prezioso. In caso di una sua elezione, Kerry promette di sostituire progressivamente le truppe americane con truppe irachene e internazionali. Inoltre promette di coinvolgere maggiormente gli alleati europei nella gestione del dopoguerra così da ottenerne l'appoggio militare necessario al ritiro definitivo delle truppe americane. Questo comporterebbe l'apertura delle commesse per la ricostruzione a tutti i paesi interessati, anche alla Germania e alla Francia attualmente penalizzate. Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Bush ha invece riaffermato la logica dietro l'intervento in Iraq inserendolo in pieno nella più generale offensiva contro il terrorismo internazionale. Kerry ha risposto a questa rosea visione con il fatto che nei giorni precedenti era ormai risultato evidente a tutti che per evitare un aumento di caduti in vista delle elezioni, lo stato maggiore dell'esercito aveva ordinato il ritiro di tutte le truppe esposte al fuoco di fila degli insorti, lasciando così intere aree del paese in mano alle milizie armate dei vari gruppi etnico-religiosi. Kerry ha bollato come incompetente la gestione Bush, il cui solo risultato è stato quello favorire il reclutamento ideologico di nuovi terroristi (22 settembre 2004).

 

IN CODA ALLE DUE CONVENTIONS. Si sono da poco concluse le conventions democratiche e repubblicane il cui compito era di nominare i due candidati alle prossime elezioni presidenziali. Un tempo queste conventions servivano effettivamente a contare i voti ottenuti alle primarie, ma oggi sono per lo più l'occasione per creare uno di quei non-eventi
che i pubblicitari mettono in scena per lanciare sul mercato un nuovo prodotto di consumo. In genere, la sovraesposizione mediatica del presidente uscente premia lo sfidante. E infatti, dopo le primarie del partito all'opposizione, in genere lo sfidante, di cui nessuno sa quasi nulla, riceve un bounce, una spinta nei sondaggi. Non è stato così per John Kerry. Forse è stato questo
mancato risultato a consentire alla convention repubblicana di regalare una inaspettata spinta al presidente in carica, anche se non vanno sottovalutate le campagne di denigrazione pura e semplice promosse da gruppi di repubblicani indipendenti che hanno pagato la messa in onda di pubblicità negative di inusuale violenza verbale.
Il dato che a noi interessa di più è che proprio mentre George W. Bush riguadagnava quota nei sondaggi americani (fino a 11 punti percentuali, secondo alcune stime), un sondaggio «planetario», condotto su di un pool relativamente esteso (34.330 persone in 32 paesi, tra cui l'Italia – www.pipa.org), ha dato a Kerry una netta preferenza e quindi una vittoria certa quanto virtuale. Se a interessarci, e a preoccuparci, è la spaccatura che si è
improvvisamente aperta sull'Iraq tra le due sponde dell'Atlantico, la piega che ha preso questa campagna presidenziale americana ci induce a riflettere su una questione delicata quanto spinosa: che cosa divide realmente Bush da Kerry? La domanda trova una certa urgenza perché se Kerry dovesse vincere le elezioni, e una volta alla Casa Bianca proponesse «con più belle parole» le stesse
politiche e le stesse azioni militari del presidente Bush, la spaccatura atlantica, invece di colmarsi, si aprirebbe ancora di più. E allora il rischio più volte paventato di una Unione Europea che si definisce come soggetto politico autonomo «per opposizione» agli Stati Uniti diverrebbe una triste realtà. Una simile costruzione identitaria, oltre a spezzare l'unità dell'Occidente, finirebbe per legittimare e promuovere discorsi politici dal dubbio valore democratico, ma dalla salda presa anti-americana.
È in questo contesto, credo, che noi europei dovremmo leggere l’editoriale pubblicato sull'«International Herald Tribune» del 10 settembre intitolato What is your real plan for Iraq, John Kerry? (www.iht.com). In quell'editoriale si fa proprio notare come finora nulla separi le politiche estere di Kerry da quelle di Bush. Certo, Kerry promette di coinvolgere di più gli alleati, ma a legger bene lo farebbe solo per costringerli a schierare truppe in Iraq, e, ove questo non fosse possibile, a devolvere quattrini. Pie
intenzioni, ma che si scontrano con la realtà di posizioni politiche, come ad esempio quella francese, sempre più divergenti da quella americana, e non solo a parole (14 settembre 2004).

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