Le presidenziali americane del 2 novembre 2004

ERRORI. In una conferenza stampa il presidente Bush ha ripetutamente evitato di rispondere alla domanda se fosse pronto a riconoscere di aver commesso errori. Alla stessa domanda, poche ore dopo, Kerry ha risposto: «Se voleste chiedermi se io abbia mai commesso errori, risponderei: ma certo!» (NBC News, «Meet the Press») (20 aprile 2004).

IRAQ. Il 13 aprile John F. Kerry ha scritto in un editoriale dedicato all'Iraq che, per quanto gli americani si siano divisi sull'entrata in guerra, essi si trovano oggi uniti nella ricerca di una soluzione positiva per il popolo iracheno. «Il nostro paese si è impegnato ad aiutare gli iracheni a costruirsi una società stabile, pacifica, pluralista. A prescindere da chi vincerà le elezioni il prossimo novembre, noi continueremo nella nostra missione». Al contrario di quanto accade in Europa, dunque, la situazione dell'Iraq porta lo spettro politico americano verso il centro. (John F.Kerry, A Strategy for Iraq, «The Washington Post», 13 aprile 2004, A19) (18 aprile 2004).

PAUSA. Dopo aver speso la cifra record di 45 milioni di dollari in sei mesi, il comitato per la rielezione di George W. Bush ha deciso una pausa strategica, avendo calcolato che l'aggravarsi della situazione in Iraq mette in ombra qualsiasi messaggio propagandistico. Allo stesso risultato stanno conducendo le udienze delle commissioni d'inchiesta sull'11 settembre, che non hanno portato alla luce nulla di sensazionale se non che, come è ovvio, non si può prevedere l'imprevedibile. Come ha avuto a dire il ministro della Difesa americano Donald Rumsfeld, ci sono cose che si sa di non sapere – gli known unknowns – e cose che non si sa neppure di non sapere – gli ormai famosi
unknown unknowns. Tutti i segni premonitori dell'11 settembre furono debitamente registrati e archiviati. Pare ormai sempre più evidente che solo una mente presciente avrebbe potuto metter tutto insieme(18 aprile 2004).

NOT THE ECONOMY, STUPID. Il basso costo del denaro negli Stati Uniti ha cominciato a dare i suoi frutti. Gli ultimi indicatori non solo rilevano un maggiore indebitamento privato, e quindi maggiori consumi, ma iniziano anche a mostrare una crescita del Pil al 6% con un relativo aumento dei posti di lavoro. Questo è un dato molto positivo per il candidato George W. Bush, che vede allontanarsi l'incubo di una jobless recovery, una ripresa che non porta con sé nuovi posti di lavoro. I critici dell'Amministrazione vedono in questa ripresa l'effetto di una economia drogata ad arte, come inizia ad apparire evidente nel campo immobiliare. Dovendo servire da garanzia per il finanziamento o il rifinanziamento di mutui ipotecari, i valori dei beni immobili hanno registrato un significativo rialzo negli ultimi mesi, soprattutto in zone come il Massachusetts e la california. La lievitazione dei prezzi, però, sembra a molti una bolla, che presto o tardi causerà problemi soprattutto a chi ha contratto mutui a tasso variabile scommettendo sul persistere delle attuali condizioni inflative, cosa che non pare più del tutto probabile. Comunque, per il momento la strategia di Bush ottiene qualche risultato, anche perché con un tasso di sconto dell'1% e una inflazione all’1,6 Alan Greenspan e la Fed stanno di fatto regalando denaro (18 aprile
2004).

11 SETTEMBRE. Non è solo la guerra in Iraq a tenere banco nelle scaramucce retoriche di queste prime fasi della campagna presidenziale americana. Le audizioni della commissione istituita per far luce sulle responsabilità dell'11 settembre hanno offerto nei giorni scorsi ampio materiale di polemica politica. I risultati di questa strategia sono stati comunque pochi, visto che sia l'amministrazione Clinton che quella Bush pare abbiamo equamente sottovalutato il pericolo costituito dal terrorismo islamista.
Tra i testimoni sentiti, notevole rilievo è stato dato a Richard A. Clarke, ex capo dell'antiterrorismo dell'amministrazione Bush e autore in questi giorni di un libro molto aggressivo nei confronti del suo ex datore di lavoro. Secondo Clark, fin dai giorni successivi alla contestatissima elezione di Bush alla presidenza, l'amministrazione americana si preparava a chiudere i conti con Saddam Hussein. L'11 settembre ha solo dato a Bush la scusa con cui vendere l'azione bellica al popolo americano.
In un recente articolo di Kate Zernike (Storm Over 9/11 Leaves Swing Voters Feeling Less Certain Still, 1 aprile 2004), il «New York Times» ha però mostrato come questi argomenti siano di scarsissima presa sugli indecisi. Anche coloro che si sentono manipolati dal presidente in carica dichiarano di non saperne ancora abbastanza su Kerry per decidere se votarlo. È questo il motivo per cui in questi mesi Kerry deve lavorare sodo per elaborare una piattaforma politica tale da posizionarlo con chiara evidenza rispetto ai maggiori problemi dell'attuale situazione nazionale e internazionale. È forse per questo che i repubblicani paiono intenti a voler definire Kerry come un flip-flop, uno che prima dice una cosa per poi dirne un'altra. (Si veda a questo riguardo un
buffo cartone animato in cui i repubblicani hanno inserito tutte le posizioni contraddittorie tenute da John Kerry su vari argomenti).
Posti di fronte alla scelta tra un presidente che mente pur di raggiungere i suoi obiettivi strategici e un antagonista che dà l'impressione di non riuscire neppure a mettere a fuoco i propri obiettivi, gli elettori moderati potrebbero decidere di premiare i fini e non i mezzi usati per raggiungerli. E a quel punto si tornerebbe di nuovo alla assai poco pragmatica guerra ideologica in cui i republicani sono maestri (5 aprile 2004).

PAZ Y VERDAD. La sconfitta elettorale del centro-destra in Spagna pare sia stata determinata in larga misura dalla decisione dell'esecutivo di attribuire a tutti i costi gli attentati dell'11 marzo ai terroristi baschi. L'effetto che questa decisione pare aver avuto su molti elettori è stato quello di rafforzare l'idea secondo cui i governanti responsabili della guerra in Iraq sarebbero disposti a dire qualsiasi cosa pur di raggiungere i propri obiettivi.
Ma se Aznar ha mentito agli occhi di chi non l'ha votato, il più grande mentitore di tutti rimarrebbe sempre George W. Bush, colui che ha mandato Colin Powell all'Onu con una fialetta di antrace per ribadire come l'Iraq di Saddam Hussein fosse un pericolo grave e imminente. Già prima delle dichiarazioni di Bush e Powell, la stampa liberal americana aveva puntualmente registrato una certa tendenza dell'esecutivo a manipolare l'evidenza dei fatti a fini persuasori, se non proprio a mentire spudoratamente.
Anche negli Stati Uniti la propensione a non dire la verità viene attualmente usata dai democratici contro la rielezione di Bush. La gittata di quest'arma, però, pare limitata e comunque non destinata a produrre un «effetto Zapatero» in America. Anzi, l'intempestività con cui il neoeletto primo ministro spagnolo ha confermato la sua decisione di ritirare le truppe dall'Iraq ha prodotto un forte senso di rigetto negli Stati Uniti, sia fra i repubblicani sia fra i democratici. («Come si traduce appeasement in spagnolo?», ha scritto l'opinionista liberal Thomas L. Friedman riferendosi alla strategia di Monaco seguita da Chamberlain nel 1938).
Tra i democratici, solo Howard Dean è parso incline a condividere la decisione di Zapatero, provocando immediatamente la reazione censoria di John Kerry. Come ha sottolineato John Vinocur in un recente articolo comparso sull'«International Herald Tribune» (Europe in for a letdown if it's counting on Kerry, 30 marzo 2004), l'Europa rimarrebbe delusa se contasse su Kerry per ritornare allo status quo ante l'11 settembre 2001(2 aprile 2004).

«JUST ANOTHER RICH LIBERAL ELITIST FROM MASSACHUSETTS». In una intervista concessa a
Time (15 marzo 2004) John Kerry ha dato prova di notevole finezza ermeneutica nel definire i termini del dilemma iracheno. Allo stesso tempo, però, ha anche offerto il fianco alle critiche che iniziano a piovergli addosso dal campo repubblicano. Alla domanda se il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa avesse sottratto legittimità all’intervento americano, Kerry ha risposto che da sole le malvagità perpetrate da Saddam Hussein non erano sufficienti a giustificare una guerra. «Quindi,» ha incalzato l’intervistatore, «se non si trovano armi di distruzione di massa i benefici non coprono i costi. È questo che intende dire?». La risposta di Kerry è stata un capolavoro di sottigliezza logica, ma un mostro di comunicazione politica: «No, penso si possa ancora – aspetti, no. Non si può – non è una domanda ben posta, e le spiego il perché. Ci si può trovare ad aver successo nella trasformazione dell’Iraq e nella modifica delle sue dinamiche, e ciò potrebbe renderla un guadagno, ma ciò non significa [che la trasformazione dell’Iraq] fosse la causa [che concedeva] la legittimità dell’intervento. Bisogna mantenere la distinzione».
Cattolico, educato a Yale, Kerry è un intellettuale della politica con la passione della politica estera. La distinzione tra classi di causa in una questione di sicurezza nazionale dovrebbe rimanere invisibile alla comunicazione politica, altrimenti si corre il rischio di risultare ampollosi, o vacui, come quando Kerry ha accusato Bush di «fare la cosa giusta per i motivi sbagliati». Qui Kerry pare vittima di se stesso. Ma pare anche il bersaglio ideale della campagna lanciata dai repubblicani contro uno stereotipo che gli sta a pennello, quello contenuto nell’epiteto usato in una recente campagna televisiva dal gruppo di pressione repubblicano Citizens United: «un altro ricco elitista liberal del Massachussetts».
Partiamo dal «ricco». Kerry è sposato a Teresa Heinz Kerry, una ereditiera della fortuna Heinz, la marca di ketchup più diffusa nel mondo. Kerry dunque è ricco, ma liberal. Va subito notato come il termine liberal ha assunto un significato dispregiativo in America, e questo a partire soprattutto dalla campagna elettorale di Ronald Reagan contro Jimmy Carter. L’operazione è simile a quella poi emulata con eguale successo da Silvio Berlusconi con lo slittamento forzato della parola «comunista», da termine ideologico a termine d’obbrobrio tout court. Se Kerry fosse un candidato italiano, verrebbe forse attaccato come «un altro ricco comunista» del Massachusetts. Ma perché «un altro»? Notando che l’acronimo di John F. Kerry è JFK, molti commentatori italiani si sono lanciati in improbabili paragoni con John Fitzgerald Kennedy, un presidente americano molto amato in Italia. L’ideatore della Baia dei Porci, però, non cade oggi sotto l’epiteto «liberal», e infatti molti elettori «neo-conservatori», ossia passati dal partito democratico a quello repubblicano durante gli anni Sessanta e Settanta, votarono per Kennedy.
Il bersaglio della campagna repubblicana contro Kerry ce lo mostra l’opinionista conservative/libertarian William Saffire sul New York Times. Nel suo editoriale del 15 marzo, Phony-though Kerry flexes, but has no muscle, Saffire dimostra che qualcuno sta consigliando a Kerry di proporsi come un turgido uomo del popolo. Saffire, che tiene una rubrica fissa sull’uso corrente dell’inglese americano, lo demolisce pezzo a pezzo. A chi crede di darla a bere? Il senatore Kerry è un gentile patrizio del New England che non commetterebbe mai gli errori di sintassi in cui incorre il candidato Kerry per insultare i suoi nemici. Chi lo consiglia – «the Boston attack machine» – non lo conosce. Dunque le «Kerry-Kennedy-Soros masterminds» sbagliano. Appunto: John Kerry, Ted Kennedy e George Soros. Kerry non è ben visto dai clintoniani della terza via. È il candidato dell’ala sinistra dell’élite liberal del New England. Ma perché tanta enfasi sul New England, sul Massachusetts, su Boston? Boston, come San Francisco, è tra i luoghi che fanno eccezione in America. Noi europei diciamo che assomigliano all’Europa, anche se in realtà si tratta di una approssimazione per eccesso: ancor oggi per dire una relazione lesbica di lunga durata in America si dice Boston marriage.
Ed è infatti sui valori della moral majority che Bush giocherà la gran parte della sua campagna elettorale. Se Bush riuscirà a incastrare Kerry sullo stereotipo del ricco elitista liberal del Massachusetts, tutto andrà per il meglio. Se Kerry invece riuscirà a tenere insieme la base più radicale del partito democratico e gli swing voters che decideranno all’ultimo momento, forse ce la farà a vincere le elezioni. È per questo che la sua piattaforma populist-militar-pacifist-multilateral-isolazionista con enfasi tariffaria e anti-Nafta deve anche incontrare il centro per attirare quel 10% di indecisi che faranno la differenza. Un quadratura del cerchio, soprattutto in un anno in cui un film sulla passione di Gesù Cristo rischia di galvanizzare una base emotiva piuttosto ostile al kennedismo sorosiano della «Boston attack machine» (19 marzo 2004).

HAITI. La rivolta di Haiti ha dato a Kerry la prima occasione di dire con chiarezza come si sarebbe comportato lui da presidente: al contrario di Bush, avrebbe subito mandato truppe in aiuto di Jean-Bertrand Aristide. Gli Stati Uniti, ha sostenuto, hanno tutto l’interesse a difendere con ogni mezzo ogni democrazia elettiva che sia in pericolo di cadere. Dunque Kerry non avrebbe esitazioni a usare la forza militare in taluni casi. Solo che vi ricorrerebbe cercando di rimanere all’interno della legittimità democratica e della legalità internazionale. L’invio di truppe era pure, ricordiamolo, la posizione ufficiale francese (19 marzo 2004).

JOHN KERRY. Salvo eventi imprevedibili quanto improbabili, sarà il senatore John Kerry a sfidare George W. Bush nelle prossime elezioni presidenziali americane. La nomination Kerry se l’è conquistata sul campo imponendosi come il candidato democratico più «elegibile». Questa sua qualità – dettata più dall’esperienza che dalle capacità, pur notevoli –, Kerry l’ha giocata in due modi. Da un lato ha dimostrato di avere più «mestiere» degli altri sfidanti, cosa non difficile viste le intemperanze di Howard Dean, la poca dimestichezza con la politica interna di Wesley Clark e la sostanziale inesperienza di John Edwards. Dall’altro, Kerry è stato il candidato che più ha saputo riassumere su di sé le istanze dei suoi concorrenti: il pacifismo isolazionista di Dean, il multilateralismo militare di Clark, il populismo tariffario di Edwards. Apparirà dunque evidente fin da subito che il candidato Kerry parte con un problema da risolvere: come unire il pacifismo isolazionista con il multilateralismo militare passando per il populismo tariffario (19 marzo 2004).

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